La ragazza dei fiori di ciliegio
prefettura di Tokyo, ore 18:30

«Piove, sento le gocce che cadono sul suolo come bombe sul mio cuore ferito.»

Sono passati tre mesi dalla morte dei miei genitori, sono sembrati tre anni.
È davvero strano definire al tempo passato quel periodo, perché non credo che sia finito del tutto per me.
È dura superare un lutto, non so se sono così forte da lasciarmi tutto alle spalle.
Vorrei tanto che questa monotonia che mi imprigiona scomparisse del tutto, che qualcosa o qualcuno mi stravolgesse la vita, perché attualmente non ne sono soddisfatta e sono consapevole che non posso continuare così.
Sono divorziata, mi hanno tolto l'affidamento e mio figlio Uehara è con un ubriacone tossicodipendente. Perché al giorno d'oggi, così funziona la giurisprudenza Giapponese: un figlio non può stare con una madre depressa ma con il padre drogato e ubriacone sì.
Volevo dare il meglio per mio figlio, tutto ciò che i miei genitori non mi avevano insegnato.
Volevo dargli amore: perché i miei genitori erano molto rigidi, nonostante mi dimostrassero amore a modo loro.
Volevo farlo viaggare, fargli capire che la vita va vissuta e amata.
Insegnargli a prendere le cose brutte della vita in modo leggero, perché alla fine quello che conta è stare bene con se stessi.
L'ultima volta che l'ho visto è stata al parco di Ginza, a Tokyo.
Eravamo seduti su una panchina sotto un albero di ciliegio, i servizi sociali me l'hanno strappato via dalle mani con violenza, senza pensare al dolore di una madre nel perdere il proprio figlio.
L'umanità è disumana a volte.
Mi capita spesso pensare a che cosa stia facendo, come lo staranno trattando, o semplicemente a come si starà sentendo.
So che dovrei accettare la realtà, dovrei andare avanti con la mia vita, ma non ci riesco.
La stessa sera, dopo che mio figlio era stato portato via dai servizi sociali, piansi tanto, talmente tanto che avrei voluto affogare nelle mie stesse lacrime.
Mi è stato portato via tutto.
Non ho piú nulla.