27.

Berlino, Settembre 1940


Agathe tornò dal lavoro stanca come sempre e appena rientrata si appoggiò sulla prima sedia che vide in cucina, smettendo finalmente il buon sorriso e la finta fedeltà che doveva mostrare davanti ai gerarchi.

Tanti erano i pensieri e la fatica che in un primo momento non s'accorse di Albert, seduto all'angolo opposto della stanza, il capo chino in un pozzo di timori.

«Oh, Albert, tesoro, buonasera. Com'è andata la tua giornata? Parlato con Otto?»

Albert non rispose, non alzò il capo; tremante fece strisciare lungo il tavolo il foglio spiegazzato che teneva davanti.

«Che succede?» chiese Agathe preoccupata sollevando quella che era una lettera.

Riconobbe subito l'intestazione: era dell'OKW, l'alto comando delle forze armate.

«Albert, tu...?»

«Alla fine è successo, tesoro mio.»

«No, ti prego. Non puoi andare.»

Albert alzò il capo. Gli scuri occhi erano velati. «Devo» insistette, «Come posso oppormi? Domani devo presentarmi al centro di reclutamento.» Sospirò e cercò il coraggio.

Agathe rovesciò la sedia e corse da lui, a cercare le sue mani forti e dure, le sue spalle strette, il suo calore. «Fuggi, piuttosto! Nasconditi da qualche parte, ma non andare al fronte. La paura di perderti mi ammazzerà prima di questa stupida guerra.» La voce le si ruppe, si fece incerta e lasciò il passo ai singhiozzi.

«Vorrei avere il tuo coraggio, Agathe mia, mio piccolo gioiello... ma io... non posso oppormi, capisci?»

«Non voglio, Albert, non voglio perderti... non anche te.»

I singhiozzi scuotevano entrambi.

«Mi dispiace.»

Agathe si staccò a fatica, trascinata da una mano invisibile, e si girò verso i fornelli. Doveva impegnare le mani o cedere all'emozione.

«Hai bisogno di lavarti? Io devo preparare la cena.»

«Agathe, non piangere, ti prego. Lascia stare.»

«Perché? Perché te? Sei troppo vecchio per fare il soldato! Perché? Non hanno bisogno di te, non ne hanno bisogno. Ne hanno già abbastanza da mandare a morire nella dannata Inghilterra!»

«Agathe, vieni qui, ti prego. Ecco, siediti sulle mie gambe. C'è... ci deve essere un disegno più grande, per noi, che adesso ci sfugge. Agathe guardami, per favore, guardami. Se Dio vorrà, tornerò, te lo prometto.»

«Non mi bastano le tue promesse, Albert. Non mi basta il favore del tuo stupido dio. Io voglio te, domattina, al mio fianco nel letto, e così la sera e ogni giorno ancora!»

«Non piangere.»

«Va' a lavarti, dobbiamo mangiare.»

«Agathe...»

«Albert!»

Albert obbedì e filò via, e lei rimase a piangersi addosso e a combattere con i tegami, a chiedersi come avrebbe fatto da sola, rinchiusa lì, in una città sempre più... straniera.

Ogni boccone fu un pugno nello stomaco quella sera, e Agathe sperò che si strozzassero entrambi, lì in quel preciso istante, ma fortunatamente le sue speranze rimasero solo speranze. Dopo cena Agathe lasciò che Albert andasse a preparare quel poco che aveva da mettere in valigia e uscì dall'appartamento per sfuggire a quella loro comune intimità.

Certamente non s'aspettava di trovare davanti a sé Otto Hampel.

«Oh, buonasera» la salutò lui, interdetto.

Per un attimo i suoi occhi furono attraversati dalla paura, la stessa che Agathe aveva visto il giorno prima negli occhi della moglie.

«Dove va così a tarda ora?» gli chiese asciugandosi le guance. Ora avrebbe sicuramente ricevuto in risposta la stessa domanda.

«A consegnare della posta. Va tutto bene, Agathe?»

«Hanno... hanno chiamato Albert.»

«Era nella riserva? Mi dispiace, davvero. Ma Albert è assennato, vedrà che se la caverà.»

«Vorrei non partisse affatto. Maledetta questa guerra, e maledetto il Führer!»

Otto, più assennato, si guardò intorno preoccupato, e accarezzò una spalla della ragazza. «Non dovrebbe parlare così, è pericoloso.»

Agathe si ritrasse di scatto. «Come può dirmi questo? Non ha già perso un... un parente in questa stupida guerra?»

«Sì» ammise Otto guardandosi ancora attorno. Sicuro che fossero soli, infilò una mano nel cappotto, e tirò fuori una cartolina. «Agathe, mia cara, la pensiamo allo stesso modo, mi creda, ma parlare così apertamente può essere pericoloso. Meglio esprimere il proprio dissenso in maniera più... costruttiva, ecco. Tenga.»

Agathe prese con incertezza la cartolina e se la rigirò tra le mani. Al centro del retro campeggiava un francobollo con la faccia del Führer graffiata via.

«"L'assassino di operai e la sua banda ci immergono nell'abisso, stampa libera..."» Agathe guardò il vicino con occhi nuovi. «Otto, questa è sedizione.»

«Sì, Agathe, ma sento di potermi fidare.»

«Io... io...»

«Non importa, torni a casa. Sono sicuro che Albert ha bisogno di lei adesso.»

«Io la voglio aiutare, Otto. Non importa quanto è pericoloso, voglio essere utile a qualcosa. Ditemi cosa serve e farò il possibile per dare una mano.»

Otto le sorrise e si voltò verso la porta. «Sono sicuro che domattina potremo parlarne con più tranquillità» le rispose, e s'avvio verso la strada.

«Sì» esclamò decisa Agathe, e lo guardò chiudersi il portone alle spalle prima di tornare in casa.

Albert era in cucina, a rimettere le ultime cose in ordine. «Sei già tornata» le disse sorridendo malamente.

«Albert, fuggi stanotte.»

«Ancora? Perché lo dici?»

«Fallo per me, ti prego.»

«Cos'hai in mano, Agathe? Fa' vedere.»

Albert le si avvicinò, e nella testa di Agathe non si fermò nemmeno per un attimo il pensiero di nascondere al suo amato tutta quella sporca faccenda.

«Chi te l'ha data? È la scrittura di Otto questa?»

«Sì» ammise lei.

«Agathe!» sbraitò Albert, gettando a terra il cartoncino, «Stupida, stupida illusa! Finirai per metterti nei guai così!»

«E cosa dovrei fare, stare a guardare mentre...?»

«Non puoi smuovere montagne da sola, te lo vuoi far entrare in testa? Non possiamo sfuggire a questa macchina, basta credere alle favole!»

«Albert, se ci provo è perché ti amo.»

«Dannazione, è tradimento questo! Puoi finire ammazzata!»

«Non m'interessa, se è per una buona causa.»

Albert alzò le mani e si voltò.

«È inutile, vado a dormire. Vieni anche tu, spero che il sonno ti faccia ragionare.»

«Vai prima tu, ho bisogno... ho bisogno di qualche minuto per me.» Fu l'ultima cosa che gli disse.

Rimase per un po' da sola, pregando che quello fosse solo un incubo da cui risvegliarsi tutti quanti, ma s'illudeva.

Raggiunse il letto e si stese a fianco al suo amato Albert, gli accarezzò il petto sotto le lenzuola, ma lui non si mosse e lei si abbandonò al sonno, un sonno pieno solo di mostri.

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