24.

Bielorussia, Dintorni di Minsk, Giugno 1944


Aveva camminato senza sosta per tre giorni, razziando una fattoria abbandonata dopo l'altra, prima di crollare in un fosso al margine dei campi. Si svegliò poco dopo l'alba, e s'accorse d'essere tornato sulla strada per Minsk. Nel giro di poco tempo, una colonna di autocarri Blitz si presentò rumorosamente alle sue spalle e lo superò. Weinrich fissò i soldati ammassati sotto i teloni cerati dei cassoni: nessuno stava messo meglio di lui.

Uno dei mezzi si fermò e il suo carico di carne da cannone lo aiutò a salire. Weinrich tirò un sospiro di sollievo, ma in poco tempo la sensazione di scampato pericolo gli fece tornare la percezione del dolore. Per fortuna era troppo stanco per urlare.

«Da dove vieni?» gli chiesero.

«Da Slo... Slopoitsa, a 25 chilometri da Mahiljou, o come cavolo si pronuncia.»

«Anche lì vi è andata male? Dov'è la tua unità?»

Weinrich scosse la testa e non riuscì a rispondere meglio.

Mentre avanzavano verso una grossa città incrociarono una colonna di Panther. I terribili mastodonti di metallo procedevano in fila, diretti al fronte, costringendo gli Opel Blitz a correre lentamente con una ruota sullo sterrato. Uno dei camion si piantò e i soldati, in mezzo al ruggire annientante dei panzer e ai miasmi della benzina bruciata, preferirono abbandonarlo, piuttosto che perdere tempo a tirarlo fuori dal fango e controllare l'asse.

Nel pomeriggio superarono le batterie di obici pesanti e arrivarono alla periferia di Minsk, apprese Weinrich, dove si stava organizzando la resistenza. Gli uomini furono fatti scendere e i peggio messi furono spediti negli ospedali da campo. Weinrich si ritrovò davanti un terrificante ufficiale in uniforme nera, di quelle che non si vedono al fronte. Il Totenkopf delle SS riluceva sul suo berretto. L'ufficiale gli squadrò le controspalline e gli chiese la piastrina di riconoscimento.

«Weinrich... non è un cognome ebreo, Obergefreiter?» gli domandò.

«No, signor Obersturmführer. Sono di Berlino così come lo erano i nonni dei miei nonni, lo giuro. E poi il mio nome è Albert, signor Obersturmführer, Albert Weinrich. Tedeschissimo.»

L'ufficiale sorrise malignamente.

«Sei l'unico sopravvissuto del tuo settore, Obergefreiter Albert? È una storia che puzza di diserzione.»

Weinrich buttò giù la saliva.

«Dov'è il tuo fucile, eh, Obergefreiter?»

«Me l'ha strappato di mano un russo, signore. Sono vivo per miracolo.» Pregò che l'SS non mangiasse la foglia.

«Va' a prenderti un'arma, Obergefreiter, e tienitela stretta.»

Weinrich batté i tacchi e tirò un sospiro di sollievo. Quella stessa sera, con ancora i crampi della fame, fu di nuovo in una trincea, a eseguire ordini. Si addormentò pregando, spossato, in attesa che accedesse qualcosa, sperando di ricevere un segno.

La mattina lo trovò irrequieto e rallentato, ancora lontano dal riposo. Sentiva il bisogno del Pervitin, ma non c'erano sergenti a distribuirlo per lui.

«Weinrich.»

L'angoscia lo assalì al sentire una voce familiare alle sue spalle. «Krämer...»

«Stai bene?»

Weinrich si fece piccolo davanti a un tale gigante. Provava vergogna. «Dove sono gli altri?» chiese al ritrovato camerata.

«Morti, Weinrich, tutti quanti.» Il soldato Krämer si guardò intorno e s'avvicinò. Pareva ancora più grosso del solito, e Weinrich ebbe paura per il suo collo. «Sta' tranquillo. Non dirò a nessuno che sei scappato» gli sussurrò quello.

Quasi si pisciò addosso, a sentire quella parola.

«Tranquillo, pure io avevo una paura fottuta. Siamo sulla stessa barca.» Krämer si sistemò l'elmetto sporco. «Senti, devo chiederti un favore, però. Puoi?»

Un altro fante passò nella buca, e Krämer s'ammutolì e si fece da parte. Per quel giorno non toccò più il discorso.

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