3.
Berlino, Maggio 1932
Charles aveva diligentemente seguito il consiglio e s'era calato in piscina al primo insinuarsi del sole dalla finestra aperta su Pariser Platz, sperando che la tensione gli scivolasse sull'umido corpo asciutto e si sciogliesse nell'acqua cristallina e fumosa. L'ampia vasca, nascosta nei sotterranei del monumentale albergo, era silenziosa, di un silenzio ― appena rotto dallo sciabordio sommesso dell'acqua e dal gocciolare lontano dei pochi astanti ― come quelli che precedono il sermone di un pastore. Certo, era prevedibile a quell'ora del mattino.
Dal canto suo, Charles si era rigirato nel letto più e più volte, riuscendo a dormire appena un paio di ore, prima che un caldo inaspettato lo spingesse giù da quella mansarda spacciata per camera d'albergo. Era stato un Maggio terribilmente insonne, poco d'aiuto per i suoi tormenti interiori: innanzitutto, dove trovare altri soldi, e poi sempre quel tarlo che gli si rivoltava nello stomaco e scavava verso il cuore, e ora il tarlo oltre a un volto aveva anche un nome, che gli rimbombava nella mente e affondava in gola fino al cuore.
Leo.
Non sapeva proprio come liberarsene ― non voleva liberarsene.
Col passare dei minuti la piscina era stata popolata da pochi altri ospiti mattinieri come lui, tutte figure che parevano caricature uscite da una qualche operetta: un pasciuto industriale dai baffoni più grinzosi delle proprie gote lo salutò ammiccando; una vedova finta bisbetica arrivò solo per dilettarsi con un cameriere forzosamente adorante. Nessun bambino, pochi padri.
Charles riuscì quasi a farsi baciare dal sonno, mentre lo abbracciava l'acqua, ma un tremito improvviso lo destò. Dall'altra parte della pozza il bell'ariano avanzava, cercando il punto giusto in cui immergersi. Indossava un aderente costume a bande bianche e blu di Prussia, che gli copriva il petto ma non le spalle tornite. Percepì subito d'essere osservato e, quando incrociò gli occhi di Charles, gli ammiccò compiaciuto, silenzioso come suo solito. Nei pochi giorni trascorsi dal suo arrivo, Charles l'aveva incrociato qualche altra volta in corridoio, dopo la sua goffa richiesta a petto nudo, ma nessuno aveva mai fiatato finché, neanche fosse il suo dannato angelo custode, Fitz li aveva presentati e lui, contro ogni volontà, s'era ammutolito, stordito dall'estasi del momento.
Il tedesco raggiunse la scalinata e, lento e stoico a bollori e spettatori, entrò in acqua, sprofondò completamente sotto il pelo e attraversò con ampie bracciate tutta la vasca. Finalmente emerse, a pochi palmi da Charles, e lo fissò intensamente come lo aveva indagato al loro gioco di sguardi il primo giorno.
«Chiedo scusa, se disturbo» gli mormorò deciso nel suo inglese carico d'accento pomerano.
«No, assolutamente» replicò timido Charles in tedesco, ma il prussiano s'era issato di fianco a lui senza nemmeno attendere risposta. I loro gomiti, sopra il bordo vasca, si sfioravano appena.
«Anche lei è qui a tempo perso?» gli domandò dopo alcuni lunghi secondi.
Leonhard alzò un sopracciglio. «Come, scusi?»
«Voglio dire, mi perdoni, l'ho intravista dal primo giorno in cui sono arrivato e non ho mai scorto una valigia, quindi pensavo che, come me...»
L'ariano gli sorrise dolcemente ― di nuovo, irritante eppure amabile ― e gli lanciò un'occhiata complice. «Di dov'è, Sir?»
«Del Kent... La prego, mi chiami Charles.»
«Sì, avrei dovuto capirlo dall'accento. Be', Charlie, si vede che non conosci questo albergo; puoi chiamarmi Leo.»
Charles non dette peso al tono d'improvviso fattosi informale. Anzi, lo stuzzicò e gli mandò un fremito alle ginocchia immerse nel bollore.
«Non proprio, sono già venuto a Berlino con mio padre, anche se ero troppo piccolo per mettere il naso fuori dall'ambasciata. Sarà stato... nel '20, credo. Sì, ne sono sicuro. Avevo a malapena nove anni.»
«Appunto.» Leo piegò la testa e guardò gli ultimi arrivati. «Guarda quella vecchia, che gioca a essere ancora nel fiore degli anni. Cosa ti fa pensare?»
«Non so, che è frivola. E che il cameriere avrà la mia età. Lei capisce che lui lo fa per lavoro?»
«Oh, lo sa perfettamente, è parte dell'esperienza all'Adlon. Ma non è questo...»
«E cosa?»
Leonhard allungò il gomito. Charles fu scosso dal tocco.
«Che la vecchia sta urlando di agonia, dentro di sé. Tutti possono vederlo. Finge d'essere nei suoi giorni passati perché sa che fuori da queste mura non ha futuro.»
«Non mi sembra tanto pallida e debole.»
Leonhard lo toccò di nuovo e si voltò, per poter guardare l'inglese negli occhi verdi e ocra.
«Charlie, quest'albergo è un mausoleo per quelli della nostra casta; quelli come noi si rinchiudono qua dentro per fingere che la Grande Guerra non sia mai avvenuta e si sia ancora ai tempi degli imperi, del Kaiser. Si lasciano morire mentre là fuori le masse prendono le strade e votano democraticamente. Anche noi siamo qui per un motivo simile, per una cosa o per l'altra... Perché sappiamo che la nostra vita è già sprecata.»
«Io non lo penso. Tu lo pensi? Per quale motivo?»
Il prussiano sbuffò. «Potrei farti le stesse domande. E sono sicuro che risponderemmo entrambi alla stessa maniera.»
Charles si rabbuiò, e per un attimo pensò di nascondere gli occhi sotto il pelo dell'acqua.
«Preferisco non parlare della mia famiglia.»
Leonhard colse educatamente l'antifona. «Sai chi ha fondato questo hotel?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Lorenz Adlon, un signor nessuno alla nascita, però s'è saputo far valere, ed era un convinto monarchico. E sai com'è morto?»
«No...»
«Investito qui in Pariser Platz, non si voleva ficcare in testa che il viale centrale non era più riservato al Kaiser.»
«Che sfortuna.»
«Non è sfortuna, è cocciutaggine: l'hanno messo sotto due volte, mi hanno detto.»
«Povero diavolo, aveva strane ossessioni.»
«Quantomeno una certa dose di ironia, non credi?»
«Mi fido delle tue parole.»
Leo annuì e cambiò argomento: per un po' parlò di cavalli, se ne intendeva. Adorava i frisoni.
«Sai, se fossi nato anche solo dieci anni prima mi sarebbe piaciuto entrare in cavalleria. Ma che dico... se fossi nato un secolo prima.»
Charles per un attimo ripensò a casa.
«E in che specialità ti vedi?»
«Gli ussari: ammiro il loro piglio suicida, altro che determinazione. Li invidio, vorrei avere io il loro coraggio, la loro spavalderia, il vezzo dei duelli come si faceva ai tempi... a casa, non qui a Berlino, ho due sciabole, di cui una francese usata a Ligny. Un cimelio di famiglia, l'unico regalo mai ricevuto da mio padre.»
«Un vero peccato non poterle vedere.»
«Già. Sai, in fondo penso che il loro spirito, dico, la loro bandiera sia stata raccolta dai moderni aviatori. In fondo cosa sono, se non i nuovi ussari di questo secolo?»
«Certo senza tutti i loro fronzoli.»
«Sicuramente senza buffe treccine» concluse Leo, toccandosi le tempie.
Charlie si lasciò sfuggire una sincera risata all'immagine del biondo tedesco vestito all'ungherese e conciato come un Gallo dei tempi antichi.
Leonhard parve apprezzare. «Un vero peccato che ci sia stato vietato. Se solo avessimo un'aviazione... ma sono solo sogni infantili.»
«Versailles?»
«Esattamente.»
Charles giocò per un po' con le increspature dell'acqua, cercando qualsiasi cosa pur di continuare a parlargli. Alla fine non trovò altra scusa migliore che chiedergli: «Che lavoro fai, Leo? Perdona la curiosità.»
Il tedesco storse il naso e pesò attentamente la risposta. «Soddisfo desideri, se così si può dire. Tu? Perdona se sono vago.»
Charles si ritenne insoddisfatto, ma gli avrebbe perdonato molto altro. «In realtà lo sto cercando» rispose, «Sono qui da... quanto, una settimana? E non ho ancora trovato nulla, ma non mi va di chiedere aiuto ai vecchi sottoposti di mio padre. Anche perché lui... Al diavolo, non lo approverebbe.»
Leonhard roteò con pigrizia la testa e gli mostrò il collo rasato alla perfezione, la pelle tesa. Candida. Molle.
«Ti andrebbe di seguirmi nella sauna? Ho bisogno di qualcosa di più drastico.»
Charles ci pensò su qualche secondo, per non sembrare troppo facile alla tentazione, e si lasciò andare a un innocente cenno d'assenso.
Uscirono dall'acqua, superarono un colonnato corinzio e una fila di lettini, attraversarono un breve corridoio piastrellato d'azzurro e infine si ritrovarono davanti ad alcuni armadietti metallici. Leonhard si piegò scattando e senza indugio si sfilò il costume, rimanendo completamente nudo, mostrando a Charles le spalle tornite. Pareva un eroe attico.
Charles in un primo momento distolse lo sguardo imbarazzato, poi l'imbarazzo lasciò il posto alla curiosità, all'estasi e quindi all'adorazione più sincera. Ora capiva davvero Stendhal. Ma non appena scese lungo la schiena l'estasi fu scacciata da un senso di raccapriccio.
«Cosa ti è successo?» gli chiese con una vena di disperazione.
Leo si portò una mano ai lombi, accarezzando una fitta nube di piccoli tondelli pallidi che marchiavano la pelle. «Ho mentito, in una certa misura: le sciabole non sono state l'unico regalo di mio padre. Siamo d'una goccia più simili, come vedi, no?»
«Perdonami.»
Leo si voltò e rimase imperturbabile a indagare gli occhi del compagno. Charles si concentrò sui suoi zigomi - Non abbassare lo sguardo, si ripeté. Cosa voleva il prussiano, sfidarlo?
«Avanti, Charlie, non vorrai entrare in sauna così? Forza.»
Charles si rese conto che non era mai stato in una sauna, ed ecco, d'un colpo ne capiva il motivo. Era stato uno stupido. Lentamente, con non poco impaccio e le dita che tradivano l'emozione, si slacciò i pantaloncini e sfilò la canotta.
Leo gli allungò un asciugamano di cotone. «Tranquillo. Se non ti senti a tuo agio, usalo.»
«Me la sento. Perfettamente.»
Entrarono in un cubicolo vuoto, immerso nel vapore e nella penombra. Le piastrelle sabbiose riflettevano a malapena i bagliori della bassa stufa in ollare che, al centro della stanza, riscaldava alcune pietre vellutate. Leo si sedette in un angolo su una panca - gelida al confronto con l'aria - e invitò Charles a sedersi di fronte a lui.
Charlie eseguì.
Il compagno prese un mestolo e versò da un secchio acqua sulle pietre. Il fumo li avvolse sfrigolando.
«Bene, ora che abbiamo un po' più d'intimità, parlami liberamente di te» disse Leo. Sembrava intenzionato ad andare dritto al sodo. «Allora, cosa ti ha spinto a venire a Berlino tutto solo? Sono tempi inquieti per giovani sbandati come noi.»
Charles sentì l'aria attaccarsi alla pelle; non riusciva a respirare ma si ordinò di resistere. Leo gli si avvicinò, stringendo gli occhi di lapislazzuli e arricciando le labbra.
«Cosa intendi con soddisfo desideri?» lo interrogò Charles.
Leo serrò le palpebre e si ritrasse. «Una domanda alla volta. È l'etichetta.»
Entrambi ignorarono senza battere ciglio che Charlie, per una sfortunata congiuntura, tra i due era superiore di dignità.
«Mio padre...» cominciò lentamente a dire Charles «...mi ha tenuto in collegio per buona parte della mia vita. Si può dire che praticamente finora non abbia vissuto, costretto ad andare avanti e indietro da un villaggio di porcari nel Kent a uno di pecorari in Cumbria. Scusa, troppo specifico.»
«Non importa. Mi par di capire che non apprezzi la campagna.»
«Beh, non è che abbia mai visto propriamente la città. A malapena so com'è fatta Londra.»
«Dopo un mese in questo albergo rimpiangerai la tua tranquilla vita agreste, credimi.»
«Un mese non mi basterà.»
«Stai divagando. Dicevi, tuo padre...»
Charles trattenne un accesso di tosse. «Sì, mio padre... ecco, pretendeva troppo controllo: lavora nell'ufficio che ti dico io, dormi nel letto che ti dico io, sotto il tetto che ti dico io...»
«Sposa la donna che ti dico io.»
«Esattamente» ammise Charlie a fatica. «Gli ho risposto che sarei andato via senza una lira, se necessario.»
«E sei venuto a Berlino perché è l'unico posto abbastanza lontano che conosci, vero?»
«Ho studiato tedesco e almeno ho un'idea di com'è fatta, questa città. Era la soluzione più logica.»
«Conosci la città, ma non i tedeschi: la logica l'abbiamo lasciata a Versailles. Ma almeno ti sei regalato la possibilità di vedere l'alba da vicino, quando verrà il giorno.»
«Ti aspetti qualcosa di grande?»
«Non lo senti? È nell'aria. Vibra.»
Charles provò a schiarirsi la gola, ma quel groppo che lo tormentava dal suo ingresso là dentro non accennava a sparire. «Tocca a te.»
Leo si lasciò sfuggire una smorfia, ma il buio la nascose.
«Faccio quello che ho detto, soddisfo desideri. E risolvo dubbi, rispondo a chi ha domande ma non sa dove trovare risposte, cose così.»
«Ossia? Aspetta, sei una... spia?»
«Sarei una pessima spia, non credi? Semplicemente procuro informazioni, e come me le procuro... non è la stessa cosa di una spia, no? Mi limito a leggere bene i giornali.»
«E a prestare orecchio alle persone giuste?»
«Quando capita.»
«Dubito.»
Leo versò ancora dell'acqua. «Vedila come vuoi.»
Il vapore penetrava gola e narici e riempiva i pori della pelle.
«Scusami, non dovevo. Era meglio non parlarti. Mi sono illuso...»
«Illuso? No.»
Leo si piegò e lo guardò ancora negli occhi. Alzò un braccio e gli accarezzò una guancia, sfiorando col pollice le labbra vermiglie dell'inglese. Charles poteva sentire il respiro dell'uomo, attraverso la densa nebbia, sulla sua bocca. Gli occhi gli bruciavano, e per qualche battito di cuore smise di respirare.
Leonhard s'alzò e si avvicinò alla soglia. «Prenditi il tuo tempo prima di uscire.»
Charles strinse le palpebre e prese l'asciugamano. Rimase solo nel cubicolo buio, insieme al suo turgido imbarazzo.
―――――
Pound Sterling: letteralmente lira sterlina, nome completo della moneta inglese.
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