45.

Berlino, Novembre 1943


I coniugi Hampel furono dichiarati colpevoli di alto tradimento e condannati alla ghigliottina, che calò su di loro negli ultimi di Gennaio, pochi giorni dopo la mobilitazione generale. Agathe accolse la notizia con stordimento, e affrontò i mesi successivi in un misto di incertezza e letargia. In lei ardeva ancora il desiderio di fare la differenza e di onorare il sacrificio dei suoi compagni, ma aveva troppa paura, troppi dubbi per poter agire. Forse, si rese conto in seguito, fu proprio questo a salvarla dalla forca, lasciando che la polizia allentasse la presa su di lei. Sicuramente tenevano sotto osservazione la casa, se non tutto il quartiere, nella speranza di trovare il terzo componente della banda. E se avessero riconosciuto la sua grafia? Se lei avesse per sbaglio lasciato un'impronta sulla carta? Se qualcuno l'avesse vista o col semplice sospetto l'avesse già denunciata? Eppure si ripeteva che nessuno avesse commesso errori, che lei non avesse commesso errori. Se era finita a quella maniera, era sicuramente per colpa di qualcun altro; chi fosse stato lei non lo avrebbe mai potuto sapere.

Ritrovò il coraggio di agire solo in Agosto, quando si seppe che il nemico era sbarcato in Italia e che in Russia la loro santa crociata non andava per il meglio. Mentre puliva gli uffici postali, approfittando di qualche momento in cui rimaneva sola, lasciava scivolare di tanto in tanto una o due cartoline in qualche cassetto, nella speranza che finissero in buone mani. In realtà, quei temerari tentativi di risvegliare le coscienze berlinesi erano stati più che altro frustranti, ma Agathe si ripeteva in cuor suo che non potesse – non dovesse – fermarsi.

Quando la sera tornava a casa si sedeva in camera da letto e rimaneva inebetita a perdersi nel vuoto oltre la finestra. Pensava ad Albert, si chiedeva perché non scrivesse dai primi di Febbraio, quando le aveva detto che si trovava vicino a una città di nome Charkiw, nella Russia meridionale, e che tutto andava bene.

Nonostante le dolci parole di conforto, la lettera odorava dell'inverno russo. Era chiaro che qualcosa si stava rompendo e che Berlino si trovava dentro un castello di vetro in procinto di crollare. Forse sarebbe stato meglio abbandonare la città, finché c'era ancora tempo, ma per andare dove? Agathe non lo sapeva. Non poteva far altro che dannarsi con quello e altri mille interrogativi e strapparsi i capelli fino a crollare per il sonno. Spesso si svegliava prima ancora del sole e così scriveva i suoi canti di protesta prima di andare a lavoro; mangiava poco e trascurava la casa, a malapena si curava di sé. Intorno a lei vedeva facce smorte e atterrite, drammaticamente silenziose; solo pochi fortunati si mostravano felici e fiduciosi, resi ciechi dalla propaganda. E così ogni giorno si era ripetuto identico per oltre nove mesi, finché non piovvero le bombe.

***

Quella notte si svegliò di soprassalto col rumore delle sirene e vide fuori dalla finestra un cielo in fiamme. Lampi di luce illuminavano sporadicamente le squadriglie di fortezze volanti che sganciavano il loro carico mortale sulla città, distanti, intoccabili. Senza concedersi il tempo di ragionare abbandonò ogni cosa e uscì di casa, lasciandosi trasportare dalla folla diretta ai rifugi antiaerei. Non le interessava degli altri berlinesi isterici troppo vicini, troppo insistenti, troppo rumorosi, che la toccavano, la tiravano, la spingevano tra i lampi ed il buio, delle mani ovunque che la trattavano alla stregua d'una palla di stracci. Avrebbe potuto morire lì in quel momento e non sarebbe cambiato nulla, né per lei, né per nessun'altro. E chi altro c'era poi? Era sola, sola in una città impazzita in un mondo troppo più grande di lei. Non aveva altra forza, se non quella di non cadere e farsi calpestare, e così ancora la trascinavano verso quella fragile nicchia sicura.

I rifugi si rivelarono, non appena mise piede sul primo scivoloso scalino verso il basso, troppo piccoli per accoglierli tutti. In molti tra i ritardatari imploravano i soldati di lasciarli passare e venivano rigettati indietro sotto le bombe. Tra le urla disperate si levò il pianto di un neonato, e Agathe si voltò in tempo per vedere una donna e suoi due bambini venir bloccati dai soldati. La fissò piangere, scuotersi, stringersi al petto i figli e rimase lì sui gradini, più impassibile dei soldati.

Non riusciva a fare un altro passo, non voleva essere inghiottita dalla terra. «Fatela passare» esclamò infine tra mille incertezze, «Le lascio il mio posto.»

I soldati all'ingresso si scambiarono occhiate perplesse, ma non si opposero. Lasciarono entrare la donna coi due piccoli e dispersero la folla rimasta, dicendo loro di andare a cercare riparo altrove; lei non li ascoltò.

Tornò verso casa e si lasciò cadere in un sottoscala, ripensando a quella giovane madre, chiedendosi se si sarebbe salvata, se la sua casa sarebbe stata risparmiata. Per un attimo ripensò a quei bambini, e si chiese perché lei non ne avesse ancora avuti. E forse, dopo tutte le difficoltà, i soldi contati uno a uno, la guerra in corso e il regime politico... forse era meglio così, anche se ormai era quasi arrivata a trent'anni e non aveva uno scricciolo da stringere a sé, anche se doveva sopportare le occhiatacce dei fanatici e di uomini e donne del partito, le male parole e la tassa punitiva. Forse gli aveva fatto un favore, a nascondergli un mondo così, ma chi poteva dirlo? Forse sarebbe stato meglio anche per lei non essere lì.

Non s'accorse nemmeno d'aver dormito, quando i rumori della strada la riportarono alla realtà.

Correndo a lavoro, poté notare che la città, tutto sommato, non aveva subito troppi danni: Wedding ne era uscito praticamente incolume, mentre il quartiere delle ambasciate e Charlottenburg erano stati devastati da numerosi incendi, alcuni ancora da domare. Sui cumuli di mattoni ai lati della strada s'affollavano catene di cittadini, intenti a svuotare a suon di secchi le stanze invase dai calcinacci, e le vie erano dominate dagli autocarri dell'esercito e della polizia.

Anche gli uffici dove lavorava erano stati colpiti, ma il lavoro al loro interno poteva continuare nonostante lo squarcio nel tetto. Si era a tanto così dal finire tra i disoccupati o gli sfollati, e questo trasformava ogni giorno in una piccola sorpresa.

Non fu il primo bombardamento, né l'ultimo, ma quella notte rimase la più temibile di tutto l'inverno: dopo ogni ondata le strade si facevano più deserte, la città più desolata; i treni in arrivo divenivano più radi, le fabbriche continuavano a vomitare armi e metallo, pur accusando il colpo; anche il parco di Tiergarten fu colpito – Agathe poté vederlo coi propri occhi mentre in tutta fretta attraversava Pariser Platz.

Il vecchio Hotel Adlon, invece, sopravviveva e manteneva solidamente la sua funzione. Louis Adlon, che dal '21 non aveva mai smesso un giorno di esserne il direttore, continuava a tenere aperto quell'edificio nonostante la costante perdita di clientela e personale. Molti, tra i baristi e i camerieri, i facchini e i manovali, erano stati chiamati alle armi come il povero Albert. Forse, data la situazione, Agathe avrebbe potuto tornare un giorno a lavorare lì, ma era un sogno in cui non credeva chissà quanto.

In un angolo della piazza, non distante dall'hotel, un anziano mutilato la salutò con un sorriso e un moncherino.

«Hugo» lo riconobbe lei, sorpresa. «Che ti è successo?»

«Una brutta sfortuna in Africa, tutto qua. È stato oltre un anno fa.»

Il barista aveva diversi anni più di lei, ma adesso sembrava che li separasse una vita intera: il viso era cotto e crepato dal sole, e il braccio destro spariva nella manica grigio topo all'altezza del bicipite. Hugo le sorrise.

«Buon dio, ora che fai?»

«Vivo di sussidi, e il signor Adlon aiuta me e altri che sono stati al fronte. Tu come stai? Che ne è stato del tuo fidanzato?»

«È al fronte, da tre anni. Ci siamo sposati.»

«Oh, mi fa piacere. Avrei dovuto immaginarlo. Be', Agathe, spero tu stia bene, e ti auguro una buona giornata.»

«Buona giornata a te, Hugo.»

Rimase lì, interdetta, mentre lui se ne andava in Unter den Linden. Si riscosse e s'avvicinò all'hotel. Tutto sommato, avrebbe dovuto odiare quel posto per tutti i problemi con cui s'era ostinato a ostacolare il suo matrimonio. In fondo era un concentrato di quanto di più odioso ci fosse in Germania – dopo i Nazisti ovviamente – e da lì non aveva mai visto nascere nulla di buono. Entrò nella sala comune e rimase a guardare i pochi burocrati e clienti che s'aggiravano intorno alla fontana degli elefanti neri. Ogni minuto che restava lì si convinceva sempre più di una cosa: il suo sogno non era tornare in quel posto, era ben altro. Ma forse era solo un'esagerata invidia.

Si tolse di testa quei brutti pensieri e, prima di andarsene per tornare a correre verso Kreuzberg, lasciò un altro dei suoi volantini di protesta sul bancone del bar.

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