Il peso degli sguardi

I miei pensieri, in quel periodo, non conobbero mutamenti ma rimasero immoti e quieti, come le acque di un lago che, dietro ad una parvenza placida, nascondeva le correnti vorticose sotto la superfice. Le parlate delle serve mi apparivano estranee e ingannevoli, tanto da farmi pensare al suono di una qualche malia.

Non sapevo cosa dicessero ma le loro occhiate sommesse e sfuggenti mi lasciavano addosso una fastidiosa inquietudine. Avevo l'impressione che esse parlassero di me e del mio sciagurato aguzzino che, con tanta dimestichezza, familiarizzava con gli abitanti di quella casa. Essi usavano la medesima diffidenza nei suoi riguardi ma i modi e l'atteggiamento sicuro d Don Escobar, la sua curiosità per le usanze ed i costumi di quei luoghi, lo resero piano piano, se non piacevole, almeno non sgradito ai loro occhi.

Ogni mattina, egli usciva di buon ora dai propri alloggi e, dopo aver consumato un frugale spuntino, usciva insieme ad alcuni servitori per una cavalcata, dalla quale tornava solo all'ora della colazione. Allora si ritirava nella sua stanza e, di nuovo, lasciava la villa su un cavallo. Non rimaneva mai in quella dimora ma non me ne sorpresi. Neppure a Barcellona era solito passare molto tempo nel palazzo dove vivevamo e dedussi che fosse una caratteristica propria della sua indole.

Mi chiedevo spesso a chi appartenesse quella dimora, chi fossero i suoi proprietari. Nel palazzo dei De Rosignol, non vi era parete che non contenesse quadri che ritraevano antenati più o meno antichi, non c'erano mensole o camini su cui non fossero appoggiati busti in marmo, in uno sfoggio di un passato glorioso che sfiorava il parossismo. Quella casa, invece, non aveva niente di simile. Non c'erano ritratti ma solo quadri di paesaggi di campagna o marittimi, tanto belli quanto anonimi. I mobili erano molto graziosi ma l'insieme non trasmetteva nulla, né timore reverenziale né, tantomeno, colpiva l'animo. Era una bellezza senza voce, un insieme di oggetti gradevoli ma non vissuti, che non esprimevano con orgoglio la loro appartenenza ad un misterioso proprietario.

Confesso che una simile condizione mi disorientava alquanto.

Non riuscivo a capire chi fosse il misterioso proprietario e Don Escobar non sembrava interessato a riferirmelo. Invero, non glielo chiesi nemmeno. Memore delle sciagurate esperienze passate, sapevo che non dovevo recargli alcun fastidio e rimanere invisibile.

La servitù era stata istruita da mio padre che, parlando la loro lingua, si occupava di me con grande discrezione. In quel periodo indossai abiti semplici e comodi, dormii in un morbido letto e mangiavo piatti nuovi e saporiti che lentamente mi ristorarono dalle fatiche del lungo viaggio. Un servitore mi portava ovunque volessi ma, non conoscendo la lingua parlata in quel luogo, mi limitavo ad indicargli dove volessi andare ed ogni volta che lo facevo, quell'uomo mi diceva una parola nuova, che indicava la destinazione che desideravo nella sua lingua.

Per esempio, se desideravo andare in giardino, egli diceva jardim. Se invece volevo vedere la biblioteca, la parola era biblioteca, oppure livros, se mi vedeva tenere in mano dei tomi. Se vedevo una chiesetta in lontananza, era igreja. In questo modo, imparai lentamente delle parole nuove ma, poiché non conoscevo altro, essi erano termini del tutto inservibili, impossibili da legare insieme per formare un discorso.

Malgrado ciò, quelle piccole conoscenze alleggerirono il mio spirito, allontanandolo dai miei cupi pensieri, almeno per qualche tempo. Mi sembrava di avere una minuscola scintilla di sapere che, nelle mie modeste mani, mi avrebbe permesso di allenare la mente e rafforzare il mio animo, provato dalla sventura. Era una bella convinzione, che mi dette una sicurezza che non pensavo di avere.

Nel frattempo, continuavo a studiare quella casa, interrogandomi sulla misteriosa identità del suo proprietario che sembrava conoscere Don Escobar, il quale continuava ad occupare quelle stanze con grande disinvoltura. Quel soggiorno, col passare del tempo, sembrò rasserenarlo, al punto da spingerlo a parlarmi.

-Questo luogo sarà la nostra casa per qualche tempo. Non create problemi alla servitù e comportatevi convenientemente.- disse, in occasione dello spuntino.

Lo guardai senza rispondere. Dubitavo che la mia buona condotta potesse essere foriera di buone ricompense, ma mi guardai bene dal fare alcun commento. Spesso il silenzio era la soluzione migliore, soprattutto nei suoi riguardi.

-Sarete puntuale ai pasti e converserete con me quando io ne avrò desiderio. Mi assicurerò inoltre che voi riceviate le visite mediche più recenti, in modo da correggere quella mancanza, dovuta alla vostra disattenzione.- disse, mentre addentava una delle pietanze.

A quelle parole, non potei trattenermi. -Non è stata una disattenzione. E'colpa vostra.- sussurrai, irrigidendomi. Troppo tardi mi accorsi di aver dato voce al mio pensiero e questa riflessione, che avrei dovuto tenere nel mio animo, rimbombò nella sala che subito scivolò di nuovo nel silenzio, lo stesso silenzio che avevo sperimentato nella casa che avevo lasciato a Barcellona. Mi rendevo conto che era una pessima abitudine quella che avevo manifestato, e sapevo che era cattiva perché era la medesima che aveva rivelato Honor. Anche Honor era solita esprimere il proprio dissenso con una voce pari ad un lieve fruscio...e Don Escobar somministrava il suo dissenso con la durezza di un severo giudice. In vari modi: schiaffi, manrovesci ed altre sottili crudeltà capaci di piegare anche l'animo più duro.

Per questo motivo, mi pentii profondamente delle mie parole e, badando di non essere vista, studiai la reazione dell'uomo di fronte a me.

Don Escobar si fermò. -Lo è. – disse, riprendendo a mangiare. -Ma a chi importa davvero? A nessuno.-

-A me, a me importa.- risposi.

L'uomo non parve colpito. -Come ho detto, a nessuno.- ripeté e da quel momento calò il silenzio.

Le parole di Don Escobar mi avevano profondamente ferito, benché comprendessi che vi fosse un fondo di verità al suo interno. Non avevo nessun potere di mutare le cose. Non potevo riavere mia madre né, tantomeno, reclamare giustizia per lei. Nessuno poteva farlo.

Improvvisamente quel pranzo assunse una piega amara, tanto da farmi desiderare di alzarmi ed andarmene, se le gambe me lo avessero consentito. Razionalmente, era un pensiero sciocco il mio. Non potevo camminare ma, anche se lo avessi fatto, in che modo avrei potuto sperare di salvarmi? Anche Honor aveva tentato...ed ora giaceva nella tomba di famiglia dei De Rosignol. Mi chiesi in quel momento per quanto tempo avrei potuto continuare ad evitare le sue possibili ritorsioni. Honor non c'era più e nessuno poteva proteggermi dalle sue mani. Prima o poi, quei palmi omicidi sarebbero caduti su di me.

Abitai per giorni in quel limbo, con la sola certezza che dipendevo dai desideri del mio genitore e che non avevo nessuna utilità per qualunque progetto avesse avuto in mente per me...e ciò, forse, era la cosa più sgradevole e dolorosa: non conoscere il proprio destino.

La monotonia propria di quel luogo mi angustiava oltre il lecito...ed era insolito, poiché ero avvezza a non arrecare alcun fastidio agli adulti ed a sopprimere qualunque lamentela. Il mio mondo, però, era opaco e statico solo in apparenza e questa impressione aleggiava sulla mia testa con la stessa certezza di un castigo, malgrado la tranquillità beffarda di quella campagna. Spesso mi facevo portare in una piccola corte convertita a limonaia, nella quale crescevano rigogliose piante di agrumi. Lì, il sole batteva regolarmente, senza essere eccessivamente forte e questa caratteristica fu giudicata da Don Escobar come particolarmente utile per una mia possibile guarigione.

Quel luogo non mi dispiaceva. Poco distante, vi era infatti un'aia, nella quale scorrazzavano galline e oche, animali che non avevo visto molto nelle dimore dove avevo vissuto. Osservarle divenne il mio passatempo e ben presto detti loro alcuni nomignoli, come Fefé o altri ancora più bizzarri. Le loro azioni divennero per me l'occasione d'inventarmi storie fantasiose e del tutto nuove, con le quali riuscivo ad evadere dall'ambiente in cui mi trovavo.

Un giorno immaginavo le terribili avventure della gallina Manolita e della sua amata sorellina Ines, due volatili che nella fantasia assumevano fattezze ora raffinate e tragiche, ora grossolane e comiche. La prima aveva le piume bianche, sulle quali svettava un bargiglio rosso rubino, mentre la seconda era marrone con una macchia bianca sul collo, simile ad un collare. Le loro storie si perdevano in trame sempre più articolate e contorte, al punto che adesso non saprei neppure io come fossero.

Fu proprio mentre pensavo simili leggerezze che udii i rumori di una carrozza provenire dall'esterno, a cui seguirono delle voci frettolose e sussurrate. Non riuscii a udire altro ma quei suoni catturarono la mia attenzione. Erano insoliti nell'aria silenziosa di quel luogo e me ne domandai il motivo. Lo schiamazzo proveniva dall'esterno e, per la precisione, dall'ingresso del palazzo. Laddove mi trovavo, invece, regnava il silenzio più assoluto.

Invero, quella quiete avrebbe dovuto preoccuparmi ma la consapevolezza di non potermi muovere da sola aveva ridimensionato il mio spirito di sopravvivenza, spingendomi a lasciare che i fatti attorno a me accadessero...eppure il terrore degli eventi in sé non era affatto passato ma, al contrario, era ancora più difficile per me sostenerne il peso, sapendo che, insieme alla paura, si aggiungeva una logorante impotenza. Qualunque cosa fosse accaduta, infatti, non avrei fatto altro che chinare debolmente il capo, come se tutto fosse semplice e banale. Rimasi nella limonaia per tutto il pomeriggio, insieme ai miei tarli ed alle mie ansie.

Poco prima dei vespri, fui portata nella camera che potevo chiamare mia solo di nome, e vestita con abiti semplici e di buona fattura. Una volta acconciata adeguatamente, fui pettinata con cura e condotta al pianterreno. Secondo le disposizioni di mio padre, dovevo recarmi nella minuscola chiesa del borgo vicino per le messe quotidiane, come ogni fanciulla di buona famiglia e decorose virtù. Distava qualche miglio dalla villa dove abitavo ed era un edificio romanico di modeste dimensioni. Lì vi si recavano tutti i membri delle famiglie contadine del luogo, un insieme eterogeneo di persone di varia origine e status. Questo curioso miscuglio d'individui si affollava all'ingresso, per poi disporsi nuovamente in ordine nelle panche di fronte all'altare, in ordine di lignaggio e ricchezza. Poiché vivevo in una dimora agiata, avevo accesso alle prime file e, insieme al servo che mi scortava, mi ponevo in una di quelle panche per ascoltare l'omelia. Sentivo i loro sguardi addosso...e non potrei biasimarli.

Ero una straniera, vestita bene e silenziosa...ma quell'estraneità, invero, era l'ultimo dei miei pensieri. Il ricordo delle malefatte di Don Escobar, così come il suo rocambolesco viaggio, mi facevano sentire in qualche modo braccata, come se le colpe di quell'uomo fossero le mie. Per questo, sotto quell'esame silenzioso, mi ritrovavo spesso e volentieri a chinare lo sguardo sulle mie ginocchia e, silenziosamente, mi domandavo cosa pensassero della mia presenza lì. Non ero abituata ad essere oggetto di una simile curiosità. Nelle chiese di Barcellona, dove spesso mi recavo insieme a Honor, la folla di fedeli rendeva i loro volti anonimi e oscuri, tanto da rendere superfluo chiedersi chi fossero e quali storie recassero con sé. A cosa serviva sapere quali fossero le origini di ognuno, quando si entrava in un luogo votato alla contemplazione dell'Altissimo?

Presumo che anche in quella chiesetta vi fossero le medesime necessità ma l'abitudine era tale da rendere lo studio delle fattezze del prossimo un elemento di grande importanza: come fosse vestito, quali disavventure private fossero trapelate fuori dall'uscio delle loro avite dimore, e così via.  Il tutto accompagnato da una curiosità malevola e meschina, pronta a ghermire chi era avvinto dalla sventura e dal disonore.

Col senno di poi, mi viene da sorridere e da tremare al tempo stesso. Se avessero conosciuto la storia della mia famiglia, le loro bocche avide di novità avrebbero tratto nutrimento sufficiente per decenni!



ANGOLO DELL'AUTRICE

Con un po'di fortuna, sono riuscita ad aggiornare questo racconto. Ringrazio tutti coloro che mi seguono e vi auguro buone vacanze.



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