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- Tasha vuole fare vedere una cosa! È un segreto! -

- Non mi piace che te ne vai in giro da sola. -

- Io no sola. C'è Tasha. Perché non vieni tu anche? -

- Perché non vieni anche tu... - la corresse Tavish. - Non posso. Meron mi manda a ripa­rare un recinto durante la pausa. Oggi niente zuppa. -

- Oh... - mormorò delusa. - No giusto, però! Vengo io an... anche io! - si corresse in fret­ta.

- Non ha senso non mangiare in due. E poi Tasha a chi lo mostra il suo segreto? - disse con un lieve sorriso tra la barba incolta. - Non cacciatevi nei guai. Ci rivediamoqui quando suona il corno, intesi? -

Shamira osservò Tavish allontanarsi con gli arnesi in spalla con un poco di apprensio­ne. Ma l'arrivo di Tasha e la curiosità ebbero la meglio. Avrebbe chiesto alla sua amica di prendere qualcosa da mangiare per lui dalla cucina. E questa volta non gli avrebbe permesso di accampare scuse e di rifiutare i suoi doni.

- Vieni, da questa parte! -

Si erano addentrate nell'area dei magazzini sino a una vecchia rimessa dalla porta sbi­lenca e con il tetto mezzo sfondato. La luce vi penetrava a nastri irregolari densi di pulvisco­lo, illuminando il pavimento di terra battuta, su cui ciondolava l'ombra oscillante di una car­rucola, appesa a una delle travi di sostegno con una catena cigolante. Contro le pareti era ac­cumulato ogni genere di cianfrusaglie: pile di ceste mezzo sfasciate, vecchi attrezzi corrosi dalla ruggine avvolti in tele di ragno grandi come lenzuoli, teloni muffiti e coperte tarlate, casse vuote e botti rovesciate. Fu verso una di queste, incastrata tra un vecchio aratro e un giogo spezzato, che Tasha la guidò con somma cautela.

- Non sono bellissimi? - sussurrò indicandole un pertugio tra le doghe allentate.

Il volto di Shamira si illuminò estasiato. In quel nido di fortuna, provvidenzialmente riempito di vecchi stracci, una grossa gatta striata di grigio aveva dato alla luce la sua cuc­ciolata, quattro batuffoli miagolanti dai colori assortiti, che si muovevano goffamente sotto il suo sguardo protettivo. Non fosse stato per quegli occhi color giada che la osservavano se­veri, Shamira non avrebbe saputo resistere alla tentazione di prendere in braccio uno di quei morbidi esserini.

- Non devono avere più di un paio di giorni. Quando saranno cresciuti potremmo... -

- Ascolta! Corno suona. Devo andare. -

- Tu non vai proprio da nessuna parte! - ringhiò cattiva una voce alle loro spalle.

Mamma gatta soffiò tutto il suo sdegno, ma le due ragazzine non badavano più a lei. C'erano cinque uomini tra loro e l'uscita. Shamira si sentì annodare lo stomaco riconoscendo l'energumeno che aveva tentato di frustarla.

- Cosa ci fate qui? Non avete sentito il segnale? - li rimproverò Tasha ancora troppo stupita per avere paura. - Se mio padre se ne accorge... -

- Chiudi il becco e vattene! - la zittì l'uomo agguantandola per un braccio e spingendo­la rudemente verso uno dei suoi. - Tu, portala fuori e rimani di guardia. Io e quest'altra sgualdrinella qui abbiamo da risolvere una questione - sogghignò muovendo un passo verso di lei.

Shamira non rimase a vedere cosa sarebbe accaduto alla sua amica. La sentiva strilla­re e chiamare il suo nome, ma era ragionevolmente sicura che nessuno avrebbe osato farle del male. Lei di certo non godeva degli stessi privilegi.

Con una piroetta sfuggì alla mano che stava per afferrarla e si avventò lesta sulla pila di cianfrusaglie, prima saltando sulla botte occupata dalla famigliola di felini, poi prendendo slancio sul timone dell'aratro e di lì balzando su un cassone, schivando di stretta misura un paio di braccia tese ad agguantarla. Si aggrappò a un telone e schizzò via, mentre la stoffa pesante precipitava sul suo inseguitore, che franò al suolo mezzo soffocato dalla polvere. Lei era già oltre, oscillando sul precario equilibrio di un cumulo di rottami metallici che ruz­zolarono sotto i suoi passi, finendo sui piedi di un tipaccio che ululò di dolore, mentre Sha­mira aveva già raggiunto la pila di ceste accatastate, arrampicandosi quanto più velocemente poteva verso l'alto. Uscire dalla porta sbarrata e presidiata era impossibile, ma se fosse riuscita a raggiungere le travi di volta avrebbe potuto guadagnare il tetto e...

All'improvviso il cumulo di canestri sussultò e si inarcò. Shamira gridò branco­lando invano in cerca di un appiglio qualsiasi. Cadde duramente su una spalla e imme­diatamente mani rapaci l'abbrancarono. Inutile scalciare e divincolarsi, mordere e gridare. Un canapo ruvido le serrò i polsi sottili senza misericordia, poi lo strappo violento, quando l'altra estremità della corda fu issata attraverso la carrucola cigolante, lasciandola penzolare a un braccio da terra come un pesce appeso alla lenza.

Shamira a ogni strattone sentiva la fune mordere la carne e il gemito delle braccia esi­li. Terrorizzata e con il cuore che le rimbalzava dolorosamente contro le costole smise di agitarsi, mordendosi il labbro per non cedere alla tentazione di urlare, mentre il cerchio di persecutori le si stringeva intorno.

- Non temere! Verrà anche il turno del tuo amico - ghignò uno di loro afferrandole la veste.

Fu a quel punto che fuori qualcuno strillò di dolore. Poi la porta crollò di schianto.

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