Capitolo 26 - Il tempo dell'amore
Sentii qualcuno tossire per attirare la mia attenzione e senza nascondere il pianto, mi voltai verso la persona che mi aveva interrotta.
«Fai attenzione, lì hai dimenticato un punto.» con un sorriso di circostanza, mi indicò una zona di erba che non era passata sotto la mia furia.
Mi sentii terribilmente in imbarazzo, mi resi conto che gli stavo rovinando il giardino, così strinsi le spalle chiudendomi a guscio.
«Scusami.» sussurrai appena, nascondendo lo sguardo.
«No, Faith, sono io che ti devo delle scuse, sono stato inopportuno, prima.» Garnet mi aveva raggiunto, portandosi dietro un giubbotto da donna. Me lo posò sulle spalle, era così caldo che subito mi stemperò.
«Ti sei già scusato, mentre io ti sto distruggendo questo bel prato all'inglese.» lo sfiorai, facendo scivolare il palmo sulle sue punte.
«Ma questa volta è diverso, questa volta ho capito.» si interruppe sedendosi al mio fianco, rimase qualche attimo in silenzio, poi riprese il discorso da dove lo aveva interrotto.
«Mi sono lasciato trasportare dal momento e ho finito per baciarti.»
Allungò le mani sulla mia schiena e, strofinando i palmi sul tessuto impermeabile della giacca, mi riscaldò.
Presi un lungo respiro e, stanca, mi adagiai su di lui che, in un gesto spontaneo, mi cinse in un abbraccio riuscendo a lenire un po' il mio dolore.
«Grazie» lo fermai allontanandomi «In realtà mi hai aiutato tanto, senza di te non ce l'avrei fatta ad affrontare... il mio compagno di viaggio».
Non avevo altro modo per definirlo, non avevamo nessun legame se non quello che la missione per salvare Ariadonne ci aveva temporaneamente dato.
In quel momento non ero abbastanza forte per rifiutarlo e senza la presenza di Garnet e la sua forza d'animo, non sarei mai riuscita nell'impresa di tenere Enex lontano mentre quel parassita si cibava di me.
Inoltre, non ero pronta ad affrontare la sua rabbia per averlo lasciato a Talormoran.
Garnet accennò un sorriso rassegnato, sembrava molto teso.
«Quasi mi dispiace che in fondo ci sia già qualcuno nel tuo cuore», a quel punto fu lui ad allungare le distanze, strinse le braccia al petto intrecciandole, e alzò il volto per guardare il cielo ormai leggermente illuminato dal bagliore che preannunciava l'alba.
«Non dovresti essere qui, vai da lui.» mi incitò.
«Lui... non ricorda più chi sono.» gli rivelai, infilando le maniche del giubbotto.
«E questo dovrebbe cambiare qualcosa per te?» mi chiese, poi si alzò, fischiò e una luce accorse da lui. Allungò le mani e dal bagliore cadde un violino.
Lo prese al volo, posò la cassa sulla spalla e, impugnando l'archetto, cominciò a farlo scivolare sulle corde.
La musica pervase l'aria e la sua melodia cominciò a riempire ogni fibra del mio essere.
Cosa cambiava per me? Mentre ascoltavo quelle note la risposta crebbe dentro di me.
Nulla.
Anzi poteva essere un nuovo inizio, senza l'ombra di Ginozkena, solo io e lui. Un'occasione inaspettata, che da quel momento in poi avrei dovuto cogliere.
Alzai lo sguardo e notai che stranamente riuscivo a vedere le onde sonore della musica come scie luminose, le osservai fluttuare verso di me e avvolgermi come una luccicante coperta trasparente.
Sorrisi con ritrovata forza e, seguendo il suo consiglio, mi voltai per tornare dentro, mentre Garnet consumava le ultime note della sua composizione.
Guardò il cielo ancora una volta, allontanando il mento dallo strumento e pronunciò solamente tre parole.
«L'alba della fede.»
Aveva ragione, l'alba che si stava per affacciare a quel nuovo giorno era proprio l'alba della fede. Era stata la fede di Xandra in Ginozkena a far iniziare tutto e sarebbe stata la mia fede in loro a farlo terminare.
Senza i miei compagni non sarei mai arrivata fino a quel punto e grazie a loro sarei riuscita a salvare Ariadonne.
Lasciai Garnet ai suoi pensieri e salii le scale, decisa ad affrontare Enex ma, quando mi ritrovai davanti a lui nel bel mezzo del corridoio, tutta la mia sicurezza scemò.
Faceva così male vederlo, mi fissava con il suo solito sguardo di sufficienza e sembrava in attesa di una mia parola. Cosa stava pensando in quel momento?
Mi feci forza, gli sorrisi e allungandogli la mano mi presentai.
«Ciao, lo so che non mi conosci, ma io sono...»
«Hai per caso battuto la testa?» mi domandò, incrociando le braccia al petto. «Cosa pensi di ottenere con questa sceneggiata? Che sorvoli su quello che hai fatto, Faith?»
Il mio nome! Lui aveva detto il mio nome! Gli occhi mi si riempirono e dovetti portarmi le mani al volto per cercare di nascondere la mia gioia.
Ma la felicità che mi aveva travolta fu subito scacciata dalla rabbia. Come si permetteva a rinfacciarmi certe cose e poi, se aveva ancora i suoi ricordi, allora perché quella scenata con Ginozkena?
«Mi stai per caso prendendo in giro!?» mi strinsi il cappotto ancora un po' infreddolita dall'umidità della notte, mentre con tutto il mio corpo si irrigidì per aggredirlo.
«Vuoi dirmi che era solo uno dei tuoi soliti scherzi?» mi avvicinai a lui, gli puntai un dito contro e con forza, lo spinsi. Avrei voluto scaraventarlo chissà dove, invece il suo petto si mosse appena.
E la cosa che mi face arrabbiare ancora di più era il suo sguardo: non ammetteva colpe e mi guardava indifferente, in pretesa di qualcosa che non gli avrei dato, nemmeno se fossi stata davvero dispiaciuta.
«Quanto puoi essere stronzo?! Dopo tutto quello che le hai fatto! Che ci hai fatto! Davvero hai ancora intenzione di ferirla? E quella povera sciocca che ancora si dispera per te!» lo guardai male, non credevo che proprio io un giorno avrei preso le difese di Ginozkena ma se non lo avessi fatto io, chi avrebbe potuto renderle giustizia?
«Cosa diamine stai dicendo? Hai battuto la testa? O quell'insetto ti ha fatto una malia?»
Come poteva continuare a negare? Nonostante le mie parole, lui continuava ad essere inscalfibile, mi guardava con supponenza e scandalo, come se la mia reazione fosse esagerata, che solo lui lì fosse la vittima di un torto; continuando ad ignorare le mie accuse come se fossero menzogne.
Quanto ancora poteva pensare di nascondere le sue malefatte?
«Ti ho visto sul campo di battaglia a Talormoran, ero presente anche io quando hai baciato in maniera così struggente Ginozkena! E ora cosa vuoi da me? Non ti chiederò scusa per aver baciato Garnet! Lui voleva solo proteggermi! É te che dovrei tenere lontano! Tu non hai fatto altro che farmi male.» mi strinsi la mano sul cuore.
Ricordare quella scena faceva così male, ancora di più dopo aver rivissuto i momenti intimi della loro vita passata. Lui l'amava, forse come non aveva mai fatto in tutta la sua vita, e io ero solo lo spettro di quell'amore.
«Hai finito?» mi chiese distaccato «Non ho la più pallida idea di quello che stai dicendo. Non ho baciato nessuna donna con quel nome.» in quel momento il volto tradì i suoi sentimenti e la voce divenne più acuta. Strinse i denti, incrociò le braccia indignato e distolse lo sguardo: «E io che ero venuto qui per salvarti».
«Sei un bugiardo! Solo un bugiardo!» urlai caricandomi «Da quando abbiamo iniziato questo viaggio non hai fatto altro che mentirci e nasconderci informazioni. Tu sapevi chi era Nazca, sapevi dove era nascosta eppure ci hai fatto girare a vuoto. Se Skill è morto, è tutta colpa tua! Ci hai manipolato solo per i tuoi interessi e alla fine tutti noi abbiamo pagato il prezzo del tuo egoismo.» Presi un respiro, non ero mai stata così arrabbiata con qualcuno.
«Alla fine non sei poi così diverso da Dix! Lui avrà pure provato ad annientarmi sporcando il mio corpo; ma tu sei riuscito dove lui ha fallito, pugnalandomi il cuore!».
Finii la frase e la rabbia di colpo sparì, dissolta, scivolata via insieme a quelle rivoltanti parole che gli avevo rivolto. Qualche istante dopo mi resi conto consciamente di ciò che avevo detto e mi disgustai di me stessa, pentita.
Lui si ammutolì e mi guardò fisso. I suoi occhi rubino, fermi e distaccati, erano il manifesto della sua più profonda insofferenza. Me lo meritavo, avevo tirato troppo la corda e adesso me ne era rimasto solo un capo tra le dita.
Ero finalmente di ritorno dopo aver passato due giorni a solcare i cieli senza poter aprire le ali. Che umiliazione stare in mezzo a quelle penne nere e farmi vedere vulnerabile. Ma Uriel mi aveva ordinato di tornare in quella orribile città, per guidare un gruppo di fedeli di Fyren verso il sacro luogo.
Erano tutti incantatori o praticanti di arti magiche. Non erano particolarmente dotati. Lo si vedeva dalla quantità di oggetti che si portavano dietro, ma la cosa che mi dava da pensare era il loro numero.
Venti soggetti, altre venti bocche da sfamare in attesa di cosa?
Appena varcammo le porte del tempio, fummo accolti dai proseliti che si erano radunati in quei giorni, sotto quelle mura.
Il luogo di culto di Fyren era diventato un grande crocevia, i preparativi per l'imminente partenza fermentavano da giorni, ed era stato necessario raggirare galoppini che facessero i lavori più pesanti.
Abbandonai il gruppo senza congedarmi e, teso come una corda, tornai nella camera che mi era stata riservata: un ristretto anfratto, un po' troppo sciatto per i miei gusti, ma lo usavo solo per dormire, e mi andava bene così. In fondo la maggior parte del mio tempo lo passavo fuori in missione, oppure al fianco di Uriel, per provvedere alla sua incolumità.
Attraversai la porta della stanza e inspirai, godendomi il silenzio di quell'ala; da quando il tempio si era popolato, ormai nessuno più rispettava la tranquillità che permeava quel luogo prima del loro arrivo.
Slacciai il mantello per adagiarlo sull'unica sedia in dotazione, ma la schiena prese a dolermi. Il dolore non aveva mai abbandonato il mio corpo da quell'infausto giorno. Se capitava di pensarci, il mio animo ancora si infiammava, come tizzonato dalle parole di quella megera.
«Finalmente sei di ritorno, mio adorato.» la voce che si sollevò dall'oscurità della stanza mi destabilizzò. Era la melliflua melodia che usciva dalle dolci labbra della mia signora.
«La tua ala ancora duole?» il fruscio di lenzuola si fece spazio tra quelle parole, e delle familiari dita affusolate scivolarono sui miei fianchi, salendo sul petto per insinuarsi tra i miei abiti e aggrapparsi alla mia pelle «Stai tranquillo, la vendetta è più vicina di quello che immagini.»
«Mia Signora, cosa ci fate nelle mie stanze?» le sue mani erano un gradevole stimolo per il mio corpo, ormai intorpidito dalla tediosità di quei giorni di attesa mentre l'ansia mi corrodeva dall'interno.
«Ti attendevo, mi sei mancato... Non credevo che ci avresti messo così tanto tempo.» affermò, portando le mani vicino al mio collo.
Il mio cuore smise di tremare e lasciandomi andare al suo tocco, scostai la testa di fianco. Percepii il suo petto adagiarsi sulla curva accennata della mia schiena e la sua bocca sfiorare la nuca.
«Abbiamo avuto degli imprevisti. Qualcuno non si era preparato a dovere.» dissi con un filo di voce e, a quella risposta, sentii le sue dita rilassarsi, tornare sulle spalle per scendere sulla schiena.
«Che sollievo... per un attimo ho temuto che tu avessi cambiato idea...» la sua voce si fece più cupa e un brivido mi scosse «Non avrei potuto sopportare l'idea di perderti o peggio... vederti al cospetto di qualcun altro.» concluse posando la testa sui miei lombi.
La sua insinuazione mi scombussolò, cosa poteva aver turbato la sua fiducia in me? Mi lasciai prendere dal panico e contravvenendo alle mie ideologie, mi voltai e la cinsi tra le mie braccia.
Lei mi permise di toccarla, ma rimase ferma immobile, come una bambola.
«Non succederà mai» la rassicurai «Neanche sotto malia servirei qualcun altro.»
Sentii il suo volto sprofondare sul mio petto, le sue mani cercarono nuovamente il mio contatto, ma questa volta mi allontanò.
«Sei solo mio?» mi domandò con voce traballante.
«Sì» le sfiorai le guance con le mani «Io... le appartengo.»
Il mio corpo si mosse da solo e, dimenticandomi che lei era la mia dea in terra, unii le nostre labbra in un bacio peccaminoso.
Lei, dopo qualche istante, mi allontanò e io, senza alcun rimorso, subito mi inchinai leggermente in attesa di ricevere la mia punizione per aver oltrepassato il limite.
«Se è così allora, uniamoci.»
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