14.
Berlino, Settembre 1932
Ogni tanto uscivano dalla loro acropoli così sigillata e percorrevano le vie di Berlino, come due amici qualunque, in piena luce. Tutto sommato nessuno badava loro, anche perché Leo si curava diligentemente di non destare il minimo sospetto su cosa fossero davvero: due innamorati, nulla più, eppure... sì, il timore che si fosse pericolosi per chissà chi sopiva sempre da qualche parte, sotterrato nel fondo della coscienza. Comunque, non appena i vicoli si facevano bui la sera e s'allontanavano dalla folla quel tanto che bastava, Leo si faceva perdonare tutto, e con gli interessi: baci, carezze e parole dolci che tuttavia non riuscivano a soddisfare la sete di attenzioni di Charlie, la sua fame di affetto mai appieno sopita.
Una volta Leo – proprio il suo Leo così rigido e immacolato – ebbe l'ardire di farlo godere lì, nascosti dall'ansa di un canale che divideva Mitte e Moabit, al riparo di un faggio troppo imbarazzato per dir loro qualcosa e farli scappare.
Un pomeriggio ancora baciato dal sole, in una giornata di tardo inverno, Charlie osò stringergli per un attimo la mano, un'azione così fugace che Leo non ebbe il tempo di ritrarsi, ma solo d'allungargli un'occhiata glaciale.
«Dio, ho una voglia matta di pesche. Non so cosa darei per una pesca ora» gli sussurrò tirandogli il cappotto e indicando un negozio di frutta all'angolo d'una via di Prenzlauer Berg stretta da alti casermoni asfissianti del vecchio impero, tra cui solo i piloni della ferrovia sospesa a mezz'aria riuscivano ad aprirsi un varco.
«Pesche? In questo periodo?»
«Lo so, è un gran peccato.»
Leo s'era avvicinato ai floridi cesti di frutta che affollavano il marciapiede – unica nota di verde in quel quartiere grigio – e s'era subito messo a trattare con il fruttivendolo, per tornare dopo qualche minuto con un sacchetto di carta marrone.
«Ti dovrai accontentare» gli disse infilando una mano nel sacchetto e lanciandogli una lucida mela rossa.
Charles l'afferrò al volo, sorrise e arrossì quasi quanto la mela. Quanto profumava.
«Non sai cosa hai appena fatto» mormorò serenamente.
«Lo so perfettamente» gli rispose Leo avvicinando di nuovo la mano al sacchetto.
Charles s'avvicinò svelto, infilò una mano tra i frutti e gli porse il più grande e sodo che le sue dita avessero incontrato.
«No che non lo sai.»
Leo inarcò un sopracciglio, accettò il dono e lo strofinò sul cappotto prima di addentarlo, così lucido da sembrare di cera. «Davvero?»
«Non conosci Callimaco, né Ovidio» proseguì Charlie, «Non sai che su una mela fu scritto "Giuro su Dio che ti sposerò." I greci avevano l'abitudine di lanciar mele, per dichiararsi all'amato o invitarlo a...»
«Quindi ti avrei chiesto la mano?»
«In un certo qual modo, sì.»
Leo addentò di nuovo la mela, masticò lentamente, l'avvicinò una terza volta alla bocca sottile.
«E tu, vorresti sposarmi?»
«Se solo potessi, Leo. Se solo potessi...»
Il tedesco non parlò più, ma affondò ancora i denti nel frutto e gli scavò nell'animo, come faceva ogni sera sulla soglia del letto.
***
«Incappare in te è stata la mia più grande fortuna, Leo» gli confessò Charlie scagliando il torsolo nelle placide acque dello Spree. Tra i due aveva ottenuto il lancio più lungo, notò soddisfatto.
«Pensa quanto le piccole coincidenze possano cambiare il mondo, allora» gli rispose Leo.
«Già.» Charlie si mordicchiava innocentemente l'angolo del labbro. «Una gran fortuna trovarsi entrambi in quell'hotel.»
«Sembra tu voglia domandarmi qualcosa, Charlie.»
«Leo, non ti ho mai chiesto... com'è che sei qui? Intendo, perché Berlino?»
Leo sbuffò. «Domanda inutile. Dove altro essere?»
«Sì, ma come...?»
«Stettino non è una grande città, e casa mia dubito sia molto diversa da casa tua nel Kent. Tutto qui.»
S'incamminarono verso il Duomo dall'altra parte del fiume, oltre il quale Unter den Linden era distante solo un altro ponte.
A metà della prima traversata Leo sembrò esitare. «Charlie... com'è la tua famiglia?»
«Perché lo chiedi?»
Il volto pallido del tedesco riacquisì un minimo di colore. «Ma è ovvio, per presentarmi davanti ai suoceri preparato.»
Charlie s'inchiodò e fissò il suo amato prima di incominciare a sghignazzare come un marmocchio. «Non pensavo l'avresti mai detto.»
Leo si schiarì la gola non appena s'avvicinò un passante e sistemò la cravatta lisa. «Sì, hai ragione. Dove sono finite le mie maniere?»
«Non so se posso aiutarti a ritrovarle.»
«Un gran peccato.»
«Già...» Charles fissò le nuvole alte sui pinnacoli della chiesa. L'acqua dabbasso gorgogliò, gli rubò un sospiro a lungo trattenuto. «Mio padre è morto, Leo.»
Ci fu un attimo di silenzio, disturbato dal berciare di alcune sterne.
«Quando?»
«Non molto tempo dopo il nostro primo bacio.»
«Immagino sia da ipocriti dire che mi dispiace.»
«Abbastanza.»
Un nibbio solitario comparve in cielo a inseguire le sterne in agitazione, Leo glielo indicò con delicatezza. Chissà da dove veniva, chissà quanto aliena doveva apparirgli quell'ansa del fiume.
«Da quanto abiti in quell'hotel, Leo?»
«Due anni. Troppi per un barone squattrinato, ma ho il terrore di dar fuoco al primo appartamento preso in affitto.»
«Perché non torni...»
«A Stettino? No, il signor Von Hinten potrebbe essere ancora vivo, o morto, non ho interesse a controllare.»
«Non ti ha mai scritto nemmeno una lettera?»
«Non ci disturbiamo l'un l'altro e mi sta bene. Il posacenere è stato eloquente.»
«Quale posacenere?»
Leo si morse il labbro. «Lascia perdere, non è importante. Tu invece, perché non torni a casa? Ora sarà tua, baronetto.»
«No, non voglio vedere nemmeno mia madre. Oddio.»
«Cosa?»
«Non leggo di mia madre da prima che partissi. Non veniva nominata in nemmeno una lettera, non un telegramma... non una parola di Fitz.»
«Sai, una domanda innocente non costa niente.»
«Non lo so. No, seguirò il tuo esempio, per non finire a chiederle conto d'avermi abbandonato.»
«Come vuoi.»
Il nibbio acciuffò una preda e tornò da dove era venuto, seguito dai sogni di Charles.
«E poi c'è Gwenny... lei forse mi manca, giusto un poco.»
«Tua sorella?»
«L'unica, più o meno. Sai... a casa siamo sempre stati Gwyneth e Charles, sempre abituati a essere quadrati. Ma io ho passato metà della mia vita in collegio... non è vero, giusto un quarto...»
«E lì ti trattavano... da palla?»
«Mi hanno appioppato diversi nomignoli, ma era abitudine lì farlo con tutti: Cliff, Pixie, Paddy, Wally, Gorge... Dickie...» Charles sospirò. «...e Acton, o "porcaro" per chi mi vedeva malvolentieri.»
«E in tutto questo tua sorella...»
«Niente, una volta durante le vacanze le ho appioppato un soprannome, per credere d'avere a casa un po' dell'affetto che lasciavo là, in collegio. La chiamavo Gwenny di tanto in tanto, tutto qua.»
«Tutto qua?»
«Sì.» Charles affondò un'unghia sotto l'altra, dall'indice al mignolo tutte in rassegna dal pollice. «Come uno stupido bambino che neanche sa parlare. Era una cosa solo mia, forse la più grande dimostrazione d'affetto in tutta la casa.»
Leo gli sfiorò una spalla, non aggiunse altro. Ripresero a camminare, arrivarono davanti al Duomo e sostarono sotto i primi tigli, distratti da un capannello di persone radunate proprio all'ingresso dell'imponente chiesa barocca. In mezzo a quell'assembramento svettavano un paio di vessilli rossi, con una ruota bianca e nera nel mezzo.
«Perché questo gran baccano?» chiese Charlie.
«C'è poco da commentare» gli rispose Leo, «È l'unica cosa che fanno, un gran baccano.» E riprese a camminare.
Charles gli corse dietro. «Aspettami.»
«Possiamo smettere di disperare» borbottava Leo tra sé e sé, «Forse è la volta buona che la smettiamo di cambiare governi come calzini.»
«Che intendi?»
Leo lo guardò. S'apprestavano al ponte di Schloßbrücke.
«Non manca molto, presto presenteranno un voto di sfiducia a Von Papen.»
«E poi?»
Leo si voltò ancora, tornò con gli occhi ai vessilli davanti alla chiesa. Non erano ruote, notò ora Charles con più attenzione, ma croci, quelle dentro ai tondi bianchi.
Leo s'incamminò sullo Schloßbrücke annuendo a se stesso, il sacchetto delle mele ancora stretto dietro la schiena, e Charles, a vederlo andarsene, provò chissà perché una strana inquietudine.
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