1.

Berlino, Maggio 1932


S'incontrarono per la prima volta all'Hotel Adlon, in Unter den Linden n. 1. Charles aveva appena affittato, con le poche sterline che si era portato dal Kent, la camera 674, la penultima in fondo a quello stretto corridoio al sesto piano. Leonhard, invece, occupava la modesta suite accanto alla sua.

E così, mentre un aitante facchino portava le pesanti valigie del nuovo ospite nella stanza, l'ospite della 675 era uscito dalla sua per dirigersi all'ascensore poco lontano. Durante l'attesa s'intrattenne poggiando lo sguardo sul facchino in livrea cerulea, in silenzio, come chiunque guarderebbe una bella ragazza che passeggia; poi, lentamente, piegò gli occhi sull'inglese e gli concesse la stessa imbarazzante espressione. Charles sussultò, mortificandosi d'essere stato indiscreto e aver spiato a sua volta, ma non poté fare a meno di notare che quell'uomo continuava a osservarlo - compiaciuto più che altro - e lui, dominata la sua solita stupida goffaggine, per qualche malsana curiosità reggeva il suo sguardo.

Era di bell'aspetto, tipicamente tedesco, snello e di portamento fiero, coi lineamenti affilati e sottili occhi di un tenue blu; un perfetto esemplare di ariano, come avrebbero imparato in seguito. Doveva avere un anno in più di lui, forse due, e vestiva austero, eppure dignitosamente elegante. Charles, coi suoi capelli scuri e un pollice e mezzo in meno, quasi sfigurava in sua presenza e da ciò si sentiva intimorito.

Il facchino uscì dalla camera e infranse quella silenziosa magia. «Ho finito, Sir» scandì in tedesco a Charles, che gli allungò pochi marchi di mancia, per congedarlo.

Finalmente l'ascensore arrivò e il facchino, il suo carrello e il bell'ariano sparirono di scena. L'uomo dagli occhi di ghiaccio, mentre l'addetto chiudeva l'inferriata, lo salutò un'ultima volta con un sorrisetto maliziosamente cordiale, forse anche un occhiolino, mentre l'ascensore veniva inghiottito dal pavimento.

Charles rimase ancora per qualche secondo in corridoio, avvolto dall'incanto, chiedendosi se avesse vissuto davvero quell'attimo o se fosse tutto frutto della sua stupida testa. D'improvviso aveva una terribile sete.

***

Aveva quasi finito di svuotare valigie e bauli, ammise con soddisfazione. Certo, metà della roba era finita per terra nel tentativo di creare un ordine nell'armadio, ma qualcosa era riuscito a farlo, per una volta. Aveva rivoltato fagotti e bauli così di fretta che non s'era nemmeno fermato un attimo a guardare il panorama oltre l'unica finestra della camera.

Buon Dio, Pariser Platz era stupenda. Avrebbe detto che era esattamente come se la ricordava ma... a esser davvero franchi non se la ricordava per nulla. L'aveva mai vista davvero? Probabilmente no.

Si sfregò il mento e inquadrò meglio la stanza. Doveva radersi.

Forse non aveva fatto un buon affare, a venire lì, forse avrebbe dovuto preferire una pensione più economica. Quella stanza, la più infima dell'hotel - no, la penultima più infima delle 382 a disposizione del pubblico ― gli era costata una bella porzione della piccola fortuna gentilmente presa in prestito da suo padre, e tutto sommato era effettivamente migliore della camera in cui aveva dormito per 16 anni da quando era nato. E neanche lontanamente paragonabile alle camerate del vecchio collegio.

Più che una stanza era un piccolo ― microscopico ― appartamento, con tanto di letto a baldacchino. E bagno personale, grazie a Dio.

Sì, non aveva nulla da invidiare a ciò che si era lasciato alle spalle.

Guardò di nuovo Pariser Platz, guardò la dea di bronzo torreggiare sulla Porta del Brandeburgo.

Sì, aveva finalmente trovato un po' di pace.

Radersi, doveva radersi. Sapeva benissimo che non avrebbe avuto un attimo di tregua, che suo padre aveva probabilmente già sguinzagliato qualche loro vecchia conoscenza per tenerlo d'occhio, per allungargli una zolletta e riportarlo docilmente a casa nascondendo un bastone dietro la schiena.

Aprì la valigetta sbagliata e al terzo tentativo trovò infine saponetta, pennello e rasoio. S'era già tolto la camicia e ricoperto di schiuma il volto quando s'accorse d'aver dimenticato le lamette.

«Ne avranno qualcuna qui da qualche parte, no?» si disse rimestando in ogni mensolina lì vicino.

Illuso, va bene l'hotel d'alta lega, ma era pur sempre la camera più micragnosa a disposizione - e per quella vista mozzafiato, gli avevano alleggerito ben bene le tasche.

S'appoggiò con un sospiro al letto e s'impose di fare mente locale, di far uscire la tempesta che s'era portato dal Kent. Non doveva far altro che pulirsi, rivestirsi e andare a comprarle.

Sarebbe finito senza un soldo prima di sera? Probabile. Avrebbe perso tutto il pomeriggio a trovare la parola giusta per farsi capire? Anche quello non era da escludere, eppure la lingua la sapeva.

Dallo stretto corridoio sentì l'ascensore tintinnare, i passi rapidi sul tappeto, il rumore d'una serratura. Già sapeva che l'avrebbe odiato.

Ma ecco il lampo.

Si fiondò sulla porta con ancora il petto nudo e la bocca schiumosa, girò la maniglia e mise fuori la testa. Eccolo lì, il bel tedesco, il viso incupito su una mazzetta di banconote che s'affrettò a far sparire nella giacca non appena s'accorse di Charles. L'ascensore era già ripartito, erano solo loro due in quell'angusto corridoio candido.

«Sì? Posso fare qualcosa per lei?» gli chiese il tedesco facendo sparire il cruccio dietro un cordiale sorriso.

«Ecco...» esordì Charles, e già si sentiva un idiota, come suo solito. «Mi chiedevo se voi... sì, insomma, ho dimenticato le lamette del rasoio. Ne avreste da prestarmi?»

Ma come gli era saltato in mente? Ora stava davvero facendo la figura del cretino, e chissà cos'avrebbe pensato di lui quel vicino di stanza. Ti prego, pensò mentre i battiti del cuore gli davano alla testa, fa' che non mi prenda per uno scemo.

Il sorriso del tedesco si fece subito bonario.

«Prego, seguitemi» gli bisbigliò gentilmente dopo un nonnulla.

Oltre che bonario, per un attimo lascivo.

Non gli disse altro, in quei pochi attimi che ebbero di contatto: lo fece attendere all'ingresso della camera - terribilmente ordinata, se confrontata con quella di Charles - e gli lasciò in mano un pacchetto di lamette nuove. Non si sbottonò d'un niente, non si sfiorarono nemmeno. Lo accompagnò all'uscita con un gesto delicato e gli chiuse dolcemente la porta alle spalle dopo un lento, lentissimo indugio.

Charles era stordito, stregato, incapace di proferir parola. Tutto sommato, comunque meglio di altre volte, rifletté rinchiudendosi in camera e strappando la carta del piccolo involucro.

Appoggiò le lame sul lavandino e si rigirò quell'incarto più e più volte tra le mani. L'unico oggetto che avesse toccato entrambi i loro corpi.

Sorrise, sospirò e svitò la sicura del rasoio.

Che cretino, non gli aveva chiesto nemmeno il nome.


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