Capitolo 25 - La custode dei ricordi
Era da un po' che cercavo nella valigetta la kaxitira, dopo la manomissione di Dix avevo scordato di mettere a posto gli ingredienti e c'era molta confusione tra i vari contenitori ma, in quel momento, non potevo fare altro che scavare.
Mi ripromisi di sistemarla appena avessi avuto un momento di fiato.
Sentii dei passi dietro di me, mi voltai e mi accorsi che Faith aveva fatto il suo ingresso nella stanza. Aveva il volto arrossato e mi sembrava che il suo respiro fosse parecchio irregolare.
«Faith, tutto a posto?», posai le erbe che avevo tra le mani e mi avvicinai per controllare il suo stato fisico ma lei mi fermò.
«Aspetta, non ti avvicinare. Prima voglio fare con te un ripasso».
«Un ripasso?».
«Sì, ricordi di quella malattia, dovuta ad un parassita magico, che un centinaio di anni fa fece strage tra le popolazioni limitrofe ai territori Simionj?».
La sua domanda mi colpì e per un attimo mi domandai chi avessi davvero davanti, perché quelle non erano informazioni che poteva avere Faith. Che fossi di nuovo in presenza di Ginozkena?
«Sì, la malattia dei popoli magici, ricordo la lezione che faceste per insegnarci a riconoscerne i sintomi ancora prima di avvicinarci ai malati», perché improvvisamente mi sentivo sotto esame?
«E quali erano i sintomi?» mi chiese tirandosi un po' su.
«L'incubazione variava in base alla forza del potere spirituale del soggetto colpito, i sintomi erano molto generali. Stanchezza, repentino innalzamento della temperatura».
«Senza alcun motivo apparente» evidenziò lei poi si ammutolì, strinse le mani e il suo sguardo si addolcì.
«No...», scossi appena la testa allungando una mano verso di lei per controllarle la temperatura ma si scansò.
«Non ti avvicinare, non vorrei infettarti».
«Non può essere! L'incubazione in persone come voi dovrebbe essere lunga, i primi sintomi si potrebbero vedere anche a distanza di anni».
«A quanto pare questo piccoletto è particolarmente vorace» commentò con un sorriso amaro dipinto sul volto.
«Come!» cercai di convincerla che sbagliava «Come ha potuto contrarla?».
«Faith... le ho detto che doveva purificare l'emanazione dell'anyath e nella sua ingenuità lo ha assorbito. Probabilmente è stato quello il vettore. Quell'artefatto celava più di un segreto».
«Faith mi ha raccontato del ciondolo in cui l'anyath era annidato. É così strano che un oggetto del genere appaia in un momento del genere».
«Dalla descrizione che ha fatto il proprietario della locanda del mercante, c'è una buona probabilità che sia stato Fyren in persona a consegnarglielo. Quelle fattezze, a lui piace apparire così».
La sua affermazione mi colpì ma non mi sorprese. Il dio dell'oscurità sembrava divertirsi a portare scompiglio tra i mortali lasciando i suoi semi di follia sulla terra, eravamo i suoi giocattoli e gli piaceva "romperci" in maniere sempre nuove.
«Non ti preoccupare per Faith», mi rassicurò ma era difficile non esserlo.
Le gambe non mi reggevano così mi accasciai sul letto e strinsi le mani in preghiera.
Non c'era cura per quella malattia, il parassita si cibava del potere dell'ospite, svuotandolo della sua forza spirituale.
Tutti i pazienti mai censiti morirono dopo lunghi periodi di astenia e incoscienza, senza eccezione alcuna.
«Mi occuperò io del parassita. Ho bisogno di un po' di tempo ma... riuscirete a partire per l'isola dell'equilibrio».
Sollevai gli occhi e la guardai scettica, nonostante il suo impegno per instillarmi speranza. Come poteva farlo sapendo ciò che l'aspettava?
Era tutto perduto! Alla morte della ragazza Ariadonne sarebbe caduta nell'oscurità.
«Proverò a fargli venire un'indigestione, lo distruggerò ingozzandolo. Userò tutta la magia a mia disposizione, gli farò mangiare tutta la città e se non bastasse gli darò in pasto anche la mia energia. Così facendo lei non rimarrà intaccata».
«La città? Ginozkena, non c'è magia in questo luogo» forse la febbre era così alta che stava farneticando.
«Non mi dire... La tua percezione magica è così danneggiata da non accorgertene?» mi chiese perplessa poi mi compatì.
Anche Faith blaterò qualcosa del genere ma perché i miei occhi non vedevano quello che a loro era così evidente?
«Non è importante, il mio tempo sta scadendo io...» allungò le mani alle mie guance nel tentativo di accarezzarle, poi mi prese delle ciocche di capelli e vidi i suoi occhi inumidirsi.
«Vorrei così tanto poterti abbracciare... almeno una volta - si fermò posando una mano sulle labbra intenta a fermare delle lacrime - Sono così orgogliosa di te... sei diventata la migliore allieva. Se avessi potuto insegnarti tutto, forse mi avresti anche superato - si allontanò prendendo una distanza cautelativa, o forse semplicemente per nascondere meglio l'emozioni del suo viso - Ti amerò per sempre», a quel puntò fuggi lasciandomi addosso un'angoscia mai provata prima.
Quelle parole mi scossero nel profondo, il suo addio così sentito mi fece tremare l'animo mentre il cuore palpitava in preda alla paura.
Avrei dovuto essere abituata alla sua assenza, era morta già da tempo, eppure perché mi sembrava di perderla allora come se fosse la prima volta?
Vidi Ginozkena lasciarsi alle spalle Xandra, le sue parole l'avevano sconvolta ma non le diede modo di poter rispondere.
Forse era meglio così, era già così penoso vederle dirsi addio, non aveva senso prolungare quella sofferenza ulteriormente.
A quel punto, determinata più che mai si fiondò sulle scale e tenendosi salda alla ringhiera salì sul tetto dell'edificio.
Allora, avevo ragione...
Il loro discorso fu illuminante, mi resi conto che le sensazioni che avevo percepito per tutta la permanenza a Nijest erano giuste, anche se Xandra non sembrava darmi retta.
«Sì», sentii rispondermi mentre la vidi raggiungere il bordo del tetto, guardava l'orizzonte pensierosa.
«Più che il baluardo della scienza, questa è la città degli ipocriti» commentò critica poi con un salto si adagiò sulla punta di un traliccio dell'elettricità, rimanendo sospesa su di esso.
«Spero che tu sia affamato, mio caro!» urlò al cielo poi allungò le braccia verso l'esterno.
Chiuse gli occhi e cominciò a sussurrare un incantesimo e improvvisamente dai cavi cominciarono a fuoriuscire scariche elettriche che, con sferzate sempre più frequenti e violente, ci colpirono.
Ginozkena accusò i colpi senza lasciarsi trascinare o distrarre da essi e pian piano ci avvolsero.
Un'aura celeste si intensificò intono a noi e i nostri capelli cominciarono a crescere, allungandosi fino a raggiungere una lunghezza superiore a quella che avevo in precedenza tagliato.
Era come se Ginozkena stesse accumulando quell'elettricità magica dentro di sé e, man mano che fluiva dentro di noi, quell'aura diventava sempre più grande.
Lei aprì gli occhi, ormai completamente bianchi e abbagliati dalla stessa luce che ci circondava, poi si sollevò, volando per diversi metri sulla città, senza mai interrompere l'assorbimento che ormai era diventato esponenziale.
La nostra figura ormai a mala pena si distingueva, eravamo diventate una stella gigante che illuminava il cielo di Nijest. Dopo qualche secondo di stasi sentii un assordante fischio nella testa.
Accecata dal bagliore che emettevamo, e intontita dal rumore, chiusi gli occhi per proteggerli anche se non ero fisicamente lì e delle immagini invasero la mia mente, una figura umana ai piedi di un altare, con i polsi incatenati.
Urlava inconsultamente finché esausta non si accasciò a terra poi il buio ci inglobò.
Da quando la figura di Faith si era fatta spazio tra la folla protestante, aveva attirato subito la mia attenzione.
Era evidente come il sole che lei non fosse una creatura appartenente ad Ariadonne ma mai avrei potuto immaginare ciò che le mie orecchie avevano udito.
Mi sentivo così stupido e debole. Nei miei deliranti pensieri avevo sospettato subito che lei fosse Ginozkena ma non credevo alle voci della sua resurrezione.
Qualcosa dentro di me urlava al complotto, che lei in realtà non era mai morta e che doveva pagare per essere ancora in vita, doveva soffrire come era successo a Svea, morta così prematuramente per la sua condizione di essere umano.
Quella donna avrebbe dovuto soccombere alla sua stessa sorte e avevo tutte le intenzioni di essere io colui che avrebbe compiuto tale giustizia.
Chiusi le mani a pugno intrecciando le dita e me le poggiai sulla fronte colpendomi diverse volte.
Avevo notato che ogni volta che suonavo al pianoforte qualcuno veniva ritrovato morto nella stessa notte ma le telecamere di sicurezza non avevano mai registrato nessun movimento strano davanti all'hotel così mi sono convinto che tutto andava bene.
Anche se non avevo affondato personalmente gli artigli nei corpi di quelle persone, anche se era colpa di quel maledetto ciondolo, era stata la mia disperazione a scatenare quell'essere immondo sui miei fratelli quindi ero pienamente colpevole e responsabile di quegli omicidi.
Anch'io, proprio come la folla che avevo accusato, ero alla affannosa ricerca di un capro espiatorio per la scomparsa di Svea, qualcosa che magari avrebbe potuto riportarla indietro.
Ero caduto così in basso e avevo finito per fare cose irrimediabili ma sapere che anche Faith proveniva da quel mondo aveva smosso qualcosa dentro di me, emozioni sopite, quasi dimenticate, dalla morte di Svea.
E poi... vederla girare in quei malinconici luoghi con i suoi abiti... I miei occhi erano catalizzati dal suo corpo che sembrava danzare davanti a me: Guardami... sono qui!
Sollevai ancora una volta gli occhi allo specchio della reception e mi portai le dita alla bocca per morsicare le unghie, se solo avessi avuto un po' di calma per potere parlare con loro.
Forse gli avrebbe fatto piacere sapere che lei era lì ma non sapevo per quanto tempo Faith sarebbe mancata: si era allontanata da me come se avesse scordato che stavamo parlando.
E poi, Xandra avrebbe intercettato subito l'incantesimo dello specchio.
Mi rialzai dal divano e sul block-notes della reception cominciai a segnarmi tutto quello che mi aveva detto in modo da non scordarmelo.
Celai il blocchetto e poi mi diressi in cucina. Xandra mi stava già preparando una pozione per aiutarmi a rimettermi in sesto, ma conoscevo qualcosa che lo avrebbe fatto più velocemente: un liquido marroncino in una bottiglia di vetro trasparente.
Ero intento ad attraversare la hall quando notai che le luci andavano e venivano ad intermittenza sempre più frequente.
Buttai un occhio fuori, per comprendere se era una cosa circoscritta al mio impianto o al quartiere. Ma la cosa sembrava essere più generalizzata: a occhio e croce coinvolgeva tutta la città.
La terra tremava appena, così pensai dovesse essere per via del terremoto così azionai l'allarme e uscii rimanendo a bocca aperta: molte persone erano scese in pigiama, probabilmente anche loro convinti che ci fosse un terremoto in atto, ma tutti guardavano in alto.
Una grande sfera di energia fluttuava sulle nostre teste, era accecante ed emetteva degli strani sfrigolii ma se si faceva attenzione al suo interno si poteva intravedere un bagliore più intenso delineare la figura di una donna.
La gente bisbigliava con un filo di voce per consultarsi sulla natura di quel fenomeno, senza però spezzare il teso silenzio che ci circondava, come per paura che un qualsiasi rumore avrebbe in qualche modo alterato la situazione.
Poi, la corrente, ormai instabile da lunghi attimi, andò via lasciando tutta la città al buio.
Il panico scoppiò diffondendosi tra le strade come un'onda con l'epicentro quella sfera luminosa.
«Siamo sotto attacco».
«I serhsiz! I serhsiz sono qui per vendicarsi».
«Moriremo tutti!».
La folla si disperse terrorizzata, ognuno correva verso la propria abitazione portando con sé i propri cari.
Si spingevano l'un l'altro, cercando di allontanarsi velocemente dalla luce di quella donna che, ormai lontana dagli sguardi dei presenti, sembrava affievolirsi.
La situazione era diventata incontrollabile, per non essere schiacciato fui costretto a saltare sul tetto del mio hotel e senza paura continuai ad osservare le mosse di quella figura.
Aveva dei lunghi capelli che le fluttuavano intorno ma, a parte quell'insostenibile bagliore e l'innaturale suono che metteva, non possedeva nulla di davvero minaccioso.
La sfera si spense di colpo lasciandoci nuovamente tutti al buio.
Un disperato urlo corale si levò dalle strade, come se le tenebre fossero state il preludio dello sterminio che si presagiva ma io cercai di concentrarmi, con difficoltà riuscii a mettere a fuoco il cielo e intravidi quella misteriosa figura cadere al suolo come un oggetto morto.
Saltai nel vuoto e cominciai a fischiettare con le labbra, la magia della mia melodia si concentrò sotto i miei piedi e con agilità riuscii a prendere al volo la donna che aveva creato tutto quello scompiglio.
La strinsi tra le braccia, i capelli le coprivano il volto ma riconobbi all'istante i vestiti che indossava, anche se erano completamente stracciati: il maglioncino rosa e la minigonna di Svea, quella donna era Faith!
Sentii le sue mani muoversi cercando il mio petto, si aggrapparono a me debolmente attirando la mia attenzione.
«Grazie... Garnet», i capelli scivolarono, spostati dal leggero vento del nostro spostamento e il suo sofferente volto si mostrò. Mi sorrideva gentilmente facendosi forza.
«Faith, come stai?», atterrai sul tetto di un edificio adiacente, interrompendo il fischiettio.
«Perdonami, per un po' Nijest sarà senza "corrente"», era irrequieta ma cercava di apparire calma.
«Cosa è successo?» le domandai, era calda, sembrava che la febbre fosse salita ancora.
«Ho bisogno di riposare, ritorniamo dentro?», evitò la mia domanda replicando con una proposta che non potevo negarle.
Ricominciai a fischiettare e, superando in volo la folla ancora spaventata, tornai all'hotel.
La portai dentro cingendola tra le mie braccia proprio come feci con Svea il giorno delle nostre nozze e la posai subito sul divanetto più comodo della sala comune.
«Non ti addormentare! Vado a chiamare subito Xandra».
«No! Non lo fare! Non chiamarla» si agitò appena, ma era così debole che aveva a mala pena difficoltà a tenere gli occhi aperti.
«Ma non stai bene. Hai intenzione di riposare qui?»
«Sì, esatto», si accasciò sui cuscini del divano chiudendo gli occhi, le spalle scesero appena in un moto rilassato.
«Faith! Non puoi rimanere con quegli abiti - cercai di tenerla sveglia, non so se fosse la cosa più giusta da fare ma mi prendeva il terrore tutte le volta che chiudeva le palpebre - Hai bisogno di cambiarti» le ricordai osservandola.
Era ancora buio ma riuscivo a distinguere bene la sua figura nella penombra.
«Hai ragione ma non ho altro con me». Ribadì sistemandosi un po' più eretta sul bracciolo.
«Torno subito» le disse e a passo spedito mi allontanai lasciandola da sola, in un tempo record recuperai delle candele dai cassetti della reception e facendo le scale a due a due entrai nella mia stanza e recuperai una vestaglia da notte di Svea.
Un paio di minuti ero di nuovo giù, accesi subito le candele che le illuminarono il volto rivolto ad osservarmi e gli stracci che, chissà come, ancora le si reggevano addosso.
«Eccoti, ho riesumato qualche altro abito di Svea» glieli porsi e lei li strinse in silenzio tra le dita, con gli occhi persi a qualche pensiero che le ronzava per la testa.
«Devi riposare, qualsiasi cosa tu abbia fatto lì fuori sei uno straccio. Vuoi una mano?» non sembrava in grado di spogliarsi ma sollevò il busto, sorridendo divertita.
«Tranquillo - mi rassicurò poi cominciò a spogliarsi senza nemmeno aspettare che io mi girassi. In quel momento avrei voluto distogliere lo sguardo ma non lo feci. Ipnotizzato dal suo magnetismo. Anzi continuai ad osservarla senza mai levarle gli occhi di dosso, sostenendo anche il suo sguardo, quando lo alzò verso di me - É tutto a posto, anche la sacerdotessa Elytra si riprenderà presto. Avevo bisogno in prestito l'energia del suo dio».
Lo stupore spezzò completamente la tensione sessuale e, schiarendomi la voce nel tentativo di dissimulare la mia eccitazione, tentai di parlarle.
«C-come fai a saperlo?»
I capi di Nijest avevano bandito i serhsiz proprio per paura che il loro sporco segreto venisse a galla ma lei sembrava esserne già a conoscenza.
Mi sorrise ancora con triste rassegnazione e mi guardava con il suo corpo spoglio ma senza alcun pudore o malizia. Infilò gli slip con qualche difficoltà poi si lasciò cadere addosso l'abito da notte.
«Non ha importanza. Mi dispiace averle fatto del male, spero potrà perdonarmi».
Non sapevo che risponderle così scostai il volto e guardai fuori alla finestra.
«Certo che hai creato proprio un bel trambusto lì fuori. Chissà quando si accorgeranno che non stanno per morire».
Da fuori veniva ancora un discreto trambusto. Sembrava essere arrivata anche la polizia che cercava di arginare i danni.
«Prima o poi...» rispose divertita sdraiandosi, poi adagiò il dorso della mano destra sulla fronte per autovalutare la sua temperatura.
Il suo petto si sollevava con ampi e lenti movimenti, in una sensuale cornice che quell'indumento creava, complici i ricordi di momenti troppo intimi che faceva riaffiorare.
«Mi raccomando, qualsiasi cosa mi succede, non devi chiamare Xandra. - Prese nuovamente discorso e io riuscii ad allontanare quei pensieri dalla testa - Tu, la conosci la malattia dei popoli magici?».
A quel nome sgranai gli occhi e istintivamente feci qualche passo indietro.
Come potevo mai pensare ad una cosa del genere, quella febbre così improvvisa poteva essere... poteva essere davvero la malattia mortale dei popoli magici.
I simionj erano portatori sani ma la stessa cosa non valeva certo per noi serhsiz.
«Ehi! Puoi stare tranquillo. - rise della mia reazione - Non lascerà mai una preda succulenta per un tortino rinsecchito».
Tortino rinsecchito! E così io ero un tortino rinsecchito per lei! Sbuffai ma un po' mi rilassai.
«Ho provato a distruggere il nefelie...» socchiuse gli occhi dolorante, quella sospensione mi faceva pensare che probabilmente il suo piano non aveva portato i frutti desiderati.
Mi allontanai in silenzio e preparai l'occorrente per passare la notte al suo fianco: acqua fredda, stracci per le bagnole e tanto coraggio.
Poi tornai al suo capezzale, sembrava addormentata ma le posai subito il primo panno umido sulla fronte e lei si destò di colpo, sorpresa dal mio gesto.
«Grazie», sussurrò.
«Non devi... sono io che mi devo far perdonare» recuperai una sedia e mi accomodai di fronte al divano per starle vicino. Lei, a quella affermazione, ruotò il volto verso di me con un'espressione interrogativa.
«Ho desiderato che tu morissi, ho tentato di ucciderti con le mie stesse mani e tu mi hai salvato dall'essere annientato, dandomi una seconda possibilità».
«Oh, per questo non devi ringraziare me», tornò subito a guardare il soffitto ma questa volta ero io ad essere perplesso.
«A breve capirai... - socchiuse nuovamente gli occhi poi tornò a guardarmi - Garnet... potresti suonare una canzone per me?».
«Con piacere» cercai di accennare un sorriso poi mi avvicinai al pianoforte per esaudire il suo ultimo desiderio.
«No - mi fermò - non con quello. Suonami una ballata con il tuo strumento».
Schioccai la lingua sul palato, ormai avevo accettato e con il cuore in gola mantenni i miei propositi.
Mi avvicinai alla reception e recuperai il mio anello, nascosto molto in profondità in uno dei cassetti del mobilio, poi titubante tornai al suo capezzale.
«Non mi dire che non ci riesci?» mi istigò e prendendo un lungo respiro indossai il gioiello al medio della mano destra poi, concentrando la mia magia su di esso, il mio violino e l'archetto si materializzarono sul palmo della mano.
«É bellissimo» sentii la ragazza ammirarlo.
Non so come faceva ad intuirlo, ma non poteva neanche immaginare quanto fosse raro e stupendo quell'artefatto.
Adagiai la cassa armonica sulla spalla sinistra e strinsi agitato l'archetto con la mano destra, da quanto tempo non suonavo? Non lo ricordavo neppure.
Deglutii e tirando un lungo respiro teso, posai i crini sulle corde e per un attimo esitai. Guardai quelle corde, perfettamente conservate e mi domandai se per caso avrebbero emesso il loro abituale suono melodico o soltanto il rumore dell'abbandono.
O peggio, si sarebbero spezzate appena avrei fatto scivolare l'archetto? Ma la domanda più importante, sarei riuscito a creare una melodia anche se lei non c'era più?
Tornai ad osservare il volto di Faith fisso su di me, aspettava che io iniziassi.
Quegli occhi rassegnati che si aggrappavano a me per un conforto erano peggiori di qualsiasi pubblico avessi mai affrontato.
Inspirai chiudendo nuovamente gli occhi, poi lasciai che le corde sfregassero tra di loro con un gesto abbandonato verso il basso.
La prima nota si espanse nel silenzio della sala e improvvisamente il mio corpo si mosse senza più alcuna esitazione, mi rilassai ricordandomi che io ero nato per suonare.
Modificai una ballata in un adagio, mantenendone il ritmo del ritornello e gliela dedicai.
Il requiem della sacerdotessa che terrorizzò Nijest.
Durante l' esecuzione Faith chiuse gli occhi, osservai il suo corpo rilassarsi di colpo, come se la vita l'avesse abbandonata poi con la stessa velocità si irrigidì. Spalancò gli occhi e il suo sguardo si dipinse di paura e angoscia.
La fronte contratta, le palpebre completamente aperte e fisse per qualche attimo poi le lacrime rigarono le sue guance e le sue labbra si mossero in brevi ma intensi movimenti in cerca di aiuto, ma la voce aveva difficoltà ad uscire.
Mi fermai, turbato da quello che le stava succedendo, e tramutai il violino facendolo tornare nella sua forma di anello in modo da potermi dedicare a lei.
Sembrava come se davanti a me ci fosse stata una persona diversa. Come se Faith avesse fatto a cambio con qualcun altro.
Oh, per questo non devi ringraziare me. A breve capirai...
Le sue parole mi tornarono alla mente e improvvisamente la donna con cui avevo parlato fino a qualche istante prima non mi sembrava più quella che avevo conosciuto il giorno prima.
«Faith?» la chiamai accarezzandole una guancia sotto a quell'enorme ammasso di capelli. Lei mi rivolse uno sguardo supplichevole, rispondendo al mio richiamo con i suoi occhi sgranati e ricolmi di lacrime.
Distrutto da quella sua immagine sofferente, crebbe in me il desiderio di abbracciarla, come se quello avesse potuto proteggerla dal dolore.
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