22.

Berlino, Dicembre 1933


«Forza, alzati, sciocco, o farai tardi a lavoro.»

Charlie rigirò la testa nel cuscino, sperando che il sole se ne andasse, e allungò una mano verso la gamba che aveva a fianco, lunga, asciutta. Attraversò la peluria soffice e affondò la mano tra le natiche di Leo, strappandogli un gridolino sorpreso.

Il suo Adone scattò in piedi divertito e rovesciò le coperte, tirandole a sé. Il sole vinse e s'aprì una breccia tra le palpebre ancora abbracciate di Charlie, che si stiracchiò e con affanno si sollevò sui gomiti.

Leo era completamente nudo, splendente come sempre.

«Avanti, Charlie, la giornata chiama.»

«Resta qui...»

«Non posso.»

Già era sulla sedia dove aveva ripiegato i vestiti, a coprirsi con la stessa camicia fumosa che la sera prima Charlie gli aveva vogliosamente sbottonato.

«Mi hai nascosto la cintura, figlio d'un porcaro?»

Quanto si pentiva di avergli rivelato quel nomignolo dei tempi del collegio, Dio solo lo sapeva.

«Sarà sotto il divano, cercala.»

«Chissà chi l'ha fatta finire lì. Vado a riscaldarti l'acqua, ultimo avviso.»

«Sono sveglio, giuro.»

«E in piedi.»

«Sì, eccomi.»

Mentre entrava in bagno, Leo lo superò per uscire e gli restituì il pizzicotto sulla chiappa.

«Ahia.»

«Vedi, aiuta a svegliarsi.»

Charlie gli prese la mano prima che potesse fuggire via. Erano lì, sulla soglia tra il bagno e il letto, il bruno inglese completamente nudo e il tedesco con appena le mutande e la camicia ancora aperta, i polsini ripiegati come farfalle.

Quanto avrebbe voluto fare ancora l'amore, lì, sulla porta.

«Fallo ancora, ti prego» gli mormorò lascivo.

«Pervertito.»

Gli diede un bacio. Pizzicavano entrambi.

Il bagno attendeva, il pino della spuma pungeva le narici, l'acqua era appena tiepida. Poteva affogare lì e morire felice, finché avesse avuto Leo a stringergli la mano, a intrecciare le dita con lui.

«Ti aspetto tra venti minuti al solito tavolino. Non fare tardi» gli disse l'Adone una volta ricomposto, lo baciò ancora chinandosi sulla vasca da bagno e gli accarezzò i capelli.

«A dopo» gli mormorò Charlie, e a sentire la porta schiudersi dolcemente temette di riaddormentarsi e scoprire d'esser stato solamente in un dolce sonno.

***

Leo richiuse la porta delicatamente, senza fare rumore. Si voltò appena in tempo, un facchino svoltava nel loro corridoio e procedeva verso le loro stanze. Lo superò e si diresse all'ascensore, tastandosi la giacca in cerca della tabacchiera. Quello, alle sue spalle, bussò a una porta. La 675, la sua, notò con la coda dell'occhio.

«Signor Von Hinten?» gli domandò il facchino non ricevendo risposta dalla stanza.

Era un ragazzetto, così giovane. Doveva essere uno nuovo.

«Sì, sono io» gli rispose Leo, voltandosi. Ora cercava seriamente la tabacchiera.

«Un biglietto per voi, signore.»

«Da' qua. Tieni, per il servizio.»

Gli lanciò uno pfennig e lo controllò mentre imboccava le scale di servizio, e solo allora si diresse all'ascensore, dove nell'attesa lesse il messaggio.

Doveva essere di Fitz, immaginò. Sì, lo era. E maledizione, aveva dimenticato le sigarette in camera di Charlie.

Chissà per quale ragione Philip gli voleva parlare, solito tavolo da prenotare nel ristorante numero 4 dell'hotel. Niente vino. Non sembrava per nulla una cosa buona, e certo non avrebbe potuto opporsi con una chiamata, calcolò mentre le grate s'aprivano sferragliando.

«Piano terra» ordinò al liftboy, e rilesse ancora il messaggio prima di cacciarselo nella tasca che avrebbe dovuto contenere la maledetta scatoletta d'argento.

Non appena l'ascensore atterrò con un morbido sobbalzo saltò spedito lungo le gradinate, raggiunse il café dove ogni mattina facevano colazione e chiese a un cameriere di portargli tutti i giornali, come sempre. La pila s'era abbassata, nell'ultimo anno: il Vorwärts aveva interrotto la pubblicazione, e Leonhard già prospettava che di lì a un anno sarebbero rimasti in circolazione solo il Völkischer Beobachter e il Deutsche Reichsanzeiger.

Fu una colazione distratta, probabilmente Charlie lo notò, tra un'omelette e una fetta di pane. Leonhard aveva già la testa al pranzo, e salutò distrattamente quando il compagno s'alzò per andare a lavoro, senza nemmeno guardarlo.

S'era lamentato ancora di quanto odiasse fare l'impiegato? O aveva chiesto cosa fare con Dalila? Nemmeno aveva badato, in fondo era ordinaria routine. Si sarebbe scusato quella sera, comunque, prima che li raggiungessero le ragazze.

Che fosse arrivata l'ora di abbandonare quel rifugio? Sperava vivamente di no, anche se Erika e Dalila avevano già fatto una proposta piuttosto discutibile, che era già pronto a declinare. Non avrebbero retto una settimana, tutti e quattro insieme rinchiusi a Rote Insel.

S'alzò con la colazione ancora per metà nel piatto, ridotta a una massa fredda e insipida, lasciò l'hotel e vagò per Mitte alla ricerca d'un telefono pubblico. Non sapeva bene chi cercasse, pensava solo a contattare qualcuno dei suoi informatori ma per chiedere cosa gli sfuggiva. Si sentiva intontito, come se fino a quel momento fosse stato avvolto da una bolla.

Iniziava a intravedere un possibile motivo dietro la richiesta di Fitz, e temeva sempre più di averci preso: da quanto aveva perso di vista il lavoro?

Rimase in Tiergarten fino a mezzogiorno, in attesa di Dio solo sa quale segnale, e non appena sentì alcune campane lontane tornò in albergo e si presentò al ristorante. Attese una mezz'ora seduto al tavolo, ma del suo convitato neanche l'ombra.

Aveva bisogno di rinfrescarsi, faticava a ragionare. S'alzò, rimase in bagno cinque minuti, giusto per bagnare il viso e respirare, il necessario affinché Fitz si materializzasse seduto al tavolo, al suo posto. Quando gli si sedette di fronte l'inglese lo squadrò come se avesse atteso una vita.

«A cosa devo l'onore, Fitz?»

Fitz rispose con pigrizia. «Andrò dritto al sodo, Leonhard, non c'è bisogno di girarci troppo attorno: i miei superiori non sono soddisfatti del tuo rendimento.»

«Immaginavo.»

Ordinarono petto d'anatra all'arancia con uvetta per entrambi, e lo accompagnarono con del delicato Butterkäse e un contorno di Kartoffelknödel.

«Nell'ultimo anno, caro Leonhard, hai lasciato parecchio a desiderare, e per questo sono qui, a ricordarti che hai dei doveri nei nostri confronti. Non sei d'accordo?»

«Certamente, Fitz. Sto facendo del mio meglio.»

«Del tuo meglio? Leonhard, non prendiamoci in giro. Dov'eri quando davano fuoco a metà delle librerie di Berlino? Hai detto qualcosa sulla soppressione dei diritti di stampa e associazione? E sull'abolizione dei partiti politici? No, caro Leo, temo tu ti sia impigrito, proprio quando i miei superiori si aspettano risultati di una certa...»

«Ho capito, Fitz, non è facile di questi tempi, d'accordo?»

«Per non parlare poi di alcune dicerie.»

Leo si cacciò una foglia di formaggio in bocca. Era così tenero da sciogliersi sulla lingua.

«Vedi, si parla di alcuni campi di prigionia già da un po' di tempo, e vorremmo proprio capire che cosa intende farci il signor cancelliere. Tu ne sai niente?»

«Dammi un mese, Fitz, e avrai la tua pista. Puoi contarci, davvero.»

«Leonhard, te lo dico da amico. Non sei l'unico informatore a nostra disposizione, e i tagli di bilancio sono una spada di Damocle sopra la nostra testa ogni fine mese.»

«Stai puntando sul cavallo sbagliato se non sono io, lasciatelo dire.»

Fitz sospirò, per niente convinto, e attese che servissero l'anatra e gli Knödel.

«Leonhard, non è colpa mia se da quando Hitler è al comando sei diventato completamente inutile, purtroppo... ma non per me. Io voglio aiutarti, infatti.»

«Sentiamo, in che maniera?»

«Lo so che sei distratto dal nostro amico comune. Deprecabile, sì, ma chi sono io per giudicare? Certo, la memoria di suo padre mi obbliga ad assicurarmi che non si metta nei guai, e non vorrei che qui diventasse troppo pericoloso per lui.»

«Tienilo fuori da qualsiasi nostra faccenda, Philip, non t'azzardare nemmeno a pensarci.»

«Dico solo che potrei dovergli consigliare di tornare a casa, per la sua salvaguardia. Voglio dire, ha ancora una sorella ad attendere che torni, per sua fortuna. E non potrò certo pagare più di un biglietto, i viaggi in aereo costano.»

«Chi ti dice che avrà bisogno dei tuoi soldi?»

«Cosa dovrebbe fare, tornare in nave come un uomo qualsiasi?»

Leo si morse la lingua.

«Come va la proprietà in Pomerania?» proseguì Fitz, «Immagino le rendite siano calate, visto come l'hai trascurata in questi due anni dacché tuo padre è morto.»

«E con ciò?»

Philip assaggiò appena l'anatra, si pulì la bocca e poggiò le posate.

«Credimi, non è nel mio interesse ridurti i finanziamenti, lo dico per il bene di entrambi. Basta un dispaccio al mese, non chiedo molto, anche semplicemente la rendicontazione di quella buffonata che chiamate parlamento. Ma ho bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, per giustificare la spesa.»

«Il Reichstag è chiuso, Fitz, questo lo so anche io.»

«Giusto. Peccato, l'anatra era divina.»

L'inglese si alzò, sistemò la sedia e chiamò un cameriere per farsi portare la giacca.

«Forza, Leo, credo in te» gli disse stringendogli un braccio, «Non deludermi.»

«Buona giornata, Fitz.»

Uscito il diplomatico, Leo rimase a guardare la carne nel piatto, giocò con l'uvetta, se ne portò un chicco alla bocca. Troppo dolce, ma la carne rivaleggiava in tenerezza col formaggio.

Gli ricordava casa, in fondo.

Lasciò il cibo così com'era e tornò in camera, cercando qualcosa per alleviare il nervosismo e il senso di colpa.

Ma maledizione, aveva proprio dimenticato la tabacchiera da Charlie.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top