Capitolo 1 - La malattia di Faith (MEZZA REVISIONE)
Attesi in silenzio qualche altro attimo mentre sentivo le forze venirmi meno, vacillai e mi aggrappai alla fredda pietra dell'altare.
Alzai lo sguardo per osservare col fiato sospeso il feticcio di paglia e terra che giaceva sulla sua superficie, i colpi del vento che sferzava intorno a noi lo stavamo sgretolando nonostante lo spago che avevo usato per tenere insieme quell'ammasso dalla vaga forma umana.
Chiusi gli occhi, la speranza stava pian piano abbandonando la mia persona finché non udii la superficie dell'involucro creparsi.
Riaprii le palpebre e osservai ciò che stava succedendo con rinata fiducia. Le fessure dell'ammasso di terra si allargarono fino a mostrare un corpo ligneo dalle sembianze umane.
«Svegliati» sussurrai.
«Svegliati!» urlai lasciandomi trasportare dall'entusiasmo.
Per qualche attimo il tempo sembrò congelarsi, il cuore mi si fermò in gola mentre l'attesa mi logorava finché l'essere aprì gli occhi di colpo e la situazione precipitò.
Degli echi inumani si propagarono nel silenzio della foresta, la creatura sull'altare cominciò a scuotersi in preda a spasmi mentre il suo volto era deturpato da un'espressione di pura agonia.
«No!» urlai tirando fuori quel poco di voce che mi rimaneva.
Provata dalla fatica e dal fallimento mi accasciai al suolo mentre Afala, la mia giovane allieva, si parava tra me e l'abominio che avevo creato e con un incantesimo elementale estinse la sua esistenza in un crudele rogo.
«Dovete riposare, maestra» sentii a mala pena il suo monito, coperto dalle strazianti urla della creatura che si logorava tra le fiamme magiche.
«Non posso» le risposi stringendo la terra tra le mani.
«Di questo passo vi farete scoprire prima di riuscire a trovare l'incantesimo giusto» mi aiutò a rialzarmi.
Il disgusto per me stessa superava solo l'amaro che provavo per l'ennesimo fallimento che avevo riportato, ma non era più il tempo di seguire l'antica morale che ci imponeva la congrega.
«Andiamo» mi incoraggiò ma le ordinai di stare al suo posto.
Mi sorressi al nodoso bastone che mi accompagnava da tempo e rimasi lì ferma immobile a sorvegliare l'incendio consumare la nefandezza del mio rituale.
Dovevo assicurarmi che ogni prova del mio gesto si incenerisse senza causare danni alla vegetazione circostante.
«Siete sicura che non ci siano altri modi?» mi domandò.
«Assolutamente»
Il silenziò tornò ad aleggiare tra gli alberi, turbati dal crimine a cui avevano assistito.
Le chiome sbattevano furiose all'unisono verso il limitare del bosco come ad intimarci di allontanarci da quel luogo sacro mentre gli animali tutto intorno ci puntavano i loro occhi vitrei, giudicando le nostre gesta.
Ma noi tornammo verso valle solcando la terra senza alcun rimorso.
Svegliati!
Aprii gli occhi in preda al panico, agitavo le mani sulla pelle di tutto il corpo come se fosse ustionata anche se non era stata alterata da nulla se non quel dannato sogno.
Ogni volta tutto il mio corpo cadeva preda di quelle visioni notturne e rispondeva come se fossi stata realmente in quella situazione.
Cercai di impormi autocontrollo, respirai lentamente per mettere un freno ai miei impazziti battiti e appena riuscii a convincere la mia testa di non essere tra le fiamme, mi feci aria sventolando il tessuto della maglia del pigiama.
Ero in un bagno di sudore e l'escursione termica con l'aria notturna mi provocò dei brividi.
Allungai lo sguardo verso la finestra con le persiane abbassate, scrutai l'insistente filo di luce che si infiltrava nella stanza buia e non potei fermare il pensiero che mi balenò ancora prima di riuscire a mettere a fuoco la vista.
Ma che ore erano?
Sospirai e con una certa fretta mi apprestai a cercare il telefono, non era al suo solito posto sul comodino quindi con buona probabilità era sommerso dalle lenzuola.
Tastai sotto al cuscino, sul materasso all'altezza dei fianchi ma lo trovai riverso sul pavimento.
«Cavolo» esclamai preoccupata, se si era spaccato ero rovinata.
Afferrai il cellulare e ne pulii con accortezza lo schermo, mi assicurai che il vetro fosse integro ma l'animazione della sveglia turbò la mia riacquistata quiete.
Il display illuminava con una fioca luce la minacciosa scritta dell'orario: sette e cinquantacinque.
Sgranai gli occhi, ancora confusa dall'agitato sonno e mi dannai per non aver sentito il lungo richiamo del dispositivo ma ormai era tardi.
Senza neanche pensarci due volte mi rinfilai sotto le coperte e mi lasciai coccolare ancora un po' dal tepore delle coperte.
Quanto avrei voluto farmi una di quelle dormite come si deve! Quando chiudi gli occhi e la tua mente viene accompagnata da un progressivo stato di rilassamento verso un ristoratore stato di incoscienza.
Da qualche mese a quella parte mi sembrava di aver scordato come si dormiva.
Quando non facevo sogni dove venivo ripetutamente uccisa, mi rigiravo nel letto spaventata da quello che avrei potuto provare se avessi chiuso gli occhi.
Non mi erano mai piaciuti gli horror ma da quando il volto di quella donna mi apparve nel primo di quei spaventosi sogni lucidi, ero costretta a subire quegli incubi con frequenza sempre più regolare.
Mi sentivo di ammattire e i miei genitori, stanchi di sentirmi urlare nel pieno della notte, mi costrinsero a seguire una terapia dallo psicanalista.
La sveglia suonò di nuovo ma quella volta la sentii, l'ultimo richiamo alla realtà ronzò nella mia testa ricordandomi che, se mi fosse data una mossa, forse sarei riuscita ad arrivare a scuola per la seconda ora.
Un tempo non sarei mai stata combattuta tra il rimanere nel letto e andare a scuola ma ultimamente non ero più me stessa.
Mi alzai sbuffando cercando di seguire cosa avrebbe fatto la vecchia Faith e mi andai a fare una doccia veloce.
Non era solo la notte ad essere problematica, il giorno mi sentivo sopraffatta da un'angoscia interna, una sensazione davvero difficile da descrivere mi risucchiava e mi annientava lentamente e più tentavo di distrarmi e più si intensificava nel tentativo di contrastarmi e abbattermi.
Come l'aveva chiamata il dottor Arker? Accidia.
Il malumore che mi faceva soffrire era "semplice malessere di vivere, dovuto alla mia volubile esistenza di giovane donna", in poche parole non avevo voglia di fare niente perché ero una sciocca ragazzina adolescente delle superiori eppure prima non era così.
A scuola avevo sempre brillato eppure in quel periodo anche la soddisfazione di un buon voto non riempiva il buco nero che mi portavo nel petto.
Così la mia eccellente media stava calando e, con mia stessa sorpresa, non me ne importava nulla.
Da quando ero diventata così instabile? Possibile che lo stress mi stesse segnando così profondamente da aver cambiato la mia personalità?
Ogni giorno che si susseguiva la mia ansia cresceva, lentamente ma con disarmante costanza.
Mi vestii alla svelta, indossando la prima maglietta che presi calando la mano nei cassetti, e infilai il blu jeans che portavo quotidianamente ma, prima di uscire dalla porta, mi soffermai davanti allo specchio per "ammirare" il risultato finale.
Mi rassicurai nel constatare che la casacca nascondeva la mia abbondante siluette e i comodi pantaloni non mettevano in evidenza il sedere che mi ritrovavo.
I ritmi di studio che mi ero sempre imposta non mi avevano mai permesso di poter fare dell'attività fisica e i risultati si vedevano tutti sul mio corpo.
Ho sempre avuto problemi ad accettare il mio aspetto fisico ma da quando Duncan mi aveva chiesto di uscire, quelle preoccupazioni si erano affievolite.
Alzai l'occhio all'orologio per assicurarmi che non erano più delle otto e mezza poi agguantai dei fermacapelli dal mobile dell'ingresso e aggiustai alla bene e meglio i miei capelli mossi e crespi.
In quei giorni avevo maturato una considerazione che andava contro il parere del dottor Arker, il mio stato non era dovuto all'adolescenza o dall'ansia che mi mettevano gli insegnanti già dal quarto anno per la conclusione del mio percorso formativo.
Mi sembrava come se in quell'ultimo periodo tutto mi irritasse, come se il problema non fosse stato vivere ma vivere una vita sbagliata.
Avevo cominciato ad odiare anche il mio stesso riflesso, tanto da arrivare a non riconoscermici più. Una volta, guardando vecchie foto appese sul muro, mi arrabbiai con la mamma perché non ne trovavo nessuna che mi ritraeva.
Eppure ero là, occhi e capelli castani sempre disordinati che posavo al fianco dei miei.
Quando mi resi conto consciamente di quello che ero arrivata a dire mi si raggelò il sangue. All'improvviso non mi riconoscevo più.
Fu quello l'episodio che mi convinse ad accettare l'aiuto dei miei genitori, mi resi conto che da sola non ce l'avrei mai fatta a superare quello che mi stava succedendo.
Così conobbi il dottor Arker, nei primi incontri il dottore si limitò ad ascoltarmi, mi invitò a parlare del rapporto che avevo con la mia famiglia, con il mio ragazzo e con il prossimo in generale poi cominciò a farmi domande mirate, mi chiedeva se mi fossero successi eventi traumatici nella mia infanzia o negli istanti prima di incominciare a percepire il mio "disturbo" ma le mie risposte non lo avevano mai soddisfatto per cui spesso tornava su quell'argomento.
A suo dire, siccome "le radici del mio malessere sono così nascoste e profonde" era arrivato a chiedermi se poteva sottopormi ad una seduta di ipnoterapia.
Più le sedute avanzavano e più mi sembrava che le sue intenzioni non fossero aiutarmi ma mi dava l'impressioni che fosse alla ricerca di qualcosa nella mia testa, qualcosa che non trovava ed era disposto ad usare ogni espediente per arrivarci.
Papà era favorevole all'ipnosi mentre alla mamma sembrava una sciocchezza ma tutti noi eravamo determinati, quanto il dottor Arker, a capire cosa mi stesse succedendo. Così, superate le prime difficoltà, decidemmo in comune accordo di provarci.
La prima seduta non andò tanto bene, il dottore mi disse di non essere riuscito ad ipnotizzarmi ma non ci abbattemmo. Mi spiegò che era normale non riuscire ad entrare in stato ipnotico le prime volte, soprattutto se "il soggetto non era molto propenso".
La vibrazione del telefono turbò i miei pensieri e stranamente inquietata risposi alla telefonata in arrivo, era Katy, la mia migliore amica.
«Faith, è tutto a posto? Come mai sei rimasta a casa?» mi domandò preoccupata appena portai il telefono alle orecchie. Parlava a bassa voce.
«Non ti preoccupare, non è successo niente, in verità sono appena uscita di casa, il tempo di prendere il pullman e arrivo» le risposi solcando l'uscio. Mi accertai di chiudere bene la porta a chiave prima di scendere le scale dello stabile.
«E ti conviene a quest'ora? Ormai non ti farebbero nemmeno entrare dopo la seconda ora» esclamò dubbiosa.
«Come la seconda ora? Ma che ore sono?» chiesi retoricamente allontanando il cellulare dall'orecchio, guardai l'orario sul display e sbottai. Dieci e mezza.
Come era possibile? Si era sfasato l'orologio del telefono?
«Sono le dieci e mezza» ribatté lei e la sua risposta mi atterrì. Avevo davvero passato due ore davanti allo specchio?
«Hai ragione però, sai com'è, volevo evitare di fare troppe assenze e poi il prof di informatica aveva detto che mi avrebbe portato un software da testare» inventai sul momento balbettando, non sapevo davvero cosa risponderle.
Katy sbuffò e rimase per un po' in silenzio. Aveva compreso che la mia era una bugia di circostanza.
«Faith...» riprese all'improvviso il discorso..
«Pensa a riposarti» aggiunse preoccupata, le avevo accennato qualcosa del mio stato psicologico e anche lei si era mostrata in apprensione per me.
Mi resi conto che mi stava capitando fin troppo spesso di rassicurare le persone a me vicine riguardo al mio stato di salute. Per quanto lottassi nel continuare a vivere una vita normale mi dovevo arrendere all'evidenza.
«Adesso devo andare, è arrivato il professore di matematica» disse e frettolosamente chiuse la chiamata.
Visto che ormai ero uscita di casa, era troppo tardi per andare a scuola e non avevo voglia di rimanere chiusa nella mia stanza da sola in attesa di essere rimproverata dai miei genitori di ritorno dal lavoro, decisi di andare a fare due passi nel parco per schiarirmi un po' i pensieri.
Un po' di aria fresca mi avrebbe fatto bene e chissà, magari avrei potuto vedermi con Duncan.
Lui era più grande di me di due anni, ci siamo conosciuti una sera nel parcheggio della scuola. Io uscivo da un corso di potenziamento mentre lui bazzicava disperso alla ricerca della sua auto.
Lo notai subito, era impossibile non voltarsi a guardare una persona della sua altezza ma ci avvicinammo solo perché Katy mi implorò di adescarlo.
Non sapevo chi fosse e desideravo sparire dalla sua vista il prima possibile.
Solo qualche giorno dopo scoprii chi fosse, il tanto chiacchierato capitano della squadra di basket e solo allora compresi l'eccitazione di Katy nel poterlo avvicinare da solo.
Era spesso accompagnato da fighe stratosferiche che gli morivano dietro. Lui era sempre cortese e sorridente ma il meglio di sé lo dava sul campo.
I suoi capelli biondi brillavano come i fari del palazzetto dello sport che lo illuminavano durante le partite di qualifica.
La sua presenza riusciva sempre a spazzare gli schemi degli avversari e con un abile gioco di squadra era sempre quello che raggiungeva il cesto e collezionava una serie di centri da paura.
Ero persa per lui, ogni giorno non vedevo l'ora di approfittare delle pause per appostarmi tra gli spalti e vederlo giocare finché un giorno sentii la sua voce chiamarmi.
Ero così scioccata che mi guardai intorno se stesse effettivamente parlando con me.
Cominciammo a passare i pranzi in compagnia e lui si premurava di accompagnarmi a casa ogni sera. Più parlavamo più mi rendevo conto di quanto eravamo diversi eppure un pomeriggio mi ritrovai le sue labbra sulle mie.
Con una naturalezza disarmante mi rubò il primo bacio e da allora non ci siamo più separati.
Era passato un anno nel frattempo, la mia prima impressione non cambiò, eravamo davvero così diversi, il nostro rapporto a volte aveva difficoltà ad ingranare ma io non potevo immaginare la mia vita senza di lui.
Mi schiarii la voce, per non farmi sentire turbata, e lo telefonai.
«Pronto?» mi rispose in tempi record, di solito dovevo sempre far squillare il telefono una vita, da quando aveva finito la scuola passava il tempo ad allenarsi o a spassarsela con i suoi compagni.
Non aveva problemi di studio, con il talento che aveva era inseguito da diversi scout sportivi che lo corteggiavano.
Doveva solo scegliere a quale squadra dire di sì.
«Ciao, amore» gli risposi timidamente, mi faceva ancora un po' strano chiamarlo con quel nomignolo.
«Ciao, piccola! Per fortuna mi hai telefonato, stavo proprio pensando a te» la sua affermazione mi fece arrossire e rimasi muta.
«Ma... non dovresti essere a scuola?» mi chiese subito con voce provocatoria «Dove ti trovi?» aggiunse curioso.
«Ho avuto una brutta mattinata e ho fatto tardi» gli spiegai facendo una pausa «Una storia lunga, però adesso voglio solo distrarmi un po'» ripresi evitando di iniziare il discorso.
«Hai litigato di nuovo con tua madre?» mi domandò subito, solitamente avrebbe avuto ragione ma in quel caso la questione era un po' più complessa.
«Sì» mentii «Che dici, ti va di vederci?» gli domandai per sviare il discorso.
«Certo» anche se non potevo vederlo sapevo che gli si era illuminato il volto.
«Ti aspetto alla nostra fermata del pullman» gli indicai approssimativamente, ma lui sapeva esattamente di quale fermata parlassi.
I primi tempi, quando ancora all'apparenza non c'era nulla tra di noi e lui si offriva di accompagnarmi a casa con la macchina, mi facevo lasciare alla fermata dell'autobus del parco per evitare che i miei lo vedessero.
«Arrivo» dicendo questo chiuse la telefonata.
Prima di incamminarmi al punto di incontro stabilito fissai per un paio di secondi la foto sullo sfondo del cellulare, ritraeva me e Duncan che ci baciavamo, uno dei primi giorni di fidanzamento.
Se solo le cose fossero rimaste così semplici, non pretendevo che fosse per sempre ma quantomeno fino a quando avrei potuto affrontare il discorso serenamente.
In quel momento tra la scuola e il mio "disturbo" non riuscivo ad affrontare lucidamente le insistenti richieste di Duncan.
Arrivai alla fermata in un paio di minuti e poco dopo intravidi il muso del suo "bolide".
«Ma quale santo preghi per far si che sto catorcio si tenga ancora su?!» esclamai affacciandomi al finestrino del passeggero.
«Non c'è niente da scherzare! Se le va a succede qualcosa come faccio con le esterne?»
«Non c'è molto da vantarsi di questa macchina eh!» gli feci notare entrando e mettendomi la cintura.
La famiglia di Duncan era abbastanza indigente e quell'automobile di nazionalità tedesca l'aveva acquistata usata con i soldi di un lavoretto part-time, ad un prezzo davvero ridicolo e l'aveva rimessa su per quello che poteva.
Era solito dire che con il primo stipendio da giocatore professionista si sarebbe comprato una macchina da competizione. Sotto sotto sapevo che era orgoglioso anche se spesso lo faceva esasperare.
«Dove andiamo?» gli chiesi mentre metteva in moto.
«Vedrai» mi rispose criptico inserendo la marcia.
Abbassai il finestrino e osservai il paesaggio cittadino che veloce scorreva e correva, lasciando il posto alle pianeggianti figure della periferia.
L'aria che entrava in macchina era piacevolmente fresca. Le prime belle giornate di aprile stavano riscaldando l'aria in città e io mi sentivo già soffocare.
«Che ti ha detto il dottore l'ultima volta che sei andata?» mi chiese Duncan interrompendo il mio momento di quiete.
«Lo psichiatra dici?» gli risposi tornando con i piedi per terra.
«Sì, avete parlato di me?» domandò alzando ripetutamente le sopracciglia.
«Ma per quale motivo avremmo dovuto parlare di te?!» gli risposi ridendo, mi irritava quando aveva ragione e per questo cercai di sviare.
«Ah boh, non lo so» rispose scrollando le spalle.
«Dice che la prossima volta vuole provare ad ipnotizzarmi» gli rivelai.
«Figo! Voglio esserci anche io» esclamò come un bambino.
«Mi dispiace, non è possibile»
«Ma deve essere così figo» ripeté.
«Perché tu credi all'ipnosi?» gli chiesi seriamente.
«Non saprei ma sono curioso proprio per questo. Magari gli chiedo il favore di farti fare la gallina»
«Duncan! Ma sei scemo?» mi arrabbiai e lo colpii con il pugno sul braccio destro. Prendeva sempre tutto in maniera superficiale.
«Piano, vuoi che vada fuori strada?» la sua giustificata lamentela mi fece tornare in me e sospirai tornando a guardare fuori dal finestrino.
«Anche io sono sempre stata curiosa al riguardo e sinceramente ho accettato solo per questo».
Rimuginai qualche istante, sperando che quel espediente potesse davvero d'aiuto.
«Bene, ci siamo» sentii la sua voce rallegrarsi mentre tirava il freno a mano dopo aver eseguito un parcheggio molto a modo suo in uno spiazzo che avrebbe accolto anche tre macchine.
Finalmente il nostro peregrinare si era concluso. Era già da un po' che avevo capito dove mi voleva portare e speravo non per quel motivo.
«Ho pensato che la vista del mare ti avrebbe fatto piacere» esclamò porgendomi la mano dopo aver visto il mio volto incupito.
Come al solito aveva ragione, già che ne sentivo l'odore da lontano mi sentivo meglio.
Mano nella mano attraversammo lo stradone di asfalto che portava verso la litoranea e ci addentrammo nel boschetto che ci separava dalla costa.
La fragranza pungente dei pini sempreverdi mi avvolse, sentivo già da lì chiaramente il richiamo delle onde che si infrangevano sugli scogli, il loro suono mi chiamava a sé come per un marinaio naufragante il canto delle sirene.
Arrivati a destinazione mi arrampicai sugli scogli per raggiungere con destrezza quello più alto e chiusi gli occhi, inspirando lo iodio che le furiose onde spruzzavano su di me, bagnandomi il volto con invisibili goccioline.
Mi sembrava quasi di rinascere, mi sentivo in pace, mi sentivo a casa.
«Sei proprio bella» sentii la voce di Duncan alle spalle e approfittando del mio momento di guardia abbassata, mi abbracciò cingendo la mia schiena.
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