10.
Berlino, Giugno 1932
«Un Old Fashioned e qualsiasi cosa ti chieda la ragazza, cordialmente.»
«Certo, signore.»
Leo si sedette al banco del lounge bar e si voltò verso Agathe, che con timore e attenzione si teneva sempre un passo indietro. Quella ragazza era con lui da così poco e già iniziava ad averne abbastanza della sua presenza: era bastato accompagnarla dai Giardini fino all'ingresso dell'Adlon e lei non aveva fiatato, tranne per insistere di fare in fretta. E ora, scalpitando e mordendo per l'ennesima volta il freno invece d'ubbidire a quel poco che le chiedeva, stava davvero superando ogni limite. Potendo l'avrebbe già cacciata via, ma s'aveva da mandare avanti la commedia, e quindi si limitò a sorriderle, cercando nella sua così palese falsità di essere rassicurante. «Avvicinati pure, Hugo non morde.»
Il barista si finse divertito dalla battuta, e mentre preparava da bere guardava la ragazza di nascosto. Anche lui la giudicava, pur meno delle altre colleghe.
Agathe si appoggiò al bancone e allungò il collo pallido verso il barista.
«Una Pilsner, Hugo, per favore» mormorò. Quasi implorava.
«Prego, siediti pure. O preferisci un po' più di riservatezza ai tavoli? Preferisci un po' più di riservatezza.»
Agathe scosse la testa, ma rimase ancora in piedi, lo sguardo basso e i pugni serrati indecisi se stendersi ai fianchi o incrociarsi sul petto.
«Hugo...»
«Porto tutto io, signore.»
Leo cinse Agathe su un fianco e la accompagnò a un tavolino. La avvertì scostarsi appena la toccò, ma era comprensibile: anche lui avrebbe evitato il contatto, fosse stato in lei.
Là seduti al tavolo, proprio accanto all'arcata che li separava dalla sala comune, poteva vedere Fitz, vicino alla fontana, ancora intento a fumare e aspettare, e allo stesso tempo tenere sotto controllo la scalinata principale.
«Allora, Agathe: parliamo un poco, ti va?» le chiese distrattamente, «Vediamo, cosa mai potrebbe chiedere il figlio di uno Junker a una proletaria berlinese? Dimmi, Agathe, quanti anni hai?»
«Diciotto, signore.»
Leo impallidì e s'agitò per un battito di cuore, prima di tornare a dominare il proprio corpo. Non s'aspettava di avere a che fare con una minorenne.
«Dirò, avrei detto di più. Dai tuoi occhi... hai uno sguardo molto... maturo.»
«Ognuno impara da ciò che dà la vita.»
«E come mai lavori già? I tuoi genitori non hanno un impiego?»
«Sono cresciuta in un orfanotrofio, non si capisce?»
«No. Non hai... ricordi i tuoi genitori?»
«Ricordo i giorni in cui sono morti, avevo cinque anni.»
«Come è successo?»
«Non lo so con precisione, posso solo immaginare. Dicono che la città era in rivolta, che gli spartachisti volevano provare il colpo di Stato. Io non ci credo.»
«Non si può dire che si lanciassero fiori.»
«Non sto dicendo questo... Non lo so, di quei giorni ho solo il brutto ricordo di un incubo e la mia squallida infanzia.»
Un cameriere portò le bevande, Leo cercò le vetrate dell'ingresso.
«E cosa ti ha insegnato la vita? No, aspetta, fammi indovinare: a cavartela da sola, a dubitare dell'autorità, a... odiare quelli come me; dico bene?»
Agathe sospirò e cominciò a bere.
«Tutto sommato, mia cara, lo farei anch'io.»
«Non vi odio, signore.»
«Per favore, chiamami Leonhard, almeno.»
«Non ti odio, Leonhard. Voglio dire: lavoro qui, vedo quelli della tua risma ogni giorno. Sono abituata ai vostri comportamenti...»
«E di ragazzotte come te è pieno il mondo.»
«Sarà, ed è pieno anche di stupidi pomposi che per qualche banconota in più nelle tasche si credono i signori del mondo. Dannazione, non lo siete.»
«Ti posso giurare che non tutti qua sono ricchi come dicono di essere.»
Leonhard allentò la guardia sul suo terreno di caccia e si avvicinò ad Agathe, per sussurrarle all'orecchio: «Guarda dietro di te, c'è un tipo coi baffi che è stato al polo Nord. Per un po' di attenzione che s'è guadagnato si crede una stella del cinema.»
«Soldi, fama... il discorso non cambia. La gente trova il potere e crede sia suo, e resta convinta. Sono solo idioti.»
«Ti sembro idiota?»
Agathe continuò a bere.
«E immagino non ti faccia sempre piacere quando qualcuno della mia risma ti fa i complimenti e t'invita a bere qualcosa.»
«Non mi fa mai piacere. Finalmente iniziamo a intenderci. È odioso. Viscido. Ho accettato solo per i soldi, ma non aspettarti che vada oltre.»
«Quindi vedi che hai torto?»
«Io me ne andrò di qui con una birra in pancia, tu spera che non te ne vai con un pugno in un occhio.»
Leo ignorò la minaccia, la sua attenzione attirata altrove. Al tavolino di Fitz, soave visione, arrivava Charlie, appena tornato da qualche suo giro. Leo tornò fulmineo a guardare Agathe, sperando allo stesso tempo di essere e non essere stato notato. Cercò ancora la forza di controllarsi e finì il primo bicchiere.
«Hai ragione, mi dispiace. La verità è che ti sto solo usando.»
«Immaginavo, spero che lei sia più sveglia di te.»
Il collo smise di obbedirgli, lo sguardo sfuggì per un attimo verso la fontana. Lo riprese appena in tempo.
«Chi lo sa, probabilmente siamo tutti quanti idioti. Lascia perdere, sono solo un essere abbietto, il tuo odio è più che giustificato. Ma spero capirai, prima o poi.»
Agathe si adombrò e provò a dire qualcosa, faticando a trovare le parole. «Ma cosa c'è da capire? Ti servivo e mi hai usata, come potevi usare chiunque.»
«Sì, in fondo hai ragione. Non mi dovevi niente e invece mi hai aiutato, per una manciata di marchi.»
Leo non resistette. Alzò la testa e cercò Fitz. Trovò Charlie che subito abbassò lo sguardo. Non lo aveva mai visto così rosso. Lo notò prendere una lettera da Fitz, rigirarsela un paio di volte tra le mani prima di farla sparire nella giacca, scambiare tutto agitato qualche frase al ritmo di una sincope e quindi congedarsi. Imboccò le scale con cotanta foga che per poco non incespicò, come lui poco prima. Avvampava di rabbia.
«Finisci la tua birra e poi vattene. Ti ringrazio per il tempo che mi hai dedicato. Prendi questi soldi.»
Leo avvertiva la sua viscida essenza appiccicarsi alla sedia.
Agathe sbuffò e buttò giù quanto rimaneva della sua birra, con una velocità ben poco femminile.
«Va bene, allora, ritieniti perdonato, se è quello che ti vuoi sentir dire. Certo, mi farebbe dannatamente piacere sapere il perché di tutta questa farsa, ma immagino che non verrò accontentata, e quindi va bene. Spero che questo sia un addio. E sappi che hai rischiato grosso.»
«Non sono il tipo di uomo che... al diavolo, non importa. Puoi andare.»
Agathe però, ancora una stramaledettissima volta, non si mosse. «Già, sembra proprio che non avrò una risposta decente oggi. Come sempre, ho ragione.»
«Va', ho detto!»
La ragazza sbuffò e si decise ad alzarsi, solo per bloccarsi subito dopo, gli occhi sbarrati. «Ecco Albert» disse, con voce rassegnata.
Leo si voltò verso l'ingresso. Un macigno lo centrò sul naso e lo buttò a terra, portandosi dietro la sedia. Un ragazzo bruno col viso da topo torreggiava su di lui, il pugno pronto a colpire ancora. Ben sei facchini gli si lanciarono addosso e lo afferrarono per le braccia.
«Stai lontano dalla mia ragazza!» urlò il giovane divincolandosi.
Uno dei facchini gli mollò un pugno nello stomaco.
La folla intorno finse indifferenza, ma ognuno a modo suo osservava incuriosito uno spettacolo che non s'addiceva alla sua classe.
«Sta bene, signore?» chiese Hugo accorrendo per aiutare Leonhard ad alzarsi.
«Sì, sto bene.»
«Lo buttiamo fuori, signore?»
«Sì.»
Agathe si avvicinò fulminea al ragazzo e gli prese la testa tra le braccia, facendogli scudo. «Lo accompagno io, Hugo, non toccatelo più. Per favore.»
Hugo guardò Leonhard, Leonhard annuì e il barista fece un cenno ai facchini, che mollarono la presa. I due ragazzi se ne andarono tra sommessi mormorii divertiti e in poco tempo tutto tornò alla normalità, esclusa qualche occhiata beffarda lanciata di sottecchi.
«Signore, sta sanguinando. Lasci che la aiuti.»
Leonhard si portò due dita al naso.
«Non serve, Hugo, non fa male, grazie lo stesso.»
«Riferirò del comportamento della ragazza al direttore, signore» proseguì Hugo, rimettendo a posto il tavolino.
«No, non ne vale la pena» gli rispose Leonhard. «È stata colpa mia. Pagherò i danni, se serve.»
Si sistemò la giacca e guardò prima le scale e poi la porta.
«Dimentichiamo tutti questa brutta faccenda, va bene?»
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