12.
Berlino, Giugno 1932
Agathe fu chiamata nel caldo e sontuoso ufficio del sovrintendente la mattina successiva, non appena arrivò al lavoro, puntuale come sempre. Il signor Lüthenmeyer, ferreo responsabile dei dipendenti già per conto del compianto signor Lorenz Adlon e ora per il figlio Louis, era ben altro rispetto al velluto delicato delle sue stanze: in quel momento, impettito davanti alla scrivania lucente, ribolliva così tanto di rabbia che gli tremavano i baffi.
Il disgraziato incontro fu una vera sassaiola.
«Dovrei fare di te un esempio!» esordì Lüthenmeyer sbraitando. «Quante volte devo ripetervi di non dar conto ai clienti che vi importunano, a voi tutte! Per la miseria, siamo l'hotel più prestigioso della città, non un bordello da quattro soldi in periferia!»
Agathe ascoltava in silenzio, il viso indurito, le mani aggrovigliate in un intrico di dita, il naso oppresso dal puzzo di sigaro e matite affilate, pungente e appiccicoso come incenso in una chiesa. «Sì, signor Lüthenmeyer, non si ripeterà più. Avete la mia parola.»
«Non basta. Innanzitutto ti decurterò dallo stipendio i costi della sedia, poi vedrò se prendere ulteriori provvedimenti. Ringrazia che non avvisi il signor Louis dell'accaduto!»
«La prego di non coinvolgere il signor direttore, signor Lüthenmeyer, le sarei profondamente grata.» Agathe fissava il vuoto mentre le parole le uscivano di bocca fluide e serrate come una cantilena, quasi fossero una preghiera impressa nella sua memoria con ferri roventi. «Non le darò più alcuna ragione di dubitare di me, signor Lüthenmeyer, lo giuro.»
Tacque sul fatto di sapere – Hugo l'aveva avvisata prima che lei raggiungesse l'ufficio – che il gentilissimo signor Von Hinten aveva insistito per pagare i danni, senza nemmeno battere ciglio, e lui aveva diligentemente riferito tutto al signor sovrintendente la sera prima, raccontando ogni minimo dettaglio dell'increscioso incidente. Tutti sapevano che "l'esecrabile Lüthenmeyer avrebbe vivacemente protestato fino a far desistere lo sfortunato cliente."
Il sovrintendente fece un cenno di approvazione e senza degnarla di ulteriori sguardi le indicò la porta, prima di abbandonarsi alla poltrona imbottita dietro la sua scrivania.
Mentre usciva Agathe lo sentì mormorare: «Una meraviglia internazionale... non possiamo perdere altri clienti, non di questi tempi.»
Si rimboccò le maniche e tornò alle sue solite mansioni, masticando la rabbia in silenzio e sputandola sotto forma di zelo: non un errore, non un attimo di riposo, solo fatica, espiazione e fatica. Ma maledire il bel tedesco che l'aveva messa nei guai, per quello il sudato tempo riusciva a trovarlo.
A fine turno, spossata come un bue al giogo, si sistemò la chioma dorata e s'avviò con le solite amiche a prendere il tram, come sempre faceva. Rincasò nel quartiere settentrionale di Wedding piegata nel corpo e nello spirito e non si diede un attimo di tregua, spostandosi subito in cucina senza nemmeno passare in camera a cambiarsi.
Albert la attendeva lì, le spalle curve davanti ai fornelli.
«Buonasera, amore» lo salutò, «Che succede?»
«Agathe, amore mio, scusa se non sono venuto a prenderti.»
«Non fa niente, mi hanno comunque accompagnata.»
«Va' a riposarti, prenditi del tempo nella vasca, penso io alla cena.»
"Ceneremmo a notte fonda se ti lasciassi fare, piccolo mio" ragionò Agathe, ma si vide bene dal dar voce ai suoi pensieri. «Com'è andata dal signor Schneider, alla bottega?»
Le spalle del fidanzato quasi toccarono il suolo.
Albert si voltò e la guardò con occhi scuri che non lasciavano presagire nulla di buono. «Mi dispiace» disse pulendosi le mani, «Non mi hanno assunto.»
Agathe inspirò a fondo e gli si appoggiò al petto. Non gli chiese nemmeno perché, non importava, ora aveva da pensare a fatture e bollette, all'abito da sposa da pagare.
«Domani vai di nuovo all'ufficio del lavoro?» mormorò soltanto.
«Sono stanco di andare là, non serve a niente: solo file e file da Münzstraße fino a Schendelpark, e di impieghi neanche l'ombra.»
Nessuno dei due aveva intenzione di puntare il dito contro l'elefante nella stanza, e così rimasero per un po' a stringersi, soli nella loro piccola tana in affitto, finché Albert, esitando, non si arrese.
«Che ti hanno detto oggi all'hotel?»
Agathe tamburellò con le dita sul petto del suo compagno, avvolto dalla grezza camicia in fustagno. «Mi hanno tolto un terzo dello stipendio» ammise serafica.
«Buon Dio, Agathe... mi dispiace.»
«Non fa niente. Ora, qui, ho te.»
«No, Agathe, non va bene. Sono dei dannati ladri! Se solo potessi...»
«Fare cosa? Hai già fatto abbastanza.»
Il viso di Albert s'adombrò a quelle parole dette così, con innocenza. Ecco, aveva sbagliato.
«Scusami, non volevo... sono stata scortese.»
«Però è vero, io... io potevo stare al mio posto. Non mi dovevo ingelosire.»
«Già. Pensiamo positivo, per questo mese copriremo la perdita coi soldi del gentilissimo Leonhard. D'accordo?»
«Domani andrò a parlare al pastore Kofler, a chiedere se lui ha qualcosa da fare per me.»
«Va bene. Albert?»
«Sì, piccola mia?»
«Mi fa piacere saperti geloso.»
Albert la baciò e le carezzò una guancia, prima di lasciarla andare. Lei sospirò.
«Dai, vieni» gli sussurrò tenendogli la mano.
«Ma la cena...»
«La cena potrà aspettare.»
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