Capitolo 9 - Parte IV

Sentivo un forte dolore invadere il mio corpo e subito mi destai, ma da cosa? 

Avevo un terribile mal di testa non ricordavo cosa avevo fatto il giorno precedente e, a pensarci bene, neanche quelli precedenti ancora. 

Lo stomaco mi doleva e sentivo una persistente nausea.

«Faith?» sentii la calda voce di Duncan.

«Faith, come stai?» mi chiese appena provai ad aprire gli occhi appannati.

«Tutto bene» riuscii a dirgli.

«Mi sento... mi sento come se avessi preso una sbornia allucinante» aggiunsi riuscendo a schiarirmi la vista.

Mi trovavo in una camera di ospedale, sdraiata sul letto, dalla finestra entrava la luce del giorno e Duncan era seduto su una sedia al mio capezzale e mi stringeva la mano.

«Ma infatti... è quello che è successo. Credevamo che volessi farla finita» mi spiegò con volto abbassato. 

Quella frase mi riportò completamente sulla terra.

«Io? Uccidermi? Ma cosa diamine...» tentai di sollevare il busto ma traballai. 

Duncan corse subito in mio aiuto allungandomi una mano per reggermi la schiena.

«Nessuno sa cosa è successo. I tuoi genitori ti hanno trovato riversa nel bagno. Probabilmente sei svenuta nel tentativo di vomitare nel gabinetto. Temevamo fossi entrata in coma da alcol così abbiamo chiamato subito l'ambulanza»

«Mi dispiace avervi fatto preoccupare» interruppi subito il suo racconto, mi sentivo così strana. 

Cosa diamine mi era preso? Bere fino a svenire. 

Cosa mai poteva essermi successo per spingermi a commettere un atto così disperato?

Ancora presa da quegli interrogativi che turbinavano nella mia mente, alzai il volto e vidi lo sguardo di Duncan, mi guardava amorevolmente.

Come per magia tutto quello non aveva più importanza, ero viva e lui era al mio fianco.

«Non voglio andarmene» lo rassicurai «Rimarrò per sempre accento a te, se tu me lo permetterai»

Non capivo la ragione ma, quelle parole, bruciarono dentro di me come legna in un enorme falò. Il mio cuore doleva, correva come un treno impazzito su un binario interrotto e non c'era verso di calmarlo.

Duncan, sorpreso da quelle mie parole, mi cinse in un abbraccio e sentii delle lacrime bagnare la mia spalla.

«H-hai bisogno di qualcosa?» balbettò staccandosi da me e, con gesti svelti, si asciugò gli occhi nascondendo quelle emozioni.

«Si grazie, mi potresti portare un po' d'acqua?» avevo la bocca impastata e la gola secca, quando parlavo la sentivo graffiare.

Lui si alzò, lasciò la mia mano e uscì dalla stanza. Rimasi da sola al massimo cinque minuti in cui tentai di riappropriarmi del mio corpo. 

Era una strana sensazione, come se mancassi da tanto tempo; provai a muovere le dita dei piedi, le gambe e ad allungare le braccia.

«Ho pensato che avresti preferito questo» la voce di Duncan fece capolino nella stanza, entrò con passo svelto portando con sé una bottiglietta d'acqua e un brick di succo di frutta alla pesca.

«Grazie... sei proprio un amore» esclamai prendendo tra le mani il succo. Sorrisi a quella sua piccola premura, ricordava davvero bene i miei gusti. 

Per un attimo, mi soffermai ad ammirare il limpido cielo mattutino, la nebbia che offuscava la mia mente si stava piano a piano diradando e i miei pensieri assomigliavano sempre più a quella  volta luminosa.

Sentii la mano di Faith tremante aggrapparsi alla mia casacca. 

Man mano che ci addentravamo nella nebbia si aggrappava con sempre più forza a me fino a quando, probabilmente presa da un momento di coraggio, l'allontanò.

«Mi sembra di cercare un ago in un paiaio» esclamai per intrattenere una conversazione ma lei non mi rispose, mi voltai e mi resi conto che non era più vicino a me.

La cercai nei dintorni finché non sentii un urlo, il suo urlo. 

Le mie gambe cominciarono a muoversi nella direzione della sua voce, ancora prima che la mia testa diede loro il comando.

«Enex!» sentii invocarle il mio nome mentre ormai ero vicino, arrivai alle sponde del lago giusto in tempo per vederla caderci dentro.

Di scatto balzai in avanti e recuperai la sua mano prima che potesse scivolarle dallo scoglio.

Sembrava come se qualcosa la tirasse giù così mi contrapposi a quella forza, tentando di tirarla fuori ma sembrava impossibile.

La misteriosa energia smise di portarla verso il fondo ma, nonostante tutto, lei non tornava su, probabilmente Uriel la teneva bloccata nel lago insieme a lei.

«Maledizione!» urlai per non impazzire, reggevo Faith con entrambe le mani per evitare che mi potesse sfuggire, non l'avrei abbandonata.

Qualche minuto più tardi mi sedetti e qualcosa turbò il centro del lago, la superficie dell'acqua fu increspata da un innaturale vortice che, svelto, risalì all'esterno.

Una risata fragorosa risuonò come un tuono in quel cielo oscuro e da quel turbine ne uscì la splendida figura di Uriel. 

Prima di scappare i nostri sguardi si incrociarono, fiera e superba mi osservò come un sole avrebbe osservato un piccolo uomo. 

Sorrise gioiosa della libertà finalmente acquisita e, fluttuando sul lago, si allontanò da quel luogo.

Chiunque la scambierebbe facilmente per la figlia di un dio benevolo. Le sue forme e i suoi colori angelici avrebbero confuso anche il più grande dei saggi.

Allungai un braccio verso di lei, come per volerla fermare, ma sentii Faith scivolare ancora più in profondità nel lago. 

Subito ripresi la mano della mia compagna e, a malincuore, dovetti osservare Uriel andare via. Posai la testa sul terreno roccioso e maledii ancora una volta i nostri lumi.

Era questo che lei voleva... era proprio questo che tramava lasciandoci via libera per quel luogo.

Forse, i saggi della congrega avevano ragione, forse siamo stati noi a causare tutto questo. Affianco ad una grande fonte di luce, ci saranno sempre le ombre più oscure.

Quel pensiero mi demoralizzò, proprio come quella volta durante la prima guerra, per causa mia, di nuovo, tutta Ariadonne stava per pagare il prezzo delle mie azioni.

Strinsi inconsciamente la mano di Faith e lei, in tutta risposta, la strinse a sua volta donandomi speranza. 

Provai a sollevarla ma qualcosa la teneva imprigionata, era come se il sigillo si fosse trasferito da Uriel a lei... Era terribile!

«Faith! Faith, combatti!» urlai a squarcia gola sperando che quel contatto fisico l'avrebbe tenuta legata alla realtà e avrebbe guidato la mia voce da lei.

Doveva farcela... doveva per forza farcela. Ora come ora, Ariadonne aveva bisogno di lei.

La notte cominciava ad avvolgermi ma ancora avevo le energie per reggerla. 

Lei non sembrava dare cenni di reazione così pensai di darle una spinta.

«Faith!» la chiamai «Devi ancora restituirmi il coltellino, non puoi arrenderti così» esclamai ma poi ricordai, giusto, lei aveva il mio coltellino con sé.

«Faith!» chiamai ancora più forte il suo nome cominciando a concentrarmi.

Erano passati diversi giorni da quando ero stata dimessa dall'ospedale e la mia vita si stava normalizzando. 

Quell'incidente con l'alcol ormai sembrava essere lontano da me, come se fosse accaduto ad un'altra persona.

Mi sentivo felice e spensierata con Duncan e la mia famiglia ma, quando rimanevo da sola, una strana sensazione si faceva strada dentro di me, il mio copro vibrava, il mio cuore sobbalzava e avevo come l'impressione di soffocare, come se i miei polmoni fossero pieni d'acqua.

Per questo motivo facevo di tutto per rimanere il più possibile in compagnia, anche la notte.

Con una scusa andavo a dormire da Katy o mi infilavo nel letto dei miei, anche se ero troppo grande per farlo. 

Loro me lo facevano fare, giustificandolo come l'espressione di una mia richiesta di aiuto.

Ma la realtà era un'altra, se rimanevo da sola, anche per pochissimo, mi sentivo come se stessi per affogare in un lago di solitudine, mi sentivo morire poco a poco.

Quando finalmente tornai a scuola tutto questo sparì, piano a piano cominciai a dare sempre meno importanza a tutte le cose che avevo lasciato dietro di me, anche i ricordi. 

Preferivo guardare avanti, al mio futuro post diploma e alla mia ritrovata relazione con Duncan. Non ero mai stata così felice.

Una mattina, però, mi destai da un sogno, di cui non ricordavo le immagini, ma mi aveva lasciato addosso una strana sensazione.

Mi alzai dal letto, era tardissimo, feci colazione e notai che sul frigo qualcuno aveva lasciato un bigliettino.

Stanotte hai avuto la febbre a quaranta, deliravi. Stamattina non ti ho svegliata per questo. Riposati. 

Io sono andata a lavoro, ho chiamato il tuo ragazzo per farti da "balia" [smile] .

Alle undici prendi le medicine che ti ho lasciato sul comodino. Ti voglio bene, mamma.

Appena mi resi conto di essere da sola quella sensazione di soffocamento risalì prepotente dal mio animo.

In preda al panico andai al telefono di casa per chiamare qualcuno ma, appena cercai di alzare la cornetta, il telefono squillò.

Non risposi subito, stranamente mi soffermai a mettere a fuoco sul piccolo schermo del fisso per capire chi fosse e lessi GINOZKENA. 

La prima cosa che mi venne in mente fu che mia madre aveva molta fantasia nel salvare i numeri in rubrica e sorrisi.

Non sapendo a chi si riferisse quel soprannome cercai di rispondere ma, né alzando la cornetta e né schiacciando il pulsante verde la chiamata si inoltrava.

Era così surreale, il telefono continuava a squillare imperterrito finché non cominciò anche il mio cellulare. 

Lo recuperai dal mobile della cucina e subito notai sul display che il mittente era ancora "Ginozkena". Provai a rispondere da lì ma neanche dal cellulare la chiamata si apriva.

Dopo un primo momento di spavento, mi calmai e, ragionando, staccai la presa del cordless e smontai la batteria del cellulare.

Finalmente la casa era di nuovo in silenzio. Scossa da quell'avvenimento ritornai a letto ma, neanche dopo una manciata di minuti, sentii di nuovo entrambi i telefoni squillare. Non era possibile! 

Attesi qualche secondo prima di alzarmi e, stordita dalle suonerie, tornai in cucina per accertarmi che quello che avevo pensato di fare l'avessi fatto per davvero.

Alla soglia mi paralizzai, il telefono squillava nonostante non fosse alimentato e il cellulare si illuminava nonostante la batteria fosse lì a fianco, anche il microonde aveva preso a suonare e quel nome appariva sul display dove di solito c'erano i numeri dei minuti.

Sgranai gli occhi terrorizzata e urlai quando il mio sguardo cadde sulla lavagnetta del frigo. Il pennarello... Il pennarello era sospeso in aria e scriveva da solo, una nota.

Ti sta chiamano, lui ti sta aspettando.

Ormai in preda al panico mi inginocchiai, portai il volto quasi al pavimento e mi coprii le orecchie per impedire ai rumori di turbare ancora la mia psiche.

Cosa diamine stava succedendo? Cosa erano quelle allucinazioni? Perché infondo, non si poteva trattare di altro. 

Allucinazioni.

«Faith!» con le orecchie tappate sentii una voce fioca, temetti che anche quella non fosse reale.

«Faith! Cosa ci fai qui?» sentii delle mani gentili posarsi sulle spalle e, con forza, aiutarmi a rialzarmi.

«Non ti senti bene?» mi chiese dopo aver scrutato il mio volto, dovevo avere una terribile espressione.

«Guarda, guarda lì! La vedi anche tu?» gli dissi subito indicando la lavagnetta, gli elettrodomestici avevano smesso di suonare.

«Cosa c'è che non va nella lavagnetta» mi chiese forzandomi a tornare a letto.

«No... non la lavagnetta, la scritta, la vedi pure tu? Non sono diventata pazza!» Duncan mi guardò con la pietà scritta in volto.

«Faith... quale sarebbe il problema con il messaggio di tua madre?» mi domandò facendomi sdraiare sul materasso.

A quelle parole mi sentii mancare, come era possibile? La mia mente, la mia mente stava cedendo!

«Il nome Ginozkena ti dice qualcosa?» indagai per capire se ero del tutto impazzita.

«No, non mi pare neanche che sia un nome reale. Perché me lo chiedi?»

«Nulla» replicai pensierosa.

Stranamente a me quel nome era molto familiare, ma non ricordavo assolutamente come.

«Probabilmente ti starà salendo la febbre, non c'è nessun'altra spiegazione plausibile» parlotto tra sé e sé, mi porse un bicchiere d'acqua e le medicine che mi aveva preparato la mamma sul comodino.

Probabilmente aveva ragione, la febbre alta poteva fare certi scherzi, pensai ingoiando le pillole.

Mi accasciai sul cuscino e, protetta dalla sua presenza, mi riaddormentai.

Più tardi, in serata, fui svegliata dalla voce di mia madre di ritorno dal lavoro.

«Come va? » mi chiese mettendomi un secondo cuscino sotto al capo per tenere il busto più eretto.

«Meglio, la medicina ha fatto effetto» la rassicurai, mi sentivo decisamente bene dopo aver dormito.

«Sai, stanotte è stata una notte proprio strana» mia madre prese discorso sedendosi sul letto.

«Ma le cose tra te e Duncan vanno bene?» mi domandò di colpo preoccupata.

«Sì, perché?» replicai ma lei mi guardò con il suo solito sguardo severo, come se sospettasse che io le mentissi.

«Quando ti si è alzata la febbre a quaranta aveva la fronte che scottava ma gli arti ghiacciati. Ti agitavi, respiravi a mala pena... ma parlavi. Con ansia, ma non con la frenesia e l'impedimento di una persona che delirava per la febbre» mi spiegò scrutandomi negli occhi.

«Mi hai parlato di un certo uomo di nome Enex»

A quel nome stranamente il cuore mi sobbalzò in petto, come se si fosse riacceso di colpo.

«Sì» continuò in risposta a quella mia smorfia di sorpresa.

«Dicevi che ti sta chiamando e che devi correre da lui»

«Non so proprio di cosa stai parlano» in realtà quelle parole mi ricordarono quelle scritte sulla lavagna dal "fantasma". Ti sta chiamano, lui ti sta aspettando.

«Mi ero semplicemente preoccupata» replicò subito versandomi dell'acqua nel bicchiere.

«Duncan è un bravo ragazzo. Se lo stai tradendo credo che sia meglio che la storia tra di voi finisca e no che inventi accuse pur di sentirti meno colpevole» come al solito mia madre elargì uno dei suoi soliti pareri non richiesti.

«Accuse?» domandai perplessa.

«Dicevi che lui ti aveva tradita, se solo lui venisse a sapere ne soffrirebbe» il volto della mamma si incupì, neanche se fosse stata lei sotto accusa.

«Perché prendi così sul serio delle parole dette durante una notte di malattia?» le chiesi in mia difesa.

«Perché molto spesso sono parole che si pensano davvero» controbatté alzandosi, quel suo gesto voleva dire che la discussione era conclusa.

Sembrava più fredda e distante del solito, mi guardava con occhi freddi e cinici.

Le voltai le spalle e cominciai a piangere, le parole della mamma mi fecero sentire sbagliata... In quel momento desiderai poter avere Duncan al mio fianco e, stremata dal pianto mi riaddormentai.

Non so quanto tempo passò, mi risvegliai nel buio della mia stanza, avevo ancora gli occhi gonfi e irritati dal pianto ma notai subito un'ombra familiare nell'oscurità.

Era Duncan, sembrava come se il mio desiderio si fosse realizzato. Improvvisamente, nello sconforto, ricominciavo a vedere la luce.

«Ciao, amore! Perché non accendi le luci?» gli chiesi tentando di alzare il busto, mi sentivo ancora debole.

«Perché al buio è più bello» quella risposta mi sorprese alquanto, aveva la voce grave, sembrava si riferisse al sesso.

Era da un po' che Duncan non mi insinuava, probabilmente sarà stato per colpa dell'incidente ma in quel momento, mi sembrava tutto intenzionato a riprendere il suo solito discorso.

«Più bello?» feci finta di non capire per vedere fin dove si spingeva.

«Sì» mi rispose accarezzandomi. A quel punto, un po' delusa allontanai la sua mano.

«Eh no... questa volta non mi scappi!» esclamò sedendosi a cavalcioni su di me.

Mi divincolai un po' ma mi sentivo debole.

«Non è il momento adatto per pensare a certe cose, mi sento ancora la febbre addosso» mentii.

«Credevo di averti fatto fuori, credevo di essermi liberato di te una volta per tutte» quelle parole mi gelarono il sangue, sembravano davvero frutto di una allucinazione.

«E invece tu torni da me, più smielata e bisognosa di amore di prima. Maledizione! Non credevo che reggessi l'alcol così bene!» aggiunse mettendomi le mani al collo.

«T-tu... tu mi hai detto... di.. amarmi» anche se non stringeva, la pressione sulle corde vocali mi impediva di parlare ma le sforzai.

«Davvero non capisci? Sei solo un impedimento per me, per Katy e per tutto il mondo. Perché non sparisci?» A quelle parole incominciò a stringere le dita al collo, tentai di divincolarmi più forte, di liberarmi ma lui era troppo forte.

Osservai la sua espressione... lui mi voleva davvero morta. Delle lacrime cominciarono a rigare il mio volto.

Combattei fino allo stremo delle mie forze e, stranamente, la cosa che mi doleva di più non era il collo stretto da quelle che credevo amorevoli mani, ma il mio cuore.

Ero invasa da un dolore pungente e mi sentivo troppo debole, sia fisicamente che psicologicamente, così smisi di lottare e cercai di resistere al dolore finché non sarebbe finito.

Pregai, almeno per quello, che tutto finisse alla svelta.

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