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Sì, stanco lo era. Ma non abbastanza da trovar giusto che la sua apprensiva amica si perdesse il momento più spettacolare della festa. Non capitava tutti i giorni di assistere all'opera dei leggendari mastri fuochisti giunti appositamente da Lognabo. Sapevano dipin­gere il cielo notturno con perizia di pittori coi loro favolosi giochi di fiamme multicolori. Shamira doveva assolutamente vederli, decise puntando direttamente verso il promontorio e la tozza sagoma della Chianca, la torre d'avvistamento posta all'entrata del golfo di Triana.

- Che fai? Noi abitiamo di là! - esclamò la fanciulla colta alla sprovvista.

- E la nostra stanzetta sarà ancora lì quando torneremo - disse senza inquietarsi.

- Prima sei quasi svenuto! Devi andare a riposare! - ribatté la ragazza puntando i piedi.

- Più che altro sono abbastanza stufo di dover trascinar persone, perciò... -

- Ah! Che fai? Tavish! -

In men che non si dica il giovane si era chinato e se l'era caricata su una spalla, per poi riavviarsi tranquillamente lungo la banchina.

- Non sono un sacco di grano! Mettimi giù!!! -

- È vero, sei molto più leggera - ridacchiò ignorando i suoi rimbrotti.

- Giuro che la prossima volta che vorranno lanciarti come una palla, non muoverò un dito per impedirglielo! Dove mi stai portando? -

- Solo a fare una visita al nostro amico della Chianca. Tutti sono in piazza a divertirsi, tranne mastro Kasey, poveretto. Però dalla sua terrazza i fuochi si possono... -

Il ragazzo si zittì brusca­mente, fermandosi nel bel mezzo del pontile.

- Tavish! C'è qual... -

- Zitta! - mormorò perentorio rimettendola velocemente a terra. - Corri subito a casa e sbarra la porta! -

- Non posso! C'è qualcuno qua dietro! - sussurrò Shamira di rimando ag­grappandoglisi al braccio spaventata.

Il giovane volse il capo e soffocò un'imprecazione tra i denti. Altre due ombre minacciose, proprio come quelle che aveva scorto alla base scarpata della torre e che ora stavano convergendo verso di loro.

- Trattieni il fiato! - gridò circondandole la vita con il braccio.

Un paio di passi, lo slancio potente oltre il bordo della banchina, l'impatto violento con l'acqua. In una nuvola di bolle il ragazzo si spinse verso il basso trascinando con sé la compagna, rasentando a tentoni la chiglia sommersa di un gozzo da pesca, per riemergere con lei dall'altra parte.

- Stai bene? -

- Sì! -

- Resta qui. Non un fiato finché non torno! - ordinò sbrigativo recuperando dal fondo della barca un arpione da tonni e sparendo di nuovo sotto la superficie.

La fanciulla tremava, ma non di freddo. Chi mai erano quegli spettri che si aggirava­no per il porto, confabulando tra loro in una lingua gutturale e sconosciuta? Quando si arre­starono proprio davanti all'attracco del suo precario nascondiglio, il cuore le mancò un batti­to. La barca oscillò bruscamente come se qualcuno fosse balzato a bordo. Lo sentiva incom­bere su di lei, ma la paura le impediva qualsiasi reazione.

Poi il grido, il tonfo sordo. Shamira si premette le mani sulla bocca per non urlare quando lo sconosciuto, a faccia in giù nell'acqua, le galleggiò a meno di un braccio di distanza, l'asta dell'arpione profondamente infissa nella schiena. Altre urla giunsero dalla parte del pontile, quando qualcuno precipitò in acqua dibattendosi e sparì con un grido soffocato dai gorgoglii.

I due rimasti sulla banchina strepitavano invettive incomprensibili, litigando forse. Fu allora che Tavish emerse dalla parte del porto a tagliargli la strada, una lunga spada ricurva stretta nella mano de­stra, identica a quelle brandite dai misteriosi invasori che lo caricarono urlando. Non ebbe il coraggio di guardare. Si nascose dietro lo scafo, con gli occhi serrati e le mani premute sulle orecchie per chiudere fuori la paura.

Non avrebbe saputo dire per quanto rimase così. A un certo punto qualcosa le sfiorò il capo e lei scattò come se si fosse scottata.

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