40.
A 65 km da Varsavia, Settembre 1944
Krämer s'alzò col favore delle tenebre, prese il fucile e uscì dalla porta della cucina. Se sperava di non svegliare Weinrich, si sbagliava di grosso.
Albert aprì gli occhi; non riusciva a prendere sonno. Sentì il cigolio del pavimento e vide l'ombra oltre la porta. S'alzò silenziosamente, impugnò il Kar 98k e la baionetta e seguì il commilitone in mezzo alla campagna, tra i campi lasciati alle sterpaglie e in mezzo ai canali d'irrigazione. L'idiota sembrava troppo sicuro di sé per potersi guardare indietro e non lo notò, a malapena si preoccupava di non fare rumore. Superarono il cratere lasciato da un obice, una strada ormai cancellata dai combattimenti e una siepe rinsecchita, per finire in mezzo a quelli che un tempo dovevano essere stati degli alberi. Tutt'intorno erano sparsi sacchetti da trincea di tela ruvida e cassette in latta verde, in un angolo giaceva il treppiede rovesciato di una mitragliatrice scomparsa; da una buca arrivava l'odore nauseante della decomposizione. Krämer finalmente si fermò per inginocchiarsi, e Weinrich rimase a spiarlo. L'ex saldatore rimestava vicino a un tronco divelto dalle esplosioni e quasi ringhiava, tra una bestemmia e l'altra. Dal tronco provenivano rumori metallici di scatolame.
Weinrich, tenendo lo sguardo fisso sulla schiena curva di Krämer, s'avvicinò lentamente alla buca. Il terreno sotto gli scarponi era tenero, scavato di fresco, e il tanfo era tale da far arricciare il naso e offuscare la luna. Senza fretta, tenendo una mano alla gola, guardò dentro.
In fondo alla fossa giaceva una mezza dozzina di cadaveri, le uniformi grigie al chiarore della luna crivellate di fori. Qualcosa lì intorno, tra il tessuto irrigidito, i volti rosicchiati e la terra smossa, si agitava. Strisciava.
Trattenne un gemito di disgusto e s'allontanò dal carnaio di vermi. Era a un passo dal suo aguzzino. «Cosa cerchi?» gli chiese con piglio deciso. La risposta già la sapeva.
Krämer trasalì e si voltò, terrorizzato. «Cosa ci fai qui?»
Weinrich lo ignorò. «Cosa cerchi, ti ho chiesto.»
Krämer piegò lo sguardo, verso il fucile accanto a sé.
«Non ci pensare nemmeno.» Weinrich si avvicinò e guardò alle sue spalle, verso il tronco abbattuto. Appoggiata ad esso v'era una cassa di legno, di quelle che maneggiavano sempre anche loro al campo. Era troppo buio per leggere le scritte su di essa, ma intuiva cosa dicessero. L'avamposto doveva essere stato abbandonato in tutta fretta per un bombardamento, lasciandosi dietro attrezzature e rifornimenti.
«È per questo che siamo rimasti qui tutto questo tempo» gli disse, «Per la tua dannata droga.» Rovesciò la cassa con un calcio. Conteneva ormai solo incarti e spago.
Krämer si alzò, furente.
Weinrich gli mollò un pugno. Lo centrò in pieno viso.
«Sei un idiota, uno schifoso egoista. Un fottuto bastardo, ecco cosa sei.»
Krämer si massaggiò lo zigomo colpito, coi denti che scricchiolavano per la rabbia. Eppure non osava agire, sotto la minaccia del fucile.
«Domani ci rimettiamo in marcia, troviamo un modo per attraversare la Vistola e torniamo a Berlino.»
«Ti prego, qui intorno ci devono essere altri avamposti come questo...» borbottò l'orso.
«No!» urlò Weinrich. «Io torno a Berlino, con o senza di te!» Finalmente si calmò e pensò alle pattuglie che poteva attirare con tutte quelle grida. «Raccogli più proiettili che puoi, ci serviranno.»
Krämer, avvilito, lentamente obbedì.
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