Capitolo 26 - Parte III

Da quando ero arrivato su quell'isola sperduta, ormai non contavo più i tramonti scesi sul mio capo.

I giorni trascorrevano tutti uguali e, nonostante i primi tempi traessi anche piacere da quella reclusione forzata, i momenti che condividevo con la mia "compagna" diventavano giorno per giorno più problematici, soprattutto da quando aveva scoperto il mio piccolo incantesimo che collegava l'isola alla più vicina città. 

Continuava a essere arrabbiata con me e, ormai sempre più spesso, in alternativa alle brevi scappatelle alla taverna del bardo, mi rifugiavo in cima a qualche albero, sperando di non essere travolto dalla sua ingombrante presenza, intagliando oggetti di ogni tipo.

Ultimamente avevo trovato una canna dal legno raffinato, l'avevo trattata con ciò che potevo trovare in natura e realizzando alcuni fori sulla sua lunghezza, ne avevo ricavato un flauto decisamente intonato, per essere stato creato da un artigiano improvvisato come me.

Nonostante la mia apparenza di uomo volubile poteva rappresentare un'educazione approssimativa ricevuta in giovane età; ne avevo ricevuta una di quelle più austere, in cui l'insegnamento di uno strumento musicale era sinonimo di disciplina e grazia.

Ma proprio la musica, che doveva essere un indottrinamento per rendermi più disciplinato, era stata la mia via di salvezza dalla solitudine di quelle giornate scandite da impegni indesiderati.

Amavo la musica e la danza, e proprio come furono i diversivi che mi fecero andare avanti in quei tempi, anche adesso portavano conforto a quei giorni di implacabile tediosità.

Le melodia del mio flauto, come ogni giorno, si diffondeva nell'aria tersa della costa. La gamba a penzoloni, dondolava giù dal ramo su cui sedevo, abbandonato, mentre il mare ondeggiava calmo verso di me, accarezzando il mio corpo col vento di tramontana.

La brezza marina, ormai da troppe lune portava con sé solo olezzi nauseabondi. Un segno che mi faceva presagire che orribili fatti di sangue si stavano consumando nell'entroterra, la cui portata mi aveva fatto desistere spontaneamente dall'allontanarmi dal mio posto di guardia, per raggiungere altri piacevoli lidi.

Come procede la tua astinenza, Amsun?

La sottile voce della mia compagna di prigionia mi fece stonare una nota, distruggendo la melodia con cui intrattenevo la natura che mi circondava.

Distolsi lo sguardo dal cielo, e dal mare la sua imponente figura si sollevò dal fondo.

«Non sono in astinenza, la mia fiasca è sempre piena» le risposi battendo qualche colpo sulla fiaschetta legata ai miei calzoni. Che, ahimè, suonò del tutto vuota.

Ma io non mi riferivo all'alcool.

I suoi occhi grandi come la luna mi scrutarono dall'alto del suo corposo busto squamato. Per un momento aprì le fauci e nell'usuale gesto di ripicca, mi scagliò contro un getto di acqua. 

Avrei potuto scansare l'attacco, ma ormai non reagivo più alle sue provocazioni. Fui scaraventato al suolo dalla pressione dell'acqua e, sollevando il busto, tutto bagnato, le riservai uno sguardo di stizza.

«Possibile che la grande divinità dell'acqua non riesca a evitare di farmi il bagno tutte le volte che appare maestosa?» la ridicolizzai, e le sue sottili iridi si assottigliarono ancora di più, trasmettendomi un brivido lungo la schiena.

Voi non apprezzate la mia incommensurabile carità, Amsun. Se non ci pensassi io a raffreddare i vostri bollenti spiriti, rischiereste di andare a fuoco. L'astinenza è proprio una brutta condizione, per voi maschi mortali.

«Oh, mia signora», la invocai con tono canzonatorio, «Come farei senza di voi?» la guardai male, mentre fui costretto per l'ennesima volta a spogliarmi dei miei abiti, per lasciarli ad asciugare al sole. 

Passavo così tanto tempo nudo, che la mia carnagione aveva del tutto cambiato colore, diventando più simile a quella delle nahikae della terra che di un nobile hent.

Quale riverenza, vi siete cibato di un tomo di buone maniere per una volta?

Il suo sguardo non si distoglieva mai da me, neanche quando dovevo fare il bagno. Era peggio di una mamma ansiosa.

«Oh che gran voglia!» affermai sospirando. Ignorai la sua solita biforcuta e tagliente lingua e cambiai discorso, centrando il suo nervo scoperto.

«Sai, hai proprio ragione. Ho proprio bisogno di scaldarmi al petto di una giovane e procace fanciulla.» affermai dandole le spalle, sapendo che di lì a breve, il getto d'acqua delle sue fauci mi avrebbe investito sbattendomi verso qualche albero. Ma quella volta, non ci fu la solita reazione: Amethyst arretrò nell'acqua più alta e si accasciò sul fondale.

Mi voltai e osservai il suo muso. Sembrava stanca, probabilmente anche lei sentiva il peso di tutti quegli anni vincolati a quella terra sconosciuta. Inoltre, da quando era cominciato ad arrivare l'odore di morte, era più seria del solito.

I tuoi capelli stanno di nuovo crescendo.

Attirò la mia attenzione sulle mie ciocche albine, ormai cadevano quasi sulle spalle e il loro volume copriva buona parte delle mie orecchie a punta.

«Ti danno fastidio? Vuoi tagliameli tu?» mi offrii alle sue grinfie, ma lei non attaccò alla mia provocazione. Sbuffò, e con fare scocciato, mosse la coda verso la riva, inondandomi nuovamente d'acqua.

Ci tieni così tanto a morire affogato, mortale? Per quale motivo dovrei aiutarvi a rendervi presentabile? Volete abbandonare le vostre responsabilità per inseguire l'ennesima femmina?

La sua voce si abbassò di tono, diventando austera.

«Lo so che non lo faresti mai, mia cara Amethyst.» le dava fastidio la confidenza con cui mi rivolgevo a lei, ma in qualche maniera, dovevo pur passarlo il tempo, visto che non potevamo allontanarci da lì. «Quello che faccio della mia vita personale non è affar tuo, neanche se fossi mia madre».

Vi conosco abbastanza bene Amsun, figlio di Irahun.

Oh, oh. Quando mia appellava con nome e cognome voleva dire che era proprio funesta.

Per quanto appariate assennato e celiate, con attenzione, le vostre reali priorità, io conosco la verità: non riuscite a tenere a bada le vostre pulsioni, siete schiavo dell'istinto animale che vi caratterizza.

Non era la prima volta che sentivo quelle parole, avevo smesso di contare le frasi di disdegno che fuoriuscivano dalle sue fauci quando si arrabbiava con me, e buona parte delle volte non potevo controbatterle, ma in quel momento erano ingiustificate. 

Più passavamo tempo insieme e più la divinità dell'acqua sembrava perdere i lumi della ragionevolezza. Non c'era più modo di avere una discussione piacevole con lei, ogniqualvolta ci rivolgevamo parola finivamo SEMPRE per battibeccare per cose futili.

«Ma ti ascolti? Sembri un disco rotto. Possibile che tu veda soltanto una cosa? Non mi sembra di aver mai mancato a un mio dovere.»

Non è colpa mia, il passato non si può cancellare. Sono preoccupata per il futuro, e la tua pelle potrà anche sembrare nuova, ma so che pensi ancora lei.

Strabuzzai gli occhi, sospirando nervosamente. Tutte le volte finiva per parlare di lei e mi pentivo di averle raccontato le mie scorribande.

«Tutti facciamo errori di gioventù» cercai di giustificarmi.

«Ma immagino che voi, che siete una divinità così perfetta, non lo sappiate. Smetti di tirare in ballo quella persona. Non sei poi così onnisciente come vuoi far credere, se no lo sapresti, che non c'è più un posto per lei dentro di me.» mentii, sarebbe stato davvero bello riuscire a vivere lontano dal suo pensiero, ma Amethyst puntualmente infilava i suoi indelicati artigli nella mia ferita più profonda.

A quelle parole l'espressione del drago si fece più dura: furibonda. Non avrei sopportato una sillaba di più, così decisi di fare due passi nell'entroterra, dove speravo non mi potesse raggiungere. 

Presi il flauto che avevo legato alla cintura e lo strinsi aggrappandomici. La sua melodia era l'unica cosa che avrebbe allontanato il mio pensiero da quei ricordi che, ciclicamente, lei riavvicinava con le sue parole.

Ogni volta mi sorprendevo di come quel dolore non si fosse mai attenuato. Tutto era ancora vivido dentro di me, e mi faceva una tale rabbia. Forse era proprio quello il problema, avevo sempre vissuto la mia vita con leggerezza e nel momento in cui avevo deciso di pensare al futuro con qualcuno, l'unica donna con cui avrei voluto legare la mia vita, mi aveva mollato.

Aspetta, dove vai! Non ti ho ancora congedato. 

Amethyst attirò adirata la mia attenzione, ma non avevo intenzione di accontentare ancora i suoi capricci

«Non ho bisogno del tuo permesso!» le urlai allontanandomi. Avevo bisogno di stare da solo.

Il giorno in cui mi vendicherò di tutte le umiliazioni è vicino.

Mi facevo forza, mentre osservavo nel riflesso lo stato in cui avevo ridotto il mio corpo. Tutto per colpa di quella ragazzina. 

Avevo permesso a quel lagnoso ialino bianco di toccarmi, i punti dove aveva posato la sua viziosa bocca bruciavano come se fossero stati marchiati a fuoco, i segni dei suoi artigli ancora non accennavano a svanire, le sue braccia erano così forti che le gambe mi dolevano e il fastidio che provavo al basso ventre era così vivido, che ancora avevo difficoltà a sedermi. 

Mi aggrappai con entrambe le mani al telaio dello specchio, strofinando la fronte e guardandomi dritta negli occhi.

«Pagheranno... pagheranno tutti...» sussurrai, mentre sulla superficie liscia dello specchio si formavano piccoli cristalli di ghiaccio. Le immagini dei nostri due corpi nudi tornarono prepotenti nella mia testa, e un senso di rigetto si impossessò nuovamente di me, urlai e con tutta la forza che avevo scaraventai lo specchio, nel tentativo di distruggere quel riflesso.

I mille pezzi scivolarono sul pavimento di marmo e con rabbia cominciai a calpestarli. Il sangue cominciò a colorare l'argento, mentre la mia figura tornò a specchiarsi severa.

Mi sarei vendicata, prima fra tutte su quella stupida umana. Una volta rubato il nucleo, le avrei strappato il cuore dal petto, facendole provare lo stesso dolore che avevo provato io, costringendomi a deflorare l'integrità che avevo consacrato al signore delle oscurità.

Non avevo mai subito un'umiliazione più profonda di quella, ancora peggio dell'incantesimo con cui la madre mi aveva imprigionato. Finito con la ragazza, sarei passata alla sua genitrice. Avrei estinto il loro dannato sangue e avrei goduto nel farlo.

La ma rivincita era prossima, dovevo solo fare l'ultimo passo.

Indossai la mia armatura e rincuorata dal fatto che il mio piano stava avanzando senza intoppi, mi diressi all'esterno del tempio. 

Presto avrei svuotato l'essere sacrificale di tutta la magia che celava, diventandone l'unica detentrice. Così facendo, sarei tornata ad essere l'unico oggetto del desiderio di Fyren. A quel pensiero la frenesia crebbe dentro di me e con impazienza alzai lo sguardo al cielo. Ebbi un brivido.

Quella assolata giornata cominciò a ottenebrarsi, i monaci oscuri erano in posizione sopra le nostre teste, volavano con le loro grandi ali nere sul tetto del tempio, disposti in maniera che occupassero i vertici di una stella, e potevo già sentirli intonare la litania rituale.

Camminai sul marmo della scalinata principale e mi soffermai sul gradino più alto, impugnando il bastone appartenuto a chi, prima di me, aveva ricoperto il ruolo di guida dei fedeli di Fyren. 

L'incantesimo dei monaci terminò e il suolo cominciò a tremare. I solchi, che nei giorni precedenti erano stati fatti sulla terra che ci circondava, cominciarono ad illuminarsi di una luce violacea, il potere si incanalò in essi andando a riempirli gradualmente, infilandosi nella faglia più profonda. 

Il frastuono della terra che si spaccava riempì l'aria saturandola, le scosse divennero più violente e durature, tanto che per un attimo mi dovetti aggrappare alle mura del tempio. Poi il rumore andò lentamente scemando e l'orizzonte cominciò ad abbassarsi.

Alzai nuovamente lo sguardo al cielo, l'azzurro era stato soffocato dalle tenebre e dalle venature violacee dell'aura di Fyren che ci aveva avvolto, sorreggendoci con il suo potere: il tempio finalmente si ergeva nel cielo, nascosto dalla presenza del dio. Non avevo mai visto nulla di così maestoso in vita mia. 

Risi raddrizzando la schiena, e con una smorfia soddisfatta tornai a guardare la strada davanti a noi.

Solcammo il cielo fin quasi a toccare le nuvole e navigammo nell'aria, puntando a sud, finché la terra sotto di noi non scomparve.

Quanta burocrazia, cominciavo ad odiare quello stupido posto. Documenti di immigrazione, documenti di registrazione e censimento, documenti di permesso per domicilio temporaneo e infine una bella tassa turistica come se i serhsiz di quei tempi, venissero in città per il gusto di farlo.

Osservai per un attimo lo scorcio di strada che potevo vedere dalle finestre dalla hall, tutto sembrava essere tornato finalmente alla normalità. I giornalisti ci avrebbero mangiato per anni dopo un evento del genere.

Sperai di essere stato abbastanza accorto da non essermi fatto notare, mentre portavo via la ragazza dalla confusione la sera prima, altrimenti avrei potuto dire addio alla tranquillità. Già ero assediato quasi giornalmente dai manifestanti anti-magia e la STAM bussava alle mie porte un giorno sì e uno no per controlli a sorpresa.

Se si fosse venuto a sapere che la serhsiz che aveva creato il blackout alloggiava nel mio hotel, sarei diventato l'argomento di discussione preferito di tutta Nijest.

Osservai i nomi delle mie ospiti scritti su quei moduli e dopo averci pensato per qualche attimo, li stracciai in pezzi piccoli. Li raccolsi nel palmo delle mani unite a semicerchio e, fischiettando, emisi una melodia magica, che evocò un piccolo fuoco che distrusse la carta e la cenere che ne lasciò.

«Garnet!» la voce di Xandra interruppe la concentrazione dell'incantesimo. Mi riscossi appena per poterle rivolgere la mia attenzione.

«Perdonatemi Venerabile Xandra, non mi ero accorto che eravate qui.» Alzai appena lo sguardo e rimasi sorpreso nel vedere la donna in abiti davvero poco convenzionali per la sua persona. Aveva i capelli in disordine, indossava un pantalone beige di tessuto e una maglietta bianca, da cui traspariva ogni dettaglio della sua pelle nuda. Feci finta di non accorgermi dell'insolita mise e le sorrisi, anche perché se glielo avessi fatto notare, probabilmente, non sarebbe finita bene per me.

«C'è qualcosa che non va?»

«Potresti servirmi da bere?» mi chiese giocherellando con una ciocca di capelli vicino alle guance.

«Volentieri.» Mi alzai per guidarla verso la zona bar, ma lei rimase piegata sul banco della reception.

«A proposito, come mai quello specchio è l'unico della locanda ad essere coperto?» Indicò lo specchio alle mie spalle, così, istintivamente, mi voltai ad osservarlo.

«È rotto» le risposi di getto «È un pezzo molto antico. Non sto avendo modo di farlo riparare. È coperto perché è molto prezioso e non volevo che i clienti si accorgessero del suo valore e me lo rubassero» mentii agitato. Dovevo fare in modo di non suscitare la sua curiosità.

«Se vuoi ci penso io a ripararlo.» Con un movimento fluido scavalcò il bancone e vi si avvicinò.

«Stai tranquilla. Ho già pagato qualcuno per farlo.» Mi avvicinai a lei in fretta, cercando di non destare sospetto e la fermai mentre sollevava il telo. Se lo avesse scoperto, si sarebbe sicuramente accorta della sua vera natura.

Lei mi squadrò da capo a piedi, probabilmente non si fidava di me in quel momento, ma dovevo allontanarla da lì. La presi sotto braccio e lei si fece portare nella zona bar.

«Cosa vuoi che ti serva?» La vidi sospirare, per poi sedersi su uno sgabello di fronte al bancone.

«Hai detto che offrivi tu, vero?» mi domandò, con la consapevolezza di starmi a ricattare.

Annuii, anche se mai le avevo visto bere qualcosa di più forte di un sidro.

«Fammi un eufran, con ghiaccio.» Fece un largo sorriso, la sua richiesta mi colpì. La vidi accasciarsi appena sul legno del bancone. Sembrava pensierosa.

Presi l'alcolico e cercai di fare uno più uno. Il suo aspetto insolito, quella improvvisa voglia di bere... qualcosa la preoccupava terribilmente. Forse la missione che stavano affrontando non andava come aveva previsto?

«Allora, vuoi dirmi cosa ti preoccupa?» le chiesi, versando il liquido nel suo bicchiere.

«Tu mi dirai la verità sullo specchio?» mi rimbeccò subito.

«Touché» esclamai, con un sorriso divertito.

Lei prese il bicchiere tra le mani e per qualche istante lo roteò, facendo muovere il liquido tra il ghiaccio.

«Sto evitando di salire in stanza, immagino che quei due si stanno dando da fare.» Bevve un po', giocherellando con il sottobicchiere di carta.

«Immagino che tu stia parlando di loro due... quindi, hanno fatto pace?»

«Probabilmente. Non è affatto facile tenerli lontani.» Scrutò il suo riflesso nel liquido dal colore del tramonto e il suo sguardo si fece ancora più intenso.

«Vorrei che ci fosse un'altra soluzione, davvero. Vorrei poter essere abbastanza forte per poter eseguire io quel rituale e lasciare che la ragazza prenda la strada che desideri.»

Non comprendevo bene le sue parole, ma lasciai che i suoi pensieri fuoriuscissero a ruota libera. Avevo passato parecchio tempo dietro al bancone per sapere quando chiedere e quando lasciare sfogare i clienti.

«Dove siete diretti?» le domandai, per darle spunto di dialogo. Mi mancava un po' girovagare per il mondo in compagnia. Le notti sotto al cielo, i combattimenti... Se avessi potuto lasciare tutto, probabilmente le avrei chiesto di unirmi al suo gruppo.

«Siamo diretti all'isola dell'equilibrio, ma con il porto chiuso saremo costrette a rubare un'imbarcazione e proseguire alla cieca, visto che nessuno di noi ha delle nozioni di navigazione... Sempre sperando che una volta raggiunta la meta, il guardiano ci faccia passare senza troppi problemi.»

La guardai stupito e scoppiai a ridere.

«Ma dai! Vi serve davvero solo questo?» lei alzò la testa molto stupita dalla mia reazione.

Non potevo partire con loro ma qualcosa potevo farla.


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