22. L'uomo insolito (rev.02)
Tessa Mars era tante cose; prima tra tutte, non era una donna comune.
Amava vestirsi in modo appariscente, cambiare spesso colore e taglio di capelli. Essere insomma, ogni volta che lo voleva, diversa dalla versione precedente di sé.
Il suo camaleontismo però non era sintomo di insicurezza: quel suo essere così eccentrica, era l'affermazione di una salda autoconsapevolezza e di una forte personalità che gridava, senza peli sulla lingua, la propria presenza al mondo.
Ma Tessa non era sempre stata Tessa.
Aveva vissuto in un bozzolo fino all'età di ventisei anni, quando le avevano diagnosticato un cancro all'utero. La chemio l'aveva debilitata, a tal punto da ridurre a un soffio l'energia umana che aveva vissuto timidamente in lei fino a quel momento, lasciando così che fosse il suo lato latente a venire alla ribalta, rimettendola miracolosamente in piedi.
L'istigatore, che dalla nascita aveva albergato silenziosamente in lei, ne aveva ereditato i ricordi, così indelebilmente scolpiti nell'energia umana che l'aveva sostenuta fino a quel momento. La nuova Tessa si era semplicemente limitata a dare, finalmente sfogo, a quello che la sua parte normale, in fondo, aveva sempre desiderato; da timida e anonima era venuta alla luce come una farfalla scintillante.
Amici e conoscenti avevano attribuito quel cambiamento radicale alla "resurrezione" che aveva segnato la sconfitta della morte e la ripresa alla vita, la comprensibile voglia di essere diversa dopo aver capito cosa si era rischiato di perdere.
Tessa invece sapeva bene quello che era successo. Poteva chiaramente sentirsi ora che era in grado di vedere la vera realtà. Così, istintivamente, aveva iniziato la ricerca dei suoi simili.
La sua natura però si basava sul "vivi e lascia vivere". Non aveva mai assecondato la pulsione a forzare altri istigatori a rivelarsi e venire alla luce nei corpi che li ospitavano.
Essere un istigatore, nella pura accezione del termine coniato dall'Azienda, non era mai stato nelle sue corde; preferiva comportarsi secondo la norma che più si adatta a quelli che i vedenti definiscono neutrali.
Aveva vissuto i primi mesi dalla sua rivelazione osservando in disparte il mondo che la circondava, fino a quando cominciò ad avvertire un vuoto dentro.
L'energia scava nel corpo e si crea la sua nicchia e quando una delle due parti viene a mancare, quella che sopravvive non riesce del tutto a colmare lo spazio che si è creato, almeno non subito: l'assenza è percepibile inizialmente come un fastidio leggero che via via si fa più pesante. È come mancarsi, pur essendo presenti.
Non è facile da accettare e per un istigatore appena rivelato, proseguire a metà, inizialmente, sembra impossibile.
Così era stato per Tessa, fino a quando, un giorno, le si era presentato un uomo di colore, dall'età indefinita, tra i quaranta e i cinquant'anni, calzante un look bohémien. Era entrato nel negozio in cui lavorava come commessa e senza levarsi gli occhiali da sole scuri, le si era proposto sfacciatamente come la soluzione alla tristezza che la scavava dentro.
Le aveva dato un biglietto da visita, con indicato solo un indirizzo; dopo di che era uscito dal negozio, senza comprare nulla.
Non disse niente altro ma solo quel breve scambio di parole fu sufficiente a farle sentire che anche lui era come lei e per quel breve istante, Tessa si era incredibilmente resa conto che la sua ferita aveva smesso di sanguinare.
Non ci aveva pensato su troppo e a fine turno aveva preso un taxi e raggiunto l'indirizzo riportato sul biglietto.
Si era trovata di fronte una grande casa bianca, con ampie vetrate che si aprivano lungo tutta la facciata.
Senza indugio, aveva suonato il campanello. Quando la porta si era aperta, un uomo dagli occhi buoni e il sorriso sornione l'aveva accolta con la stessa cura che si riserva al migliore tra gli amici. Così aveva fatto la conoscenza di Virgil Bates e aveva capito finalmente chi era sempre stata.
Era solita alzarsi di buon ora e trascorrere almeno una mezz'ora guardando fuori dalla finestra della sua camera da letto. Stando seduta sul bordo interno del davanzale, dall'alto del decimo piano, poteva vedere chiaramente la luce del mattino crescere di intensità e farsi largo tra le strade e i palazzi di quella città.
La forza con cui i raggi del sole salivano, l'affascinava ogni giorno.
Nel Limbo la luce è inesistente. L'unico ricordo di un istigatore della sua vita precedente equivale al buio più totale.
La consapevolezza di essere viva, nel modo più meraviglioso che si possa desiderare, in un mondo di luce, era il dono più grande che avesse mai sperato di ricevere.
Quella mattina però, non si era potuta dedicare a quel suo rito.
La chiamata di Jamie era arrivata intorno alla mezzanotte, anche se lei, ancora prima che il telefono iniziasse a squillare, era già stata strappata brutalmente da un sogno profondo.
Un'enorme esplosione di energia l'aveva scossa a tal punto che le era stato impossibile poi riprendere sonno. Non era l'energia di un istigatore e nemmeno quella di un vedente normale. Nessuno di loro aveva un'energia simile, sebbene vagamente la trovò somigliante a quella di Benedict Wigan.
In fondo, nello strascico che la colpì di riverbero, sentì chiaramente un eco graffiante, che la scosse con la stessa entità ed effetto di un richiamo all'attenti.
Solo lo squillo del telefono aveva spezzato quella sensazione di ipnotico controllo cui si era sentita, seppur temporaneamente, soggiogata.
Si era vestita in fretta e furia, indossando una tuta in pelle rosso carminio e un paio di anfibi dalla suola vistosamente spessa e altrettanto rapidamente era salita in sella alla sua adorata moto e aveva raggiunto Jamie alla sede centrale dei neutrali, lì in città.
Era convinta di essere stata particolarmente rapida eppure, nonostante fosse da poco passata l'una di notte, c'era movimento, troppo, tanto da definirsi preoccupante.
Salì rapida al secondo piano, facendosi largo tra i presenti che si erano accalcati davanti alla porta d'ingresso della sua ala preferita dell'edificio.
Non ebbe bisogno di bussare perché Jamie, dall'interno, la sentì e la fece subito entrare.
"Che diavolo è successo?" chiese saltando i convenevoli.
L'amico, in un impeccabile mise casual, l'accolse con aria sconvolta. Alle sue spalle, seduto in una poltrona d'epoca dal rivestimento color senape, Virgil Bates sembrava avere lo sguardo perso oltre l'unica enorme finestra che si apriva sulla piccola stanza.
"Diciotto dei nostri, sono stati fatti fuori, forse anche di più" le comunicò rapido Jamie schioccando nervosamente le labbra.
"Istigatori?"
"No, vedenti."
"Cosa?! Non possono essere stati loro!"
"Sembrerebbe il contrario invece."
"Dove è successo?"
"Ovunque."
Tessa strabuzzò gli occhi convinta di aver male inteso.
"Un portale di famiglia, che si è esteso su più di mezza città."
La donna fissò il suo interlocutore diretto e a seguire l'ascoltatore silenzioso che ancora le dava le spalle.
"Credete sia stato Ben?"
"L'impronta era la sua ma solo velatamente. Il resto non si era mai sentito, per lo meno, non qui."
Quella sensazione, quella morsa alle viscere dunque, non era stata l'unica ad avvertirla.
"È un ricordo, vero?"
Jamie si limitò ad annuire, stringendo nuovamente le labbra.
"Come può essere?" domandò Tessa percependo il panico farsi largo dentro.
"Allora capii che nell'anima, fin dalle sue prime origini, c'è stato un anelito alla luce e un impulso inestinguibile ad uscire dalla primitiva oscurità", citò improvvisamente Virgil Bates, poi voltandosi aggiunse: "Nessuno può sopportare di vivere nell'oscurità per sempre se ha un mondo di luce a sua disposizione."
Harvey Burt detestava fingere. Reputava, da sempre, il trattenere le proprie emozioni, come la tortura peggiore che un vedente potesse autoinfliggersi.
Evidentemente però, Ben Wigan non soffriva la stessa condizione, anzi, pareva trovarsi a suo agio nel recitare il ruolo di qualcun altro, mettendo in primo piano emozioni e sentimenti così distanti dal suo vero essere, al puro scopo di dare un'idea di sé che non poteva essere più lontana dal vero.
Forse godeva nel prendersi gioco degli altri oppure odiava a tal punto il suo vero io da preferire ripiegare su una versione costruita di sé stesso, una versione che però, per Harvey Burt, non era poi così tanto diversa da quella reale.
Se c'era un aspetto dell'energia che a Burt era impossibile non cogliere, era proprio quella parte dormiente che ognuno tiene inconsciamente al sicuro dietro una gabbia in fondo all'anima.
Poteva sentire così chiaramente l'istigatore sopito degli altri, da arrivare a rischiare, troppo spesso, di perdere il controllo del proprio. E lui amava sentirsi diverso, così dannatamente e pericolosamente al limite, in bilico tra restare e andare oltre quel confine di sé per vedere cosa di lui sarebbe rimasto e cosa invece sarebbe cambiato.
Aveva accarezzato più volte quella sensazione di potenza, di potere; era diventata per lui irrinunciabile.
Eve era in grado di istigarlo quel tanto che bastava a dare il là ad una trasformazione effimera, che non necessitava di un portale per essere smaltita.
Quando lei riversava nella sua bocca parte della sua energia di istigatrice, baciandolo con una passione che sapeva essere vera, si lasciava andare senza freni o timori all'estasi di quello smarrimento che avrebbe terrorizzato chiunque, ma non lui.
In quelle occasioni si sentiva come avrebbe voluto sentirsi ogni singolo istante della propria esistenza: invincibile, primo tra tutti, eccetto nel confronto con quell'unico lato nascosto, della cui estensione, non avrebbe mai potuto capacitarsi perché, l'istigatore che albergava in Benedict Wigan, era davvero inarrivabile.
Anche quando Wigan era in quiete, non poteva non sentirlo respirare in lui. Era un'energia che, anche a riposo, si faceva spaventosamente sentire, per lo meno a lui, che ne aveva la capacità.
Di certo, il signor Cohen l'aveva avvertita, quell'unica volta in cui aveva scelto di rischiare la propria vita cercando di riequilibrare colui che poi sarebbe diventato il suo pupillo.
Harvey Burt invece non smetteva di sentirla e la cosa lo mandava in estasi ogni maledetta volta.
Era elettricità, uno stimolo vitale che partiva dal profondo, gli scuoteva le viscere e gli faceva desiderare che non fosse mai abbastanza.
Si percepiva più vero quando sapeva di essere istigato, seppure solo in parte, ed era certo che anche Wigan avrebbe preferito vivere perennemente sul filo dell'istigazione, percependosi migliore, se solo il protocollo e la morale lo avessero concesso.
In facciata, tutti lì dentro erano costretti ad esibire la versione migliore per gli altri; in privato, potevano essere chiunque e Harvey Burt, lontano da quella realtà costruita, si sentiva vivo solo liberando il peggio di sé.
Prese le scale di servizio, per evitare di essere costretto a oltrepassare quella manica di stolti che avrebbe dovuto definire colleghi. Chiamò l'ascensore solo al piano successivo, per poter raggiungere l'ultimo livello dell'edificio, dove il signor H lo stava aspettando.
Il CEO dell'Azienda aveva riservato il venticinquesimo piano interamente a suo uso esclusivo.
Sebbene, come gli altri livelli, anche l'ultimo fosse strutturato in più sale che avrebbero dovuto essere dedicate a uffici e sale riunioni, l'unica a essere utilizzata era quella in fondo al lungo corridoio che dall'ascensore portava dritta al lato est dell'edificio. Lì, una porta in spesso vetro opacizzato custodiva quello che era l'ufficio personale dell'uomo a capo della società che dirigeva le sorti della normale esistenza umana.
Il signor H era un uomo sulla settantina, estremamente colto e intelligente.
Non era un vedente, non avrebbe letto le sue emozioni ma le avrebbe semplicemente intuite osservandolo.
Lo conosceva da quando aveva sedici anni, sapeva interpretare ogni minima sfaccettatura sul suo viso, ogni impercettibile tic che involontariamente accompagnava i suoi gesti.
Harvey Burt non aveva mai mentito al signor H, anche se molto probabilmente, in quello, sarebbe riuscito a farla franca. Non lo aveva mai fatto però, in nome di quel rispetto che doveva all'uomo che lo aveva accolto ancora adolescente, dandogli una seconda possibilità.
Nonostante l'ora, non si sorprese nel trovare la signorina Scarlett, la segretaria personale del CEO dell'Azienda, già operativa alla sua postazione posta nella hall al termine del corridoio, giusto una decina di metri prima della porta che recava, in caratteri dorati, le iniziali dell'uomo che lo stava certamente aspettando.
Impeccabile ed elegante, come in fondo esigeva la Direzione, la signorina Scarlett era una giovane donna, poco più che vent'enne, particolarmente bella e inflessibile: se il signor H non voleva essere disturbato, era lei la persona cui riferire.
Burt inizialmente aveva trovato insolita la scelta dell'uomo di incaricare una ragazzina del gravoso compito di rappresentarlo, tanto che sul subito, aveva pensato che avesse un qualche interesse, non propriamente professionale, nei suoi riguardi.
Nelle occasioni in cui aveva avuto modo di interfacciarsi con lei, sentendola, si era dovuto però ricredere: la signorina Scarlett rappresentava perfettamente il modo di fare intransigente del signor H, sembrava conoscerlo profondamente, come se fosse stato suo personale tema di studio per poter ottenere il posto che adesso occupava.
Era capace di mettere in soggezione; sapeva come non farsi leggere dai vedenti. Solo per Burt faceva un'eccezione.
Anche quella mattina, rimase imperturbabile vedendolo entrare. Si limitò a un saluto breve ma carico di rispetto, indugiando però a lungo con lo sguardo nell'osservarlo.
Come capitava ogni volta, Harvey Burt ricambiava rapido i convenevoli, incedendo diretto verso la porta di H, non prima però di aver letto chiaramente lo sbalzo di livello che lei volutamente voleva fargli sentire: lo desiderava, sfacciatamente.
Come sempre, lui restava impassibile, rendendo maggiormente eccitante per lei il provocarne la reazione.
Era un giochetto che stuzzicava e non poco la fantasia di entrambi.
Il protocollo non permetteva quel tipo di rapporti tra colleghi e per H, il rispetto del protocollo aveva la priorità assoluta. Ma le regole esistono per essere infrante e in più di un'occasione, si erano ritrovati nel bagno al lato opposto di quel corridoio, perennemente deserto, a dare libero sfogo alle proprie pulsioni, in barba a un protocollo che a troppi, segretamente, andava eccessivamente stretto.
Si passò una mano sui capelli e si aggiustò meglio la giacca, controllando che il bottone centrale fosse chiuso e che il nodo della cravatta fosse impeccabile.
Incedette a passo sicuro verso la porta quando la voce, dal tono sensuale di lei, lo bloccò nell'intenzione.
"Non è solo" gli disse sottolineando il parlato con uno sguardo esaustivo.
Burt si sorprese. Chi poteva essere a colloquio con lui a quell'ora del mattino?
"Con chi è?" chiese avvicinandosi al desk di lei.
"Non lo conosco" rispose la ragazza muovendo naturalmente le spalle in un moto sinuoso. "Ma non è la prima volta che lo vedo."
"Fammi vedere la sua agenda" pretese l'uomo con un gesto spicciolo della mano.
"Inutile fare la voce grossa" rispose lei con un sorriso malizioso. "Non era in programma. È un appuntamento che ha preso da solo, non ne ero al corrente."
Harvey Burt era perplesso. H era un tipo metodico, non improvvisava su nulla perché per poter dirigere è fondamentale il controllo.
Si concentrò per sentire oltre il muro che lo divideva dal CEO. Lo individuò immediatamente ma insolitamente, al di là dell'energia che già conosceva, non ne percepì un'altra.
"Sei certa che sia con qualcuno?" tornò a domandarle scuro in volto.
Iniziava a perdere la pazienza; il tempo era qualcosa che odiava decisamente sprecare.
La ragazza, poggiò entrambe le mani sulla scrivania, e lentamente, si sollevò ondeggiando impercettibilmente i fianchi:
"È un tipo particolare, l'ho notato decisamente quando mi è passato davanti" poi, inchiodando gli occhi nocciola in quelli di lui, aggiunse: "Non c'era nessuno a distrarmi, prima."
Per una frazione di secondo, la minuta farfalla dalle ali verdi, che sapeva tatuata nell'incavo della coscia destra di lei, gli si palesò davanti agli occhi.
Strizzò rapido le palpebre per cancellarne l'immagine e mettere a tacere quello sbalzo che lei era riuscita a provocargli.
"Dimmi di lui" chiese poi per ritrovare la concentrazione e il contegno.
"È un tipo sulla cinquantina. Capelli scuri, senza barba, occhi trasognati, apparentemente un tipo comune eppure ha un non so che di...insolito" descrisse lei, poi sorridendo proseguì "Ha una passione per l'uva passa. Ne ha sempre un sacchettino nella tasca della giacca: ogni volta che mi passa davanti tenta di offrirmene una."
L'uomo era stranito: chi diavolo era questo tizio? Perché era da H?
Non aveva voglia di aspettare, doveva entrare e fare rapporto su quanto accaduto al ventesimo piano.
Si stirò nuovamente la giacca, questa volta con un gesto secco di stizza e fece per bussare quando la porta dell'ufficio si aprì: si trovò così, faccia a faccia, con un uomo decisamente insolito, che trovandoselo di fronte, esibì un largo sorriso disincantato.
D'impatto, quel volto non gli disse nulla, ma fu la sensazione che immediatamente gli trasmise a costringerlo a bloccarsi sulla soglia e a seguirlo con lo sguardo.
Fu una sensazione strana, non era un vedente né un istigatore. Burt sapeva perfettamente riconoscere un normale eppure quell'uomo era davvero decisamente insolito.
Lo osservò attentamente mentre si fermava davanti alla postazione della signorina Scarlett per estrarre dalla tasca sinistra della giacca un piccolo sacchetto di carta. Lo guardò arrotolarne con cura eccessiva i bordi per poi allungare la mano verso la ragazza:
"La vuole un'uvetta passa?" le chiese esibendo il medesimo sorriso di poco prima.
"No, grazie" gli rispose lei con gentilezza quasi compassionevole.
"Non sa cosa si perde. Sono stupefacentemente buone" ribatté lui con un'esagerazione che suonò però naturale.
Entrambi lo seguirono nel gesto di estrarre dal sacchetto uno di quei chicchi scuri raggrinziti, rimanendo poi a fissarlo mentre, con aria sognante, lo osservava da vicino, tenendolo ben saldo tra l'indice e il pollice.
"È incredibile come una cosa così apparentemente insignificante possa celare un potenziale tanto incredibile, non trovate?"
Nessuno dei due rispose, non condividendo evidentemente lo stesso slancio verso un argomento del tutto privo di sostanza, per lo meno in quel contesto e in quel momento.
L'uomo non se ne preoccupò. Portò alla bocca l'acino disidratato e mentre ne assaporava lentamente il gusto, ripercorse il corridoio da dove era arrivato, sparendo così dalla loro vista.
Arrivato all'ascensore, trovò il vano aprirsi: una donna, snella e longilinea, stava per uscire quando si trovò costretta a immergere lo sguardo in quello di lui.
L'uomo entrò nel vano ma la donna restò immobile, gli occhi verde chiaro dal taglio sottile calamitati da quell'insolito personaggio.
"Gli incontri migliori non capitano per caso" disse lui sistemando meglio l'apertura del sacchetto. "Ne vuole una?"
La donna, piacevolmente sorpresa, lasciò che le porte dell'ascensore si chiudessero, dimentica di essere arrivata a destinazione.
"Certo" rispose Eve con garbo.
L'uomo insolito sorrise.
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