Capitolo 24 - Parte IV
Quanto odiavo la politica, si riduceva tutto a quello: abbindolare gli sciocchi per tenersi amici gli inetti, pur di riuscire a fare il tuo dovere.
Avevo la nausea e non per la sbornia; l'eredità fisica di mio padre mi impediva di potermi abbandonare all'oblio di tale perdizione.
Quante volte avrei desiderato potermi annientare, anche solo per qualche attimo. Riuscire a cancellare tutto e tutti dalla testa come una spugna.
Quella perenne lucidità era asfissiante.
Vedere, capire sempre tutto e doversi lasciar correre le cose addosso era una sensazione a cui non riuscivo a fare assuefazione.
Ma, nonostante fosse una cosa che odiavo fare, spesso non avevo mai avuto altra scelta: per il bene del popolo, per il bene degli ialini neri e infine per il "bene superiore".
Osservai le tende chiuse della stanza e mi chiesi che giorno fosse. Da quanto tempo lei se ne era andata? Da quanto tempo ero rimasto da solo?
Mi alzai senza curarmi di Phaszaa che dormiva ancora al mio fianco e mi diressi nel bagno privato. Gli eventi si susseguirono con così tale frenesia che non mi resi neanche conto che erano passati soltanto due giorni.
Mi avvicinai claudicante allo specchio e squadrai severo il mio riflesso.
Non riuscivo a capacitarmi di come mi fossi nuovamente ridotto, avevo anche rifiutato di giacere con Phaszaa che era rimasta comprensiva a farmi compagnia.
Come avevo potuto permettere a quella piccoletta di entrarmi di nuovo nella testa? Di scavarmi il petto, tanto che la sua assenza mi bruciava più del fuoco di Ivanhoe.
Quando l'avevo vista per la prima volta entrare nella stanza dietro alle spalle di Xandra avevo capito subito che quella Ginozkena non era più la stessa persona che avevo conosciuto.
Ma era così difficile farlo comprendere al mio cuore e, ogni giorno che passava, da un lato me la ricordava sempre più, alimentando quel sentimento che giaceva seppellito dentro di me. Anche se avevo buttato tutto alle spalle da un tempo immemore, io non avevo mai permesso alla sua figura di abbandonarmi.
Ero rimasto vicino alle sue cose, aggrappato disperatamente al suo ricordo per paura...
Ero stato per così tanto tempo soggiogato da quel sentimento che avevo anche scordato il motivo per cui continuavo quella battaglia interiore, perché continuavo a farla vivere dentro di me?
Potevo avere tutte le donne che volevo, eppure avevo deciso di immolare il mio cuore ad un fantasma.
Dall'altro lato però, quella figura familiare era riuscita a sorprendermi, scombinando l'immagine che avevo delineata dentro di me.
Così sprovveduta e ingenua, aveva continuato a sopportare le mie angherie, le mie bugie, mi aveva giustificato a sè stessa senza ricevere nessuna spiegazione, si era aperta a me senza pretendere nulla e mi aveva permesso di ferirla quando era stata annientata da Dix.
E ancora, nonostante le difficoltà e la sua ridotta istruzione magica, aveva guarito le mie ali maledette, mi aveva recuperato tra le fiamme dell'inferno e aveva chiuso la porta a cui facevo la guardia, cancellando così ogni mio fardello e tutto con le sue sole mani.
Però ancora non riuscivo a separarle... ancora non riuscivo a distinguerle. Le loro immagini continuavano a sovrapporsi nel mio animo. Le loro differenze si mischiavano e si confondevano, apparivano così diverse, sì, ma solo io avevo conosciuto la vera Ginozkena e non potevo fare a meno di pensare che Faith era ciò che lei non aveva potuto essere.
Prigioniera di una stupida profezia, la prescelta tra le prescelte che l'aveva portata a occupare il piedistallo più alto di Ariadonne già da appena nata.
Quella notte, nella tenda, non ero sorpreso della sua dichiarazione d'amore e io desideravo, più di ogni altra cosa, averla al mio fianco ma sapevo che l'avrei solo fatta soffrire.
Non potevo assolutamente ricambiare i suoi sentimenti perché nel momento in cui la ragazza mi avrebbe domandato a quale delle due rivolgevo il mio sguardo e le mie attenzioni, non avrei avuto la risposta che desiderava.
Per questo ho continuato ad ignorarla sperando che la mia vita la disgustasse, che il mio modo di vivere le facesse capire che non eravamo fatti per vivere la nostra vita insieme e proprio adesso che il mio piano aveva dato i frutti da me sperati, che finalmente lei aveva intrapreso la sua strada lontano da me, desiderai tornare indietro per poter rimediare alle mie avventatezze.
Era un bene che se ne fosse andata, lo sapevo e avrei ingoiato quel boccone amaro anche a costo di ficcarmelo dentro a forza da solo.
Mi stavo sciacquando la nottata dalla faccia quando sentii come una campanella all'orecchio, era un richiamo divino, e poteva esserci solo un dio che richiedeva la mia attenzione. Illidea. Non capivo cosa potesse volere ancora da me, ma quella sua richiesta alimentò in me il fuoco della preoccupazione. Mi vestii cercando di apparire normale poi lasciai Phaszaa nel mio letto e raggiunsi la divinità nel tabernacolo.
Proprio come avevo immaginato la dea era lì che mi aspettava, ma stava parlando con una seconda figura: mia madre.
«Illidea, ti sei ripresa finalmente?» Le domandai con tono insolente. Si era manifestata senza l'aiuto di un sacerdote, questo voleva dire che era tornata una divinità completa.
Avrei voluto mettere un muro tra di noi, impedirle di scrutare il mio cuore e leggermi dentro, ma non c'era angolo del mondo in cui avrei potuto celarmi da lei. Soprattutto in quel momento che aveva riacquisito tutti i suoi poteri.
«Dramairan! - Mi chiamò senza alcun appellativo e la cosa non era mai un buon segno - Mi hai deluso, davvero! Come hai potuto lasciarla andare via?!»
Mi aggredì e a quella sua affermazione incrociai le braccia e la guardai seccato.
«Non sono fatti che ti riguardano, non ti immischiare nelle mie scelte.» Le risposi subito a tono poi mi voltai verso la regina Othariel e le porsi un saluto formale inchinando il capo.
«Sono fatti miei eccome, forse la mia presenza tra queste mura ti ha fatto scordare che io sono la dea dell'amore? Potrei farti fare qualsiasi cosa, se volessi.» Non mi feci intimorire dalle sue parole, non poteva essere vero. Le divinità non possono agire così direttamente sul nostro piano, me lo aveva spiegato Ginozkena.
Perchè fare quel bluff allora?
Ma il mistero ancora più grande era il motivo di quell'assemblea in presenza di mia madre.
«Cosa stai aspettando a seguirla? - Mi domandò nonostante conoscesse la risposta - Quando mai una lettera ti ha fermato?» continuò facendomi intuire che sapeva tutto.
Rimasi in silenzio per un po', mi morsi le lingua per tenere a freno le parole che avrei voluto urlare, da sempre.
Quel posto, quel lurido posto che continuavo a rinnegare con tutto me stesso, ma che non potevo rifiutare in quanto retaggio della mia esistenza.
«Illidea, non ti intromettere.»
«Dramairan... Faith ha bisogno del tuo aiuto - mi rivelò infine sospirando - è in grave pericolo di vita»
Quella sua affermazione mi sconvolse, avevo passato tutto quel tempo a convincermi che allontanarmi da lei fosse stata la scelta più gusta e invece avevo sbagliato ancora. Strinsi i pugni e serrai la mandibola incapace, per la prima volta, di risponderle a tono.
«Ci sono io qui - intervenne la regina Othariel smorzando la mia reazione - Se è solo il tuo senso del dovere che ti lega qui, vai.» si avvicinò prendendomi il volto e, sfiorando con i palmi le mie guance, mi accarezzò gli zigomi.
«Mi dispiace per ciò che è successo. - sussurrò con la voce tremante - Bambino mio, sono finalmente tornata, per davvero. Posso sostenere ancora un altro po' il fardello della corona di tuo padre finché sarà il momento di scegliere per il futuro degli ialini neri. Và dove ti porta il cuore proprio come fece tuo padre chiedendomi la mano. Ma torna, tornate da me - aggiunse evidenziando il plurale - Mi mancate...» mi tirò a sè, adagiandomi sul suo petto e, in un gesto che mi sconvolse, mi cinse il capo.
«Tutti voi... mi siete mancati così tanto. Siete i miei tesori più preziosi». La sentii alzare il volto al cielo e la sua presa farsi più stretta ma tremante su di me poi delle copiose lacrime le scesero sul collo.
Sentivo il fiato venirmi meno, e non solo perchè mia madre mi stava letteralmente soffocando sul suo seno, per un attimo quelle braccia mi avevano fatto tornare indietro, ad un me stesso che ancora albergava dentro di me, a quando tutto ero un nuovo divertimento e le emozioni le urlavi al mondo intero piangendo sul grembo di colei che ti aveva messo in quel crudele mondo.
Avevo gli occhi stanchi e quelle sensazioni stavano per vincere su di me ma la voce di Illidea fermò quello sfogo sul nascere.
«Dramairan non c'è più tempo. Faith e Xandra alloggiano in una locanda di Nijest, hanno affrontato un anyath oscuro, ma non sanno ancora che un nemico silenzioso sta attentando alla vita della ragazza.» Portò le mani al petto pregandomi di fare in fretta.
«Illidea... ha ragione.» La regina Othariel abbandonò la presa e subito mi diede le spalle per nascondere il volto.
Non di nuovo, non potevo sopportare di abbandonare di nuovo quel luogo con delle spalle voltate così trasgredii ad ogni regolamento, la costrinsi a voltarsi verso di me e, con lo stesso gesto che mi aveva riservato, le presi il volto e le baciai la fronte.
«Tornerò, è una promessa.»
Poi, esaudendo il suo desiderio, le diedi le spalle senza soffermarmi sul suo viso distrutto dalle lacrime, aprii le ali e mi fiondai fuori dalla prima finestra a tiro.
Corri!
Sentii la voce di Illidea nella mia testa esortarmi, ma per la fretta non era riuscita a darmi nessun dettaglio di ciò che mi aspettava.
Avrei preferito avere più informazioni per prepararmi una strategia durante il volo ma non potevo fare altro che concentrarmi sul percorso. Stirai le ali e proseguii verso sud sperando di arrivare in tempo da lei.
Resisti Fath, sto arrivando.
Avevo fatto rinvenire Xandra e scendendo le scale le spiegai cosa fosse successo. Una volta arrivate nella sala comune, trovammo Garnet riverso a terra intento a raccogliere i frammenti del ciondolo. Le spalle ricurve e gli occhi incavati dalle lacrime che aveva continuato a versare in mia assenza.
«Dovrei costituirmi alla squadra anti-magia.» Farfugliò nuovamente, mentre Xandra riuscì a riportare ordine nella stanza con un'incantesimo del tempo.
«Non è colpa tua. - Cercai di rassicurarlo, lo presi da una spalla e provai a risollevarlo - Quel ciondolo era un artefatto che ospitava un anyath oscuro, un essere incorporeo fatto di pura magia "malvagia" che ha provato a corrompere anche te. Se non fossi intervenuta anche tu saresti diventato un anyath».
Lui mi guardò sorpreso, stanco e si asciugò il naso con la manica logora della sua sfibrata camicia.
«Vado a prepararti un rimedio per cancellare ogni possibile residuo dal tuo corpo.» Xandra, probabilmente sentendosi incomoda, si propose di aiutarlo e in silenzio tornò in stanza mentre io spingevo Garnet ad accomodarsi sul divano.
«Prenditi un attimo, tanto ci siamo solo noi nell'hotel, giusto?» Lui annuì facendosi trasportare da me.
«Hai ragione, ma sto bene... solo che ancora non posso crederci. Io non volevo uccidere quelle persone, io suonavo solo il piano per intrattenermi nelle notti in cui i ricordi si facevano più soffocanti... - strofinò i polpastrelli sul metallo del ciondolo - Chissà se il mercante sapeva che fosse maledetto».
«Chi lo sa.» Tutto era possibile.
«Ero affascinato dal suo banco itinerante. Possedeva molte cose del vecchio mondo ma non lo avevo mai visto da queste parti. Era un uomo dalla carnagione molto colorata, ricordava molto una nahika della terra, i suoi occhi mi puntarono e allungò un dito verso di me. Mi chiamò e io mi sono sentito terribilmente attratto da lui. Dopo un sorriso di commiato mi mostro la sua mercanzia finchè non mi indicò quella collana, dicendomi che una persona a me cara avrebbe voluto che io l'avessi. Ero scettico, ma le sue parole mi turbarono, non era raro trovare serhsiz al mercato sud, credetti che fosse un qualche tipo di veggente e mi venne quasi spontaneo accettare di comprarla. Cosa mai poteva succedere?» chiese retoricamente struggendosi sulle mani a pugno. Poi prese un lungo respiro e sollevò nuovamente il capo.
«Quindi tu... sei davvero quella famosa Ginozkena?» Mi chiese risentito. Il suo volto non mostrava più emozioni, si era chiuso di fronte al "nemico".
«Sì... scusami, non era mia intenzione nasconderti la verità, in realtà è più complicato di quello che puoi immaginare, un po' come lo era per Svea.»
«Non è possibile! Non cominciare a raccontarmi balle! - prese ad urlarmi contro - Tu non sai nulla di Svea, non ti paragonare a lei! Tu sei ancora viva! E la natura ti ha anche concesso un corpo che non invecchia, mentre lei... lei è morta a ottanta anni di vecchiaia!» si ribellò ma solo allora cominciai a comprendere il suo problema con me. Anzi, con Ginozkena.
«Garnet - sospirai - Lo hai detto tu stesso non ricordi. Hanno eseguito un rituale di resurrezione. Ginozkena è morta nel fiore dei suoi anni e quello che vedi davanti a te è solo un artificioso manichino di carne con un'anima dentro», tentai di portarlo alla ragione, probabilmente era ancora confuso dall'influenza dell'anyath.
«Cosa vuoi dire?» mi domandò contraendo i muscoli della fronte. Immagino che sentirmi parlare di me stessa in terza persona deve averlo perplesso ulteriormente.
«Ginozkena è stata riportata in vita ma al posto suo sono arrivata io. Mi chiamo Faith e sai... io provengo dallo stesso luogo in cui è nata Svea.» Gli rivelai sperando di non riaprire la sua fresca ferita o, peggio, di farlo svenire.
«Dallo stesso... mondo?» Ripeté con un sussulto, poi vidi il suo sguardo venire catturato dalla direzione della reception.
Mi voltai per controllare casomai qualcuno fosse dietro di me ma eravamo ancora soli.
«Sì. Io ero una ragazzina della sua stessa età, i suoi genitori, nel nostro mondo, un bel giorno si sono svegliati e non l'hanno più trovata nella sua stanza così l'hanno cercata per anni e anni. C'era la sua faccia stampata su ogni manifesto. La polizia l'ha cercata dappertutto, sono passati vent'anni da quel giorno e i suoi genitori ancora la cercano.»
Feci una pausa e mi sedetti al suo fianco.
«Anche quella melodia che stavi suonando, viene dal mio mondo, vero?»
Lui annuì con la testa.
«Era la Sonata al chiaro di luna di un certo Beethoven, movimento numero uno e numero tre. È stata Svea a insegnarmele. Aveva un talento straordinario per la musica, le sue orecchie avevano un dono che nemmeno gli hent possedevano. Mi raccontava sempre che quelli erano i componimenti classici che più amava. Mi ripeteva sempre la leggenda dietro alla loro creazione e in qualche maniera, per lei, rappresentavano l'amore per la persona cara e il momento in cui si era costretti a separarcene. Se fosse stata una serhsiz sarebbe stata una magnifica barda... più di me.» Mi mostrò le dita, aveva sulle falangi numerosi calli.
Mentre ascoltavo il suo racconto cominciai a sentire caldo, gli occhi avevano preso a bruciarmi come se avessi avuto la febbre e mi sentivo stranamente stanca.
Pensai che fosse affaticamento, all'inizio mi capitava spesso di sentirmi particolarmente spossata dopo aver usato gli incantesimi, così cercai di combattere quella sensazione, ne valeva della mia reputazione.
Faith senti... ho bisogno che tu mi faccia un favore.
La voce di Ginozkena mi sorprese, era piatta, non mi dava degli ordini come al suo solito e, sopratutto, non cercava di imporsi su di me. Annuii sorpresa, che fossi finalmente riuscita a farmi comprendere da lei?
Devo... ho bisogno di "fare a cambio"... mi permetti di manifestarmi? Vorrei poter salutare una persona per l'ultima volta.
Ero sconvolta e preoccupata allo stesso tempo. Le avevo detto io di chiedermi il permesso, ma non mi aspettavo che si piegasse così presto a farlo. Chi era questa persona a cui teneva così tanto da abbassarsi a venire incontro alle mie condizioni?
Eppure Enex non era nelle vicinanze.
«Faith... sei sicura di stare bene?» preoccupato dal mio improvviso mutismo Garnet cercò la mia attenzione.
«Sì... - lo rassicurai con l'affanno - Devo... fare una cosa.»
Mi allontanai da lui, non sapevo cosa mi succedeva quando perdevo conoscenza ma Garnet mi fermò toccandomi la fronte.
«Ma tu... scotti!» non riuscii a rispondergli perché avevo già lasciato il campo libero a Ginozkena, la mia mente si era già dissociata, sprofondando nell'oblio.
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