11.

Berlino, Giugno 1932


Charles si chiuse la porta alle spalle con rabbia. Gli veniva da piangere. Serrò i denti e tenne tutto dentro, stringendo i pugni fino a sentire il cranio esplodere. Inspirò a fondo e distese le membra e i nervi. Inspirò di nuovo. Faceva così male sentirsi tradito, ma come poteva fargliene una colpa, quando l'aveva trattato a quella maniera? Si maledisse di non capire mai niente della vita, si maledisse di aver abbandonato l'Inghilterra. Si sentiva terribilmente solo, ora, e per la prima volta dopo tanto tempo sentì la mancanza di una famiglia.

All'improvviso si ricordò del telegramma che stringeva in pugno. Fitz si era raccomandato di leggerlo in privato, lontano da occhi indiscreti, e si era offerto, in caso lo volesse, di riaccompagnarlo a casa personalmente. Lo aprì e lesse. Le gambe si fecero serpenti e Charles strisciò sul pavimento. Gli occhi si velarono e la giornata si fece piovosa.

Singhiozzò per alcuni minuti, cercando la forza di andare avanti, cercando la forza di scegliere cosa fare della sua vita. Ma non vedeva altra soluzione in fondo a quella cieca galleria.

Si alzò a fatica. Doveva ascoltare Fitz; forse lo avrebbe trovato ancora nella sala grande, al più avrebbe chiesto di chiamare l'ambasciata. In fondo, per suo padre quel vecchio amico di famiglia avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Mise la mano sul pomello e inspirò di nuovo, prima di tornare in corridoio. L'ascensore si aprì in quel momento, e ne uscì Leo, una mano a coprire il naso da cui il sangue colava fino alla bocca.

«Leo!»

«Charlie. Da quanto tempo.»

«Cosa ti è successo?»

«Non ti riferisci solo al naso.»

Charlie lo ignorò, scostò la mano vermiglia e osservò la ferita, preoccupato. Tirò fuori di tasca un fazzoletto immacolato e tamponò il danno.

«Ho solo fatto una sciocchezza. Sono un idiota, Charlie, solo uno stupido idiota.»

«Vieni in camera, fatti aiutare.»

«Volentieri, Charlie.»

Non ci vollero molti minuti. Leo rimase immobile e in silenzio sul letto, mentre Charlie gli puliva il viso e si assicurava che nulla fosse rotto. Non parlò neanche lui, non trovava l'inizio del filo. Quando finì rimasero per alcuni secondi a guardarsi negli occhi, incerti sul da farsi.

Leo attendeva, con la grazia d'un serafino. Charles era tutto un fuoco.

«Chi era?»

«Nessuno, solo una cameriera cui ho fatto uno sgarbo. Nulla che ti debba far preoccupare.»

Charlie tacque; sentiva la gola secca e le labbra incrinarsi. Leo girò la testa e guardò attraverso la finestra aperta. Si poteva scorgere la Porta del Brandeburgo oltre la piazza, il carro di bronzo trasformato in uno specchio ustorio dal sole.

«Accompagnami a Tiergarten, Charlie. Il parco è magnifico a quest'ora del giorno.»

«Torno a Londra, Leo.»

Leo spostò lo sguardo sull'amico. Aveva gli occhi sbarrati, lo spirito assente.

Era volato tutto fuori, troppo velocemente.

«Come... torni nel Kent?»

«Devo.»

A entrambi sanguinava il petto.

«Perché?»

Charlie si ammutolì e strinse le mani. Tremavano e si bagnavano di lacrime. Leo le toccò e sentì dentro di sé un calore.

«No. Non te ne andare. Ti voglio qui, a Berlino. Non può essere importante. Me lo diresti altrimenti, non è vero? Me lo diresti. Ci cerchiamo da un mese, non te ne andare ora che siamo così vicini. Non piangere. Ti prego, non piangere. Portami a Tiergarten.»

Leo risalì dalle mani lungo le braccia fino alle spalle, e lo abbracciò. A lungo lo strinse a sé.

Charlie piegò la testa e si calmò, nascosto all'ombra del collo. Poteva sentire l'odore del sale del Baltico, e note di faggiole e peccio. Si strofinò contro la sua guancia, arricciò le labbra e lo baciò con passione.

Leo schiuse la bocca e s'insinuò, carezzandolo dolcemente. Continuando a baciarlo, lo spinse a stendersi sulle lenzuola e iniziò a sbottonargli la camicia. Per un attimo si staccò, e i suoi lapislazzuli si riflessero nel verde e ocra brillante.

«Resta qui» gli sussurrò, «Almeno per questa giornata.»

E si ritrovarono l'un nell'altro, addormentandosi assieme nella tarda e fresca notte.

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