Capitolo 23 - Parte V

Avevo le orecchie ritte in ascolto per percepire il prima possibile il momento dell'impatto, ma il frastuono del veicolo copriva ogni rumore, aumentando sensibilmente la mia ansia. 

Poi, uno sfrigolio coprì ogni suono, come se avessi attraversato uno sciame di scintille; lo stomaco mi si rivoltò come quando sei alle giostre e stai per buttarti a capofitto su una discesa da capogiro. 

Il vuoto si impossessò di me e per un lungo minuto trattenni il respiro, finché il rumore della macchina fu accompagnato da un coro di risate.

Sollevai il capo sconcertata e per prima cosa guardai la mia compagna di viaggio che, a differenza dell'autista, aveva quantomeno la decenza di nascondere il riso sotto i baffi.

Non c'era stato nessuno schianto e la macchina procedeva come una scheggia verso la meta designata. 

Arrossii appena, come se fossi stata sbagliata io e, istintivamente, le diedi un colpetto al braccio.

«Tu lo sapevi!» Esclamai stizzita dello scherzo che mi avevano fatto.

Xandra fece un segno di assenso complice poi si scusò.

«È quasi un rito di iniziazione per chi viene da queste parti.» Mi spiegò tornando composta ma rilassata.

Non l'avevo mai vista ridere così tanto di gusto, inoltre da quando ci eravamo allontanate da Talormoran si era chiusa ancora di più in sé stessa. 

Enex era l'ultimo con cui l'avessi vista avere confidenza e da allora non parlava molto, se non per cose strettamente necessarie. 

A volte non sembrava nemmeno respirare. 

Non capivo se fosse arrabbiata con me o semplicemente non mi riteneva ancora un'interlocutrice all'altezza delle sue preoccupazioni.

Sapevo che, al di fuori di quella parentesi di normalità, cose terribili continuavano a susseguirsi intorno a noi e che lei continuava a ricevere quelle notizie da qualcuno che sembrava aggiornarla di ogni cosa, senza mai condividere con me quelle informazioni o i pensieri che le frullavano per la testa. 

Sapevo di non conoscerla abbastanza, ma nessuno avrebbe potuto reggere tutta quella pressione a lungo.

«Benvenute a Nijest, sehrsiz!» La voce del conducente si frappose tra noi con tono cerimonioso, mentre gli edifici continuavano a scivolarci di fianco.

Avevo difficoltà a mettere a fuoco qualcosa all'esterno del veicolo: andavamo parecchio veloce ma da quello che riuscivo a distinguere mi sembrava essere stata catapultata all'improvviso in una bellissima città europea. 

La natura viveva in simbiosi con la modernità. I palazzi non erano particolarmente alti, tranne che per una struttura che spadroneggiava per le sue dimensioni all'orizzonte.

«Avete scelto un brutto momento per visitare la città, vi piace così tanto la Samgorna?»

«La Samgorna?» Domandai osservando il volto dell'autista attraverso lo specchietto retrovisore.

«Ah, non siete qui per la festa?» Per qualche attimo lui sollevò lo sguardo ricambiando il mio nel riflesso.

«No, siamo solo di passaggio. - Intervenne Xandra, probabilmente per paura che dicessi qualcosa di troppo - Abbiamo solo reputato che di questi tempi sia più sicuro riposare tra le mura.»

«Capisco, due donne che viaggiano da sole...»

Non sapevo cosa mi sorprendesse di più: se il pregiudizio dietro quelle parole o il fatto che per la prima volta venivo considerata una persona qualunque, senza alcun tipo di onorificenza.

«Signora, posso darle del tu?» Continuò l'uomo e Xandra annuì in silenzio.

«Fate ciò che dovete e andatevene via il prima possibile. - consigliò lui - La città sarà pure in festa per la Samgorna, ma voi sehrsiz fareste bene a starne lontano.»

«Avete per caso problemi con i sehrsiz?» Domandò con tono di sfida Xandra.

«Oh, no signora. Assolutamente no, mia nipote, insomma - mosse gli occhi complici - È proprio per questo che mi sono permesso di darvi questo consiglio.»

Mentre giravamo per una via secondaria, l'orizzonte fu invaso da una moltitudine di persone che bloccavano la strada. Anche loro indossavano vestiti decisamente più moderni.

«Cosa sta succedendo?» Domandò Xandra allungandosi verso il finestrino.

«È proprio questo di cui parlavo.» Rispose lui avanzando senza avvicinarsi troppo al gruppo in agitazione: il loro vociare era così forte che era possibile udirlo anche dall'interno dell'abitacolo con i finestrini chiusi.

«Non posso accompagnarvi più avanti, la corsa è finita qui. Vi farò arrivare l'addebito attraverso l'hotel. Adesso vi prego, andate.»

L'uomo schiacciò un pulsante e le portiere posteriori si sbloccarono e si aprirono con uno scatto.

Xandra si precipitò fuori e io la seguii a ruota.

«Buon lavoro.» Si congedò lei educata.

«Andatevene il prima possibile.» si raccomandò ancora una volta lui prima di ingranare la retromarcia per fare inversione.

Mi voltai stranita verso Xandra, alla ricerca di una spiegazione di quel comportamento, ma lei sembrava confusa quanto me. 

Fece spallucce, poi rivolse la sua attenzione alla folla che ci circondava.

«Immagino che la locanda sia dietro a questo muro di gente.» Affermai sperando di avere torto, ma lei annuì nuovamente.

Ci avvicinammo cercando di comprendere se fosse possibile farsi spazio tra di loro. 

Non sembrava una dimostrazione pacifica: i manifestanti impugnavano cartelli con frasi scritte in colore rosso che sgocciolava, urlavano a squarciagola violenti epiteti e lanciavano uova e verdura putrescente sulle mura della struttura di legno che avevano puntato - una delle poche che avevamo incontrato lungo il percorso - in un coro disarmonico di "basta" e "siamo stanchi" poi, una voce più potente si elevò dal gruppo, ampliata da qualcosa di simile ad un megafono:

«Siamo stanchi che la polizia continui ad ignorare i fatti che si consumano tra le nostre strade! Troppi figli, mariti e mogli sono stati sacrificati a causa della loro vigliaccheria e incompetenza! Il sindaco non può proteggerci con un corpo di pubblica sicurezza così corrotta. Vogliamo giustizia e la vogliamo adesso!» Intonò un discorso per concitare e indirizzare gli animi della folla.

 «Consegnaci l'assassino, traditore. Lo sappiamo che lo nascondi qui!»

A seguire, il gruppo cominciò a intonare una specie di canto da stadio "Basta sehrsiz!" e proprio nel momento in cui tutti sembravano presi dal loro inno, vidi un dito puntarsi contro di noi.

«Delle sehrsiz, sono arrivate delle sehrsiz!» Un urlo spezzò il coro e in quel momento un formicolio mi partì dalla bocca dello stomaco, diffondendosi a macchia d'olio su tutto il mio corpo; mi sentivo pietrificata, mentre tutte le voci intorno a me sparivano soffocate dal rumore del mio cuore impazzito e i volti che si giravano sempre più numerosi a guardarci, iniziarono a sfocarsi.

«Maledette sehrsiz, andate via!» Cominciarono a gridarci contro con espressioni disgustate e diventammo bersaglio della rabbia della folla.

Xandra, con riflessi pronti, mi prese per mano e mi tirò appena in tempo per evitare un pomodoro, il primo di una lunga serie di oggetti che ci lanciarono contro.

Ci fiondammo nella calca: da una parte spingevamo per farci spazio, dall'altra le persone che ci circondavano premevano su di noi per impedirci di passare. 

Facevano fronte comune mentre quelli dietro di noi ci tiravano con foga aggrappandosi a qualsiasi cosa indossavamo. 

Sballottate in tutte le direzioni, ci graffiavano, ci tiravano i capelli fino a strapparli finché non riuscimmo più ad avanzare, ma quello era il problema minore. I loro tocchi, la loro vicinanza, la loro voce si facevano sempre più intensi penetrando nel mio essere attraverso la pelle.

Le loro emozioni mi avevano investito come era successo a Talormoran. 

Sentivo i loro pensieri: il loro odio mi urlava nel profondo del petto. Avremmo potuto reagire con più forza, ma era chiaro che qualsiasi cosa avessimo fatto avrebbe peggiorato ulteriormente la nostra posizione. 

Credevo che ormai fossimo in balia della folla, quando una voce squillante predominò su tutto.

«Adesso basta!» Quelle parole vibrarono tra i presenti e la loro ammonizione riuscì a fermare di colpo la rabbia della folla. 

«Lasciate in pace le mie ospiti!»

Un uomo dai corti capelli rosso rubino e un'accennata barbetta che contornava il viso, era uscito da quella baita. 

Sostava sull'ampio porticato e stringeva con le mani la ringhiera. Stava rivolgendo uno sguardo truce ma deciso ai suoi concittadini. 

Indossava un pantalone nero e una camicia a righe sottili, grigia e un panciotto viola che rendeva la sua figura più elegante e rigida.

«Dovete smetterla di importunare me e i visitatori della mia locanda! È colpa di persone come voi se Nijest sta morendo! Continuate così! La paura non vi porterà da nessuna parte se non all'annientamento!» La folla sembrava come ipnotizzata da lui, ma appena smise di parlare tutti tornarono a vociare.

«Stronzate!» Un partecipante particolarmente agitato non riuscì a mantenere la calma. Si staccò dal gruppo e con un coltello in mano corse verso l'uomo uscito in nostro soccorso, aggredendolo. 

Con agilità il rosso evitò il colpo e, con aria calcolatrice scrutò il manifestante.

«Mia figlia è morta per colpa tua e delle persone come te. Muori!» esclamò il manifestante tornando all'attacco. Lo caricò di nuovo, cercando di conficcargli il coltello nel petto, ma ancora una volta l'altro lo schivò e improvvisamente l'aggressore si scosse come colpito da qualcosa, poi si accasciò a terra in preda a spasmi.

«É l'aurats!» Un urlo partì dal fondo del gruppo, tutti si agitarono nuovamente mentre del fumo bianco cominciò a infiltrarsi nella schiera facendo disperdere la folla.

«Forza gente, non c'è più nulla da vedere qui. - La voce decisa di una donna si amplificò invitando le persone ad andare via - Tornatevene a casa. Chiunque verrà sorpreso a perpetrare ancora atti violenti e reati di manifestazione senza autorizzazione verrà perseguito secondo le procedure descritte nel codice penale in vigore.»

La visuale era compromessa, non era possibile comprendere da dove provenisse quella voce ma riuscì nel suo intento: finalmente eravamo libere.

«Approfittiamo della situazione, andiamo!» Xandra mi tirò nuovamente: non aveva mai lasciato la mia mano per tutto il tempo e facendoci strada nel fumo riuscimmo a raggiungere il portico della locanda.

«Xandra! Perdonami...» Le disse subito l'uomo.

«Non ti scusare. Anzi, ti ringraziamo per quello che hai fatto, Garnet.» Gli passammo velocemente a fianco, mentre lui era intento a sistemarsi gli abiti scompigliati da quel breve combattimento. 

Il mio occhio cadde su quello steso a terra: era svenuto e sul collo si notava una strana cosa metallica di piccole dimensioni.

«Entrate.» Disse Garnet passando a Xandra una tessera elettronica nera, poi il suo sguardo cadde su di me - diventando l'oggetto dei suoi pensieri - mi scrutò da capo a piedi così intensamente che mi sentii a disagio.

«Signor Rallhet!» La voce di donna che aveva impaurito la folla lo chiamò, mentre il fumo si diradava.

Tre donne in divisa avanzarono: una imbracciava un fucile di precisione, l'altra aveva uno scudo antisommossa, mentre quella che procedeva centrale aveva il megafono e con le braccia conserte, richiamava la sua attenzione con lo sguardo.

«Mi occupo io di loro, andate a rinfrescarvi.» Ci incitò lui scendendo a passi lenti le scale del portico, per raggiungere le poliziotte.

«Signor Rallhet, non è strano come attiriate sempre l'attenzione dell'autorità? La sua posizione nel caso comincia ad essere di giorno in giorno più critica.»

Una parte di me era curiosa della conversazione, ma seguii senza fare rimostranze Xandra all'interno del locale.

 Ero stanca dal viaggio e le mani ancora tremavano per quello che era appena successo. Tutte quelle sensazioni negative faticavano ad abbandonarmi.

Appena entrai nell'ampio ingresso che faceva da reception tirai un sospiro di sollievo. Cercai di svuotare la testa concentrandomi sull'atmosfera dell'hotel: era molto rustica, proprio come si presentava da fuori.

Univa degli elementi moderni con il grezzo del legno di un solido parquet e pareti realizzate in pietra oblunga. Era proprio un piccolo rifugio dove chi veniva da fuori poteva sentire aria di casa.

Salimmo le scale e, arrivate al primo piano, prendemmo il corridoio fino ad arrivare alla stanza 103. Xandra, con una strana familiarità, strisciò la chiave nella fessura e la porta si aprì con uno scatto.

«Meglio della magia.» Rise entrando nella stanza.

Probabilmente voleva stemperare la tensione che ci portavamo dall'aggressione della folla, ma la sua praticità con la scienza alimentò in me il disagio che sentivo da quando avevamo attraversato le mura. 

Se la sua conoscenza era davvero smisurata, come mai era relegata a fare da semplice sacerdotessa? Aveva uno spirito di adattamento notevole, maestria nel combattimento con qualsiasi arma le avessi visto impugnare, amicizie importanti come la Swita e la dea dell'amore, ed erano solo le cose che ero riuscita a scoprire in questi mesi di viaggio: cos'altro c'era sotto la sua umile apparenza di fedele serva delle divinità?

Entrai a mia volta nella stanza e chiusi la porta dietro di me. La osservai controllare se i riscaldamenti fossero accesi, poi aprì la porta comunicante e sentii il fruscio dell'acqua che scorreva.

«Sembra che la situazione sia peggiorata. Ho il timore che domani sarà difficile trovare un'imbarcazione che parta verso sud.» Sentii la sua voce dal bagno.

L'ascoltai ancora un po' confusa, mi spogliai subito degli abiti più puzzolenti e li impilai in un angolo libero della stanza.

«Quale situazione?» Le domandai entrando nel bagno. Xandra era già nuda davanti allo specchio, mentre il rubinetto riempiva la grande vasca rettangolare.

«I Simiojn sono sempre stati intolleranti verso gli estranei e soprattutto verso la magia. Ci chiamano in maniera dispregiativa sehrsiz, "quelli con la magia" come se fossimo degli appestati, ma non avevo mai ricevuto un'accoglienza del genere.» Sospirò, tentando di levare dei gusci di uovo dai capelli.

«Sembra quasi che stia per scoppiare una guerra civile.» Commentai.

«Non è improbabile che ci sia lo zampino di Fyren, ma non ho le informazioni necessarie per esserne sicura. - si fermò e fissò la sua figura allo specchio - In fondo sono gli eredi degli esseri umani. La loro paura della magia può sembrare senza senso, ma è solo il loro modo per tenere lontano il fato dei loro progenitori. Ma più disperatamente tentano di allontanarsi da loro e più spaventosamente gli assomigliano.» 

Aggiustò con grazia i capelli davanti alle orecchie poi si voltò verso di me.

«Ti va di fare il bagno insieme?»

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