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Shamira lo osservava in silenzio ogni giorno. E ogni giorno scopriva qualcosa di nuovo, lei e lei soltanto. Forse perché pareva l'unica disposta a degnarlo di una secon­da occhiata.

A lui, del resto, pareva andare bene così.

Non faceva nulla per attirare l'attenzione, ma proprio il contrario.

Non parlava quasi mai, tanto che le poche volte che lo faceva la sua voce suonava ru­vida come un attrezzo arrugginito per il poco uso.

Mangiava la sua razione di zuppa per conto suo, il volto chino sulla scodella, a cuc­chiaiate lente, come per farla durare di più.

I suoi abiti avevano lo stesso colore della terra, carichi di polvere com'erano, e così la sua pelle, i capelli ispidi e la barba irsuta, dandogli ancor più l'aspetto di un vecchio logoro e inno­cuo.

Ma non lo era.

Lo aveva ben visto quella notte, quando aveva scacciato i suoi tre persecutori maneg­giando un semplice bastone come la lancia di un guerriero. E sarebbe bastato osservare come sollevava senza sforzo le gerle ricolme di frutti maturi, con quelle spalle larghe sotto gli stracci sbiaditi.

I suoi capelli, poi, non erano affatto bigi e canuti.

Lo aveva scoperto quando un acquazzone li aveva sorpresi tra i filari degli alberi ar­gentei. La pioggia, goccioloni pesanti e fitti per i quali al suo villaggio avrebbero fatto festa per una luna intera, aveva portato alla luce una criniera folta e lucida color della fiamma viva, che lui si era affrettato a nascondere sotto il cappuccio di tela grezza.

Lui era solo. Esattamente come lei.

E per Shamira fu sufficiente.

Se lui non voleva parlare a lei andava bene. Tanto lo capiva lo stesso quando aveva sete ed era il momento di portargli una tazza d'acqua dal pozzo.

La prima volta che lo aveva fatto, l'aveva fissata così a lungo da farle temere che l'a­vrebbe scacciata. Ma alla fine si era limitato a prendere il boccale in silenzio, svuotandolo in lente sorsate, mentre rivoli sottili gli tracciavano solchi rosei intorno agli angoli delle labbra.

Lui l'aveva guardata di nuovo quando si era seduta a un cespuglio di distanza per consumare la collosa zuppa di mezzogiorno. Un'occhiata breve, seccata forse, ma di fatto era tornato alla sua scodella senza commentare.

Quando se l'era ritrovata davanti all'ingresso della sua tana, il modo in cui tutti i la­voranti chiamavano il posto che si erano scelti per passare la notte, invece non l'aveva guar­data. Aveva parlato, forse il discorso più lungo che avesse mai fatto da molto tempo a quella parte.

- Io voglio solo stare per conto mio. Non avrei mosso un dito se quelli non fossero ve­nuti qui dentro. Non l'ho fatto per te, è chiaro? - 

Shamira si limitò a fare cenno di sì col capo.

- E non lo farò in futuro, ricordatelo! -

Shamira fece ancora cenno di sì, mentre un tuono borbottava nel crepuscolo carico di nubi.

- Per i sette gironi di Kariun! Entra, prima che ricominci a piovere! - borbottò chinando il capo, per non sbattere contro la volta dell'ingresso, troppo basso per lui.

- Shamira - disse alla sua schiena.

Lui si era girato a metà, lo sguardo cupo come il cielo sopra le loro teste.

- Io. Shamira - disse cercando di mantenere ferma la voce.

Lui tornò a volgersi.

- Tavish - disse con voce ruvida quanto le pietre che sfiorò entrando, prima di sparire all'interno.

Forse era davvero così. Forse era vero che Tavish non l'aveva intenzionalmente pro­tetta.

Ma quella notte, da quando aveva abbandonato Kreen e tutto ciò che aveva sempre conosciuto per approdare a Lanita, per la prima volta sentì di non provare paura.

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