Capitolo 22 - Parte IV
«Faith» chiamai il suo nome estirpando la voce dal mio petto, sapevo non di avere molto fiato ma raccolsi tutto quello che mi era rimasto e lo utilizzai per invocare il suo nome.
Ero allo stremo ma i miei occhi furono inondati dalla luce, qualcosa o qualcuno aveva aperto uno spiraglio nel cielo in risposta al mio richiamo.
Alzai le palpebre e mi resi di conto di trovarmi al centro di una esplosione di luce, l'oscurità cominciò a staccarsi da me come pelle secca e davanti a me la schiena di una donna dai capelli neri si frappose all'aranarth che si contorceva strillando.
«Aspetta...» cercai di attirare la sua attenzione.
«Lascia fare a me» esclamò avvicinandosi senza timore all'essere.
La luce andò a diminuire d'intensità, le macerie ci circondarono nuovamente ma l'aranarth continuava a soffrire riverso al suolo.
«Essere oscuro, abbandona le tue faccende mortali, sbriglia il tuo tormento e va' nel luogo ove eri destinato» Faith avvicinò la punta decorata del bastone di Xandra al petto dell'aranarth che si illuminò, poi lo sfiorò e la luce lo invase purificando.
In pochi attimi l'oscurità si dissolse abbandonando al suolo un corpo esanime era così deformato che era difficile riconoscere la figura di Azesiel.
«Faith, come hai fatto?» la guardai sbalordito.
Avevo fatto di tutto per tenerla lontana da quella battaglia ma sarei stato un ipocrita a dire di non essermi sentito sollevato dal vederla lì in quel momento.
Ma non capivo come era riuscita a capire quello che stava succedendo, ero sicuro che non era stata mandata da Xandra e poi la sicurezza con cui aveva pronunciato quell'incantesimo non era da lei.
«Menwen renmen» si voltò verso di me e mi sorrise spazzando via ogni mia insicurezza.
Abbassai il volto e tornai in posizione eretta, che stupido che ero. Non era Faith, quella che avevo di fronte era la donna che avevo perso anni orsono.
La donna che mi aveva fatto diventare l'uomo che ero in quel momento.
«Forza Enex, andiamo. I cavalieri hanno bisogno del nostro aiuto. Facciamo come ai bei vecchi tempi?» mi domandò allungando il bastone nella mia direzione.
Alzai la spada e incrociai le nostre armi; aveva ragione lei, come sempre, non era il tempo per farsi prendere dal sentimentalismo.
«Andiamo a spaccare un po' di culi» ricambiai il suo sorriso e insieme tornammo al centro della battaglia.
Dramairan si era ben visto dall'accennarmi che si era portato appresso la sua donna, e men che meno che le aveva dato il permesso di girare liberamente per il castello.
Quando la vidi entrare nel tabernacolo credetti di avere le visioni o di vedere i fantasmi. Ero sicuro che avesse trovato una prematura dipartita nel primo grande scontro con Uriel eppure non sembrava affatto morta.
Conoscevo i gusti di mio fratello e non capivo come potesse piacergli così tanto da aver condannato la sua vita.
Certo, non ero il pulpito più adatto per fare quelle considerazioni ma era davvero una donna strana, si vede che era figlia di quella stupida progenie che erano gli esseri umani.
Mentre parlavamo si era ammutolita di colpo, ho potuto leggere il disgusto nei suoi occhi ma non ero riuscito a chiederle cosa fosse successo.
La vidi fiondarsi subito fuori dalla stanza senza farne più ritorno.
Dopo aver atteso inutilmente alcuni istanti provai a rintracciarla cercandola nelle varie stanze dell'ala ma sembrava come scomparsa.
Era una tragedia, come avrei potuto dirlo a mio fratello quando tornava?
Sospirai e titubante raggiunsi le cucine.
A quell'ora Rihannon aveva problemi ad addormentarsi per via dell'insogna così ero solito preparare una tisana rilassante per aiutarla.
Se il mio me stesso di qualche anno fa avesse saputo che mi ero ridotto a preparare certi intugli con le mie stesse mani mi avrebbe sputato in un occhio.
Mi intrufolai ai fornelli e preparai il necessario per l'infuso e nel caldo fumo dell'acqua che si tingeva si abbandonarono i miei pensieri.
Cominciai a pensare al suo sorriso serafico, alle sue piccole labbra e mi domandai come se a stava cavando senza di me.
Era la prima volta da quando ci eravamo incontrati che passavamo del tempo lontani.
Razionalmente sapevo che non l'avrei potuta portare in nessuna evenienza tra quelle mura ma presto avrebbe dato alla luce nostro figlio e le difficoltà erano davvero tante da affrontare da sola.
Non avevo timore che nascesse prima del mio ritorno, i tempi non erano ancora maturi, eravamo solo al nono ciclo lunare ma dentro di me il desiderio di vedere il mio erede cresceva spaventosamente.
Era maschio, doveva esserlo per forza, non potevo mettere al mondo un essere che avrei dovuto controllare ogni secondo della sua vita. C'erano troppe belve in quel mondo.
Il colore intenso dell'acqua e il profumo delle erbe che pizzicavano il naso mi richiamarono a sé, presi una tazza e versai una parte del contenuto del bollitore: era proprio da dirlo, ero invecchiato.
«Principe Shura, altezza!» la voce di un servitore mi disturbò spaventandomi «La regina madre... lei...»
Mi voltai per guardarlo in volto, avrei voluto rimproverarlo per aver turbato i miei pensieri ma quelle ultime parole mancate mi fecero sprofondare nell'abisso.
Non potevo credere che proprio in quella notte anche la sua vita avrebbe avuto il suo epilogo.
«La regina madre è guarita»
Le sue parole mi scossero talmente tanto che strinsi la tazza fino a spaccarla. Non potevo credere alle sue parole, era uno scherzo. Un gioco di cattivo gusto.
«Cosa stai dicendo! Mi stai prendendo in giro?» con la mano gocciolante gli diedi una spinta facendolo ruzzolare.
«Se solo sua maestà fosse qui ti farei punire come un tempo avrebbe fatto Re Veil» strinsi il pugno trattenendomi dall'eseguire il suo castigo sul momento.
«Lo giuro su tutto quello che ho di più caro. Qualche minuto fa abbiamo trovato la regina madre camminare confusa nei corridoi. Le catene maledetta l'hanno liberata e lei ci vede di nuovo» balbettò coprendosi il volto con gli avambracci.
Lasciai lo stolto tremare nella sua stessa urina e corsi di volata nella stanza della regina madre. Le sue ancelle cercarono di farmi allontanare ma io le scansai come se fossero pietroline sulla mia strada e mi diressi davanti al suo capezzale.
«Shura! Bambino mio» la sua mi accolse con uno di quei sorrisi che conservavo gelosamente nelle mie più recondite memorie.
«Quanto sei diventato grande!» si alzò a piedi nudi per raggiungermi ma io l'anticipai crollando con la testa sulle sue gambe.
«Mamma...»
Il silenzio che mi circondava fu pian piano sostituito dal rumore stridulo di armi che si scontravano, dal brusio di anime tormentate e dall'urlo di uomini travolti dalla violenza.
Cosa ci facevo in un campo di battaglia? Cosa ci faceva Enex in quel posto grondante di morte? Cosa stava succedendo? Spalancai gli occhi turbata e per un attimo mi sembrò di perdere i sensi, stranamente continuavo a sentirmi sempre più debole.
Raccolsi tutta la mia volontà, combattei contro il possente torpore che mi mangiava dall'interno e quando riuscii a mettere a fuoco le immagini notai delle luci puntiforme fuoriuscire dal mio corpo, ordinandosi in piccoli fasci e allontanarsi da me sparendo da qualche parte nel vuoto che mi circondava.
Provai a dare uno sguardo fuori, a quello che succedeva nel mondo reale e le figure di Ginozkena ed Enex che combattevano spalla a spalla spazzò via il vuoto per qualche secondo.
«Capisco...» sussurrai chiudendo di nuovo gli occhi. Una lacrima uscì dai miei occhi e invece di scendere sulle guance la sentii fluttuare verso l'alto.
Quell'immagine faceva così male eppure non riuscii a disfarmene, anche ad occhi chiusi riuscivo a vederli e più li serravo più la loro intesa si faceva vivida dentro di me.
Si difendevano a vicenda riuscendo ad annientare ogni ostacolo sulla loro strada e mentre io aspettavo come una sciocca di essere coinvolta in quello che stava succedendo lei sapeva che Enex aveva bisogno di aiuto.
Come ci riusciva? Nonostante tutto il tempo trascorso, nonostante la morte li avesse separati inevitabilmente; le loro anime avevano continuato ad essere legate e tormentate dal distacco avevano continuato a cercarsi e a donarsi l'uno all'altro.
Come potevo paragonarmi a lei? Come potevo intromettermi in quel loro rapporto così speciale e sperare di essere ricambiata? Cosa ci facevo lì?
Volevo sparire e più dormivo in quell'oblio e più sentivo la mia presenza farsi più flebile.
La coltre di oscurità che ci copriva era scomparsa e la pioggia oscura si era consumata in pochi istanti lasciando il cielo scoperto e limpido.
La notte cominciava ad imbrunire, segno che l'alba era vicina. Dopo aver fatto regredire la corruzione dei cavalieri io e Ginozkena tornammo ad abbattere gli ultimi essere elementali che ancora provavano a farci cadere.
Se fosse stata in forma sarebbe bastata solo lei ma conoscevo il suo modo di combattere meglio delle mie tasche. Cominciava a rallentare, aveva un fiatone che nascondeva più che poteva.
Stringeva il bastone come più come se si stesse aggrappando ad esso.
«Sire... guardate» Gorthalas attirò la mia attenzione. Quello che rimaneva dell'esercito nemico aveva lasciato andare le armi al suolo e ci fissavano con sguardo spento.
Avrete anche vinto questa battaglia, ma l'esito della guerra non cambierà
La bocca di quelle creature si aprì all'unisono emettendo tutti la stessa distorta voce.
Non rinuncerò ad impadronirmi del potere di Ivanhoe, guardati sempre le spalle.
Con quella minaccia gli elementali oscuri si dissolsero in un ritira preventiva.
Il primo raggio di sole del giorno mi colpì rischiarando il campo da battaglia.
«Il sole» esclamò Ginozkena con voce commossa.
«Ce l'ho fatta» si inginocchio al suolo e cominciò a piangere piegata su sé stessa.
Avevamo avuto la meglio a dispetto di tutti i pronostici.
Rinfoderai la spada e avvicinandomi a lei osservai i cavalieri che si erano riuniti intorno al corpo di Fridsig.
«Ginozkena» l'aiutai a mettersi in piedi e la strinsi tra le mie braccia per consolarla.
«Ti sono debitore di nove vite» Lei si aggrappò a me stringendomi la vita, il volto schiacciato sul mio petto non smetteva di piangere.
«Non lo fare mai più, Enex!» mi rimproverò duramente poi tornò a piangere senza lasciare la mia presa.
«Ginozkena...» la esortai ad alzare il volto e lei mi guardò rivolgendomi i suoi occhi rossi.
Aprì la bocca come per dirmi qualcosa ma poi incurvò le spalle, serrò le labbra e le coprì con le mani premendo.
Provai a sfiorarle un braccio ma lei allontanò la spalla rifiutando il mio gesto.
Innervosito dal suo solito modo di fare la presi per un polso, glielo strinsi e la tirai a me.
«Ricordi cosa ti ho sempre detto? Non puoi scappare da me» e con il cuore in gola le strappai un bacio.
Per qualche attimo provò a ribellarsi ma io le accarezzai il volto e le asciugai quelle infinite lacrime mentre lambivo le sue insofferenti labbra.
Alla fine si arrese e posando le mani sul mio collo si lasciò andare ricambiando finalmente il mio bacio.
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