Capitolo 8: 𝒩𝓊𝓁𝓁𝒶 𝒾𝓃 𝒸𝑜𝓃𝒻𝓇𝑜𝓃𝓉𝑜 𝒶𝓁𝓁𝒶 𝓈𝓊𝒶 𝒶𝓃𝒾𝓂𝒶 𝒸𝒽𝑒 𝒷𝓇𝓊𝒸𝒾𝒶𝓋𝒶 - Parte 2

Il terzo appuntamento con Katrin arrivò in un battito di ciglia e Orchidea sapeva bene di cosa avrebbero parlato: il 31 ottobre. Non appena si accomodò sulla sua solita poltrona, la domanda arrivò: «Cosa accadde il 31 ottobre?» Lo disse con un tono alquanto metallico e nascondeva gli occhi dello stesso nero del petrolio dietro la cartella clinica della ragazza pallida.

Era un gesto inconsueto da parte sua visto che preferiva non rendere evidente ciò che si scriveva, ma quella volta era tutta una tattica para verbale: voleva far capire ad Orchidea, che avrebbe sganciato una delle bombe scritte da Ida.

«Halloween», rispose la ragazza dalla carnagione estremamente chiara.

«C'era una festa?» insistette la terapeuta muovendosi come un gatto.

«Se era Halloween. Di solito le persone lo fanno...»

«Orchidea...» l'ammonì Katrin superando quell'atteggiamento riluttante. Il fiorellino bianco non rispose, eppure i suoi occhi color cobalto iniziarono a trasmettere l'ondata dei ricordi che stava invadendo la riva del suo cervello, che a un certo punto – seppur a voce flebile e tremante – comincò a parlare.

Un'altra caratteristica della docile Orchidea Fiore era che fino al 31 ottobre del 2015 amava qualsiasi genere di festività, qualunque essa sia, lei trovava un modo per festeggiare – da sola o con sua madre non era importante – ma d'un tratto quell'euforia che la robusta Diana Fiore vedeva negli occhi della sua fragile bambina, scomparve. Il fiorellino bianco ricordava tutto di quella giornata d'orrore: il corpo studentesco l'aveva invitata a presenziare alla festa di halloween cui partecipava tutta la scuola e sì, era in ansia davanti allo specchio. Non sapeva bene se il costume che aveva scelto fosse stato appropriato per quel genere di party, che tanto aveva sempre disprezzato in cui tutti non facevano altro che bere fino a stare male.

Magari se ci vado, mi piacerà. Pensò Orchidea e così, sentendosi un po' in colpa nei confronti della madre per averla lasciata sola in quel giorno che di solito festeggiavano insieme, uscì di casa con una stazza e un aspetto che era ben diverso da quello attuale. In quel lontano 2015 – infatti – Orchidea non era la stessa ragazza pallida con un corpo quasi inesistente, al contrario... assomigliava molto alla madre. Aveva delle spalle larghe, un viso bello e paffuto e di vita indossava una quarantotto.

Dopo venti minuti d'autobus arrivò finalmente a destinazione: un parco sconosciuto e a pochi metri da Palazzo Pitti, che era illuminato poco più di niente. Orchidea si ricordò ancora – quasi in modo eccellente – che era tutto così buio che quasi provava paura nel trovarsi lì, ma d'un tratto una voce squittente e familiare la fece tranquillizzare. «Sei arrivata!»

Riconobbe il viso di Marco Tassoni, che negli ultimi giorni si era comportato stranamente come faceva in passato, il quale avvicinandosi aggiunse ad alta voce, chiamando l'attenzione delle ombre che li circondavano: «Preparatevi. È il momento». La prese, poi, per un braccio e la mise davanti a un muro, cercando di sopprimere delle risate isteriche. «È il tuo momento, erbetta», sghignazzò lui. «Ciao a tutti», iniziò ad urlare e tutti si girarono in quella direzione. «Sono Marco e sono il vice rappresentante della scuola. Vi state divertendo?»

Ci fu un urlo in risposta, così il ragazzo continuò: «Sono contento che vi stiate divertendo. Tutto questo lo dovete al vostro rappresentante, Orchidea Fiore». Il giovane si girò e d'un tratto riuscì a scorgere una strana scintilla in quegli occhi che di solito avevano il colore dell'erba e quello le fece accapponare la pelle. «Perciò...» riprese con tono autoritario. «Vi chiedo di accendere le torce dei vostri telefonini».

Orchidea serrò la mascella e con l'intento di fermare le lacrime in arrivo, trattenne il respiro.

«Cosa successe poi?» chiese Katrin con le braccia incrociate al petto.

«Nulla di così importante», borbottò la ragazza.

«Ti posso trattenere qui finché non me lo dirai...»

«Non voglio», ribatté il fiorellino bianco con voce tremante.

«Orchidea devi far uscire tutto quello che sta correndo nella tua testa», disse la donna.

«Perché hanno acceso le torce?»

«Dovevano farmelo vedere...»

«Che cosa?» esortò la terapeuta.

«La mia caricatura su un muro... prima di...» sussurrò il fiorellino bianco. «Prima di lanciarmi addosso dei gavettoni di letame... io ero immobile... non riuscivo... non riesco a capire perché si comportassero così con me? Che cosa avevo fatto di sbagliato?» fece una pausa. «Riuscì a chiederglielo a Marco e... la sua risposta fu che me lo ero meritato».

«Perché?»

«Disse: te lo sei meritato. Adesso puoi capire com'è sentirsi a disagio. Tu non puoi capire come io mi sento ogni giorno. I miei genitori non fanno altro che ripetere il tuo nome "Orchidea di qua.. di là... ma sono loro a sbagliare. Non sei così perfetta come credono. Sei solo un fantasma ciccione che sporca il nostro mondo con la sua sola presenza», sibilò Orchidea. «Non importava quanto fossi sporca di merda. Quelle parole... Quella voce mi aveva stesa più di quanto non avesse fatto alle elementari».

«E, poi, cosa successe?» domandò con voce quieta la psicologa.

«Ero sporca e puzzavo. Tutti intorno a me continuavano a ridere o a farmi delle foto. Vedevo tutto sfocato e i suoni mi facevano scoppiare la testa, ma al contempo udivo solo un fischio acuto... Credo di essere rimasta in quella posizione per più di un'ora: mi mossi soltanto quando Marco tornò al mio fianco...»

«Disse qualcosa?»

Il fiorellino bianco scosse il capo e si morse il labbro inferiore con l'intento di placare quel bisogno di piangere. «Mi guardò soltanto... i suoi occhi erano semichiusi e, nonostante il buio, riuscivo a scorgere in lui una luce cattiva, di uno strano colore che ogni tanto tormenta le mie notti...» Fece una pausa e alzando il viso incontrò il volto interessato, ma apatico, di Katrin.

«Successe altro con lui?» domandò lei.

La ragazza con la carnagione estremamente chiara annuì. «Gli chiesi Perché mi odi così tanto?... Lui irrigidì la mascella immediatamente... Temevo mi volesse picchiare...»

«Orchidea, sei mai stata aggredita?» la interruppe la psicologa con allarme nella voce.

«Se le parole e i gesti vengono considerati aggressione sì», rispose la giovane.

«Nulla andava oltre a qualche spinta, una sberla, un pugno... tutti casuali ma insieme...»

«Quindi che cosa voleva Marco?»

Ci fu un minuto di silenzio prima di dare la risposta: Orchidea dovette riordinare le idee e scoppiò in lacrime silenziose. «Mi disse che la mia nascita aveva solo peggiorato la vita di tutti... Mia madre avrebbe avuto ancora degli amici, lui non sarebbe stato costretto a sorbirsi le prediche che gli facevano i genitori per colpa mia, le persone non si sarebbero mai spaventate con il suo aspetto...e mio padre sarebbe ancora vivo».

«Quello è stato un incidente, Orchidea», intervenne la terapeuta con voce acuta.

«Sì, che non sarebbe successo se io non avessi voluto nascere con un mese d'anticipo!» ribatté il fiorellino bianco alzando il tono. «Se lui non fosse andato a 130 km/h per raggiungere la moglie in ospedale in un giorno di temporale... sarebbe ancora vivo».

Katrin sbuffò in uno stato di tristezza totale che, per questioni professionali, non fece trasparire e, appoggiandosi allo schienale della sua poltrona nera dietro la scrivania, disse: «Quindi è lì che è nato il pensiero del...»

Suicidio. Quella parola aveva la bizzarra abitudine di rimanere sempre in sospeso...

«No», ammise il fiorellino bianco. «Non ricordo come riuscii a tornare a casa e quando arrivai, ero sola. Mia madre era uscita con una vecchia amica, approfittando della mia assenza...»

Assenza... tutto tornò limpido, ma allo stesso tempo sfocata.

La maggior parte dei ricordi di quel giorno era formato da sensazioni, suoni e oggetti scomposti. L'appartamento giaceva nel buio notturno e Orchidea, camminando verso la sua piccola stanza, aveva l'intenzione di lasciarla in quel modo.

Con la testa sgombra di qualsiasi altra cosa che non fossero le parole di Marco, la ragazza il cui nome sembrava un gioco di parole si fece una doccia lunga in cui si sfregò così forte che la sua pelle, bianca come la neve, prese quasi un colorito normale.

Si sentiva bruciare, come se quel letame che le era stato lanciato addosso fosse stato dannoso, ma no... Quello che andava a fuoco era ciò che rimaneva della sua anima. Delle sue speranze.

Si vestì con qualche capo di abbigliamento che non vide a causa del buio e quando chiuse l'anta dell'armadio i suoi occhi caddero sulla sua figura. Il suo riflesso che nonostante l'oscurità, spiccava in modo così innaturale.

Improvvisamente tutte le parole e i gesti che aveva sentito e subito iniziarono a tornarle alla mente come colpi di frusta. Non erano solo ciò che aveva subito quella sera, quel turbino includeva ogni cosa che le era capitata nella vita.

Bruciava. Bruciava così tanto che le sembrava che la pelle le si liquefacesse. Bruciava così tanto che il pensiero di morire per fermare quel dolore pressante spuntò come un fungo in un bosco in ottobre.

Andò in cucina, prese uno dei coltelli più affilati della collezione della madre e si diresse verso il bagno. Non sapeva nemmeno cosa stesse facendo. Voleva solo che quella pressione tremendamente fastidiosa e scottante all'altezza dello stomaco si placasse. Voleva solo essere lasciata in pace, perché era quello che lei aveva sempre fatto.

Fissò il riflesso del suo volto nello specchio davanti a lei, che era l'unica cosa che riusciva a scorgere vista la sua piccola statura, poco sopra il lavabo, e con uno scatto fulminio spinse il coltello oltre la carne vicino all'ombelico.

Quel gesto non le fece niente: solo un leggero solletico. Nulla in confronto alla sua anima che bruciava. Così persistette, ma quel dolore non l'abbandonò e con le lacrime agli occhi cadde a terra svenuta quando la lama le perforò per la sesta volta l'intestino.

Dopodiché ci fu solo il buio che venne da lei accolto con gratitudine, ma fu la madre, Diana Fiore, che proprio nel momento in cui il docile corpo della sua bambina cadde a terra in una pozza di sangue, entrò in casa e vide una chiazza scura che usciva da sotto la porta.

«Da quel momento mia madre chiude sempre tutti i ripiani o fa in modo di nascondere tutti gli oggetti contundenti. È quello che ha fatto anche qui... l'altro giorno ho fatto fatica a trovare un coltello per farmi un panino...»

«E che cosa credi adesso? Che cosa faresti se tua madre tirasse fuori di nuovo i coltelli?» domandò Katrin con il metallo nella gola.

«Vorresti sapere se tenterei il suicidio?» ribatté Orchidea a braccia conserte. «La risposta è no! No, perché non provo nulla».

«È la favoletta che ti racconti prima di andare a dormire?»

Il fiorellino bianco fece una smorfia: aveva affrontato lo stesso discorso con Ida, la sua vecchia terapista poco prima di partire per Dobbiaco.

«Grazie, Orchidea», affermò la donna dai capelli color caffè. «Dopo ben cinque anni sei riuscita a parlare di quel giorno in modo specifico, perciò grazie... di averlo fatto con me...»

«Mh», mormorò la ragazza dai lunghi capelli bianchi col viso imbrattato di lacrime.

Ebbene sì, quelle due settimane furono faticose per Orchidea: Katrin Maser, la psicologa, l'aveva costretta a parlare e a scuola le cose andavano altalenanti. Quattordici giorni di cui solo dieci spesi nell'istituto Mahler.

Il fiorellino bianco aveva – finalmente! – trovato i bagni per passare la pausa pranzo e Elenì sembrava rimanere nelle sue, nonostante fosse sempre a casa Fiore al mattino. Sempre in quell'arco di tempo i rapporti con i compagni di classe divennero usuali: nessuno si avvicinava a lei e altrettanto. Una cosa abbastanza nella norma e a Orchidea non spiaceva affatto rimanere sola. Ciò durò fino a quando la dolce e buffa signora, Georgia Maser, che si era accordata con Diana per venire prima al mattino, non disse qualcosa che mise a disagio la piccola ragazza dalla carnagione estremamente chiara.

Il fiorellino bianco era in cucina, vestita e pronta, mangiucchiando una fetta biscottata quando lo sbattere della porta la mise in allerta.

«Buongiorno», disse Georgia con voce calda.

«Ciao», ricambiò la madre della giovane pallida mettendo nel lavello un piatto sporco.

Orchidea smise di mangiare e, sempre con lo sguardo rivolto verso il pavimento, si allontanò in direzione del corridoio. «Ragazze, entrate!» esclamò la governante. Continuando a camminare la pallida ragazza si trovò davanti non solo un paio di piedi, bensì due. Alzò la testa e vide a qualche metro da lei le sorelle Maser. «Ciao, Orchidea», salutò la ragazza dall'aspetto paffuto e gli occhi castani.

«Ti... ricordi il mio nome?» balbettò il fiorellino bianco.

«Certo», ricambiò Elisea Maser, colei che Nicole Miser chiamava barilotto.

Aveva un aspetto migliore in confronto all'ultima volta in cui l'aveva vista e sorrideva. Era molto carina. Al suo fianco con indignazione e contrarietà dipinti sul volto c'era Elenì che a braccia conserte e un piede ballerino, non vedeva l'ora di uscire da quella casa. Più o meno lo stesso desiderio di Orchidea.

«Diana, ti presento mia figlia minore, Elisea. Oggi torna a scuola dopo un lungo... periodo di malattia», disse Georgia con il suo solito entusiasmo quasi affine a quello della madre del fiorellino bianco. «Ho un'idea... Elenì, Elisea, perché non invitate Orchidea oggi a pranzo?»

«Mamma!» esclamò la ragazza coi pistacchi negli occhi, mentre la sorella fece un sorriso timido, cercando di nascondere l'ansia che quel giorno significava per lei.

Le figlie non ebbero modo di ribattere, anche perché solo una di loro era contraria e così arrivò quel fatidico momento in cui la giovane e diciassettenne Orchidea sarebbe dovuta entrare in sala mensa.

Spazio autrice

Ciao ragazzi e ragazze!

Come state oggi?

Il capitolo 8 è giunto al termine. Che cosa ne pensate?

Riempitemi di commenti! Voglio sapere le vostre opinioni, purché siano espresse in modo educato.

Grazie per aver letto questo capitolo e se ti piace, non dimenticarti di mettere una ⭐.

Sono sempre ben gradite.

Un bacio 🌸

Checca B🌻

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