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Partirono alle prime luci. Usciti dal bosco il paesaggio circostante si dispiegò davanti ai loro occhi in una tavolozza di verdi spenti, ocra e marroni bruciati. Da quando era giunta in quei luoghi, era la prima volta che Shamira li vedeva davvero.

Nel suo primo viaggio da Triana agli uliveti era ancora troppo estenuata dal viaggio, spaventata e a disagio, tra i volti chiusi e sconosciuti degli occasionali compagni, per osare sporgere il naso oltre le sponde del carro. In seguito i tempi sempre uguali del lavoro fatico­so e la continua minaccia dei loro guardiani, le avevano insegnato a chinare il capo per nonfarsi notare, più che a guardarsi intorno.

Durante lo spostamento notturno sino all'agrumeto aveva dormito per buona parte del tempo e nei giorni successivi la conformazione stessa di quella piccola valle protetta dai venti aveva impedito allo sguardo di vedere oltre i suoi confini. Della fuga rocambolesca con Tavish, poi, i suoi ricordi non conservavano molto più dell'impressione lasciata da un sogno confuso.

Scoprì all'improvviso una terra aspra e piena di forza in quel territorio ondulato dalla rada vegetazione, se si escludevano i grovigli di boschi aggrappati ai fianchi dei monti, dove la pioggia non aveva dilavato il terreno portando alla luce la roccia sottostante, o i folti albe­ri sparsi come isole tra le stoppie riarse. Le piantagioni e i pascoli, delimitati e protetti dal vento da muretti di pietra a secco, si distinguevano per la brulla compattezza del terreno dis­sodato, gli ordinati filari delle vigne e il brulichio delle greggi che caracollavano in cerca di cibo, tenute a bada da massicci cani neri dalla coda a scimitarra.

Tavish guidava e segnava il passo, con una cadenza lenta, ma costante, che permetteva di affrontare i dislivelli del terreno accidentato per un tempo prolungato. Non incrociarono il cammino di altri esseri umani, che videro solo da lontano al lavoro nei campi o in viaggio lungo le strade sterrate a fondovalle, dalle quali, peraltro, si tennero a debita distanza, se non per rifornire le loro scorte d'acqua a un pozzo.

Ma la vita, intorno, non mancava.

Alti sopra di loro veleggiavano in perlustrazione nibbi e poiane. Tra i dossi, più di una volta, i loro passi scatenarono il fuggi fuggi di bande di conigli, quaglie e fringuelli. Un branco di cavalli bradi, dal pelame bruno e corvino, partì di gran carriera scorgendoli spun­tare dal ciglio di un'altura, dileguandosi in un galoppo capace di far risuonare il terreno come un tamburo da battaglia. E la morte stessa per altri era vita, come mostrò l'accapigliar­si di magri lupi grigi, grifoni dal collo glabro e grossi corvi neri intorno alla carcassa di una mucca dispersa.

Si concessero una breve pausa intorno a mezzogiorno, all'ombra di un gran carrubo dal tronco contorto, che arricchì le loro magre scorte di cibo coi suoi baccelli fibrosi dal gusto di cioccolato, quindi ripresero la marcia a quel passo sempre uguale, risparmiando le energie del dialogo per la fatica del cammino.

Andarono avanti e avanti ancora sino al crepuscolo, quando trovarono un minimo di rifugio dal tagliente vento serale tra i brandelli di mura di un solitario edificio diroccato.

Shamira, alla luce tremolante del loro piccolo fuoco di sterpi, scorse sulla parete con­sumata il frammento di una decorazione pittorica, un'indistinta figura umana con le braccia levate per offrire qualcosa che il tempo aveva oramai cancellato.

- Devono essere i resti di un tempio...- ipotizzò Tavish, notando gli spezzoni inghiotti­ti dalle erbacce di quelle che potevano essere state colonne.

- Cosa è tempio? - chiese la ragazzina studiando più da vicino l'immagine sbiadita.

- Un posto costruito dagli uomini per venerare un dio, per pregarlo. Non avete templi a Kreen? -

- In mio villaggio pregare dio Krun - disse Shamira levando da sotto la giubba il ciondolo metallico foggiato in una figurina che univa caratteristiche umane e animali, e mostrandoglielo. - Questo era di Naima. Regalato a me mia mamma il giorno che io partire. Nostro dio essere nelle cose tut­te, terra, cielo e quello che vive. Quindi a che noi servire piccola casa per pregare, quando tempio di dio è in ogni cosa? - chiese stupita.

- Se ti sentissero i nostri sacerdoti saresti proprio nei guai! - sogghignò Tavish preparandosi per la notte. - Pretendono ogni anno la decima parte dei raccolti, con la scusa di abbellire i templi o costruirne di nuovi.

- Ma allora perché questo essere così, tutto rotto? - chiese Shamira ancora più confusa.

- Gli dei vanno e vengono, piccola - sbadigliò Tavish avvolgendosi nella coperta. - Quando ne arriva uno nuovo che piace di più, quello vecchio non interessa a nessuno e viene dimentica­to, e con lui la sua casa. -

- Dio no va e viene. Cambia pelle, come serpente, ma anche se chiamare con nome di­verso lui è sempre - disse Shamira. - No possibile dimenticare lui. Tuo paese è molto strano! -

- Forse hai ragione tu - sospirò Tavish scivolando nel sonno.

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