Capitolo 4 - ᴅᴏʙʙɪᴀᴄᴏ - parte 3

Finito di sistemare, Diana suggerì a Orchidea di prendere la bicicletta che i traslocatori avevano appena scaricato. Così la ragazza dalla carnagione chiara prese uno dei suoi zaini, vi infilò un panino che la madre le aveva preparato il giorno prima e, dopo aver preso le sue pillole, uscì di corsa.

Cercò di percorrere la strada che avevano fatto in macchina qualche ora prima, ma si perse tra le varie indicazioni in tedesco. Con il fiatone e in preda all'ennesimo capogiro in arrivo, Orchidea si fermò davanti a una casetta che riportava una scritta in tedesco simile alla parola informazioni e così, scendendo dalla bici, decise di entrarci. Il suono della campanella appena sopra la porta fu seguito dal «Guten Tag» di una donna, che si trovava dietro un ordinatissimo bancone a pochi metri da Orchidea. La ragazza dalla carnagione estremamente chiara si avvicinò a piccoli passi e guardò confusamente colei che l'aveva accolta. «Non sei tedesca, dico bene?» esortò la donna, che aveva l'aspetto di una ragazza. Orchidea scosse la testa in imbarazzo e così, scostandosi dal viso una ciocca più scura del caramello, la ragazza dietro al bancone continuò: «Come posso esserle utile?»

«Mi chiedevo se fosse possibile avere una mappa della città», mormorò la ragazza dal corpo minuto.

«Certamente», affermò l'estranea. «Per quanto tempo pensa di rimanere in città?»

Orchidea sbatté gli occhi disorientata e rispose: «In realtà mi sono appena trasferita e volevo fare un giro».

La ragazza dietro al bancone squadrò la nuova arrivata con fare stupito, quasi incredulo, e rimase a bocca aperta per qualche secondo. Scosse la testa capendo di aver messo a disagio la ragazza dai lunghi capelli bianchi e si mise a indicare i luoghi interessanti della cittadina che ospitava 3.356 abitanti più le due nuove arrivate.

Erano davvero tanti i posti che Orchidea avrebbe voluto visitare, ma la ragazza dietro al bancone la informò che per quasi tutti era necessaria la prenotazione, così la scelta ricadde sul famoso lago a sud del paese.

Ringraziando la ragazza dietro al bancone, Orchidea uscì dal centro informazioni e montò in sella alla sua bicicletta in direzione del lago immerso nella natura. La ragazza il cui nome sembrava un gioco di parole si fermò qualche volta per controllare la mappa e per tentare di porre fine a quei capogiri a cui era tanto abituata. Dopo venti minuti di fatica e sudore si rese conto che tutti quegli sforzi erano serviti ad appagare gli occhi.

Montagne alte e appuntite circondavano quello specchio d'acqua informe che scintillava sotto i sottili raggi di sole che perforavano la coltre di nubi. Alla diciassettenne con il nome di un fiore parve di essere in paradiso.

Sapeva bene che quello sarebbe stato il suo luogo preferito, così cercò un posticino per mangiare il panino che la madre le aveva preparato con molta cura e, soprattutto, dove apporre mentalmente il cartello del suo rifugio personale.

Superò un hotel in mattoni che aveva – come il resto della città – un'insegna particolare e rustica, attraversò un ponte di legno che portava dall'altra parte del lago e, ignorando e lasciandosi alle spalle il campeggio e un ristorante, trovò una piccola riva piena di ciottoli grigi e bianchi e nascosta da una fitta vegetazione.

Non vide nessuno, così scese dalla bici e si sedette a terra, piantando metaforicamente il cartello con grande soddisfazione. Aveva trovato quello che sarebbe diventato il suo rifugio personale per il resto della sua vita.

Fece un grosso sospiro, quasi quell'azione le fosse vitale. E in effetti lo era, perché era sola. Poteva finalmente mangiare più di quanto riuscisse a fare quando era in compagnia e poteva pensare... riflettere sulla nuova casa, che era enorme e bella, e sulla nuova città.

Quasi tutti – da quello che aveva intuito – parlavano tedesco, mentre lei no. Quello fu solo un seme della pianta di pensieri che crebbe velocemente nella testa di Orchidea, dividendosi poi in due parti.

Da un lato iniziava a piacerle quel piccolo paesino di montagna. All'apparenza tutto era così naturale, puro e vero. Sì, vero, pensò Orchidea.

Pur pensando che fosse uscito da un cartone animato della Disney, la ragazza il cui nome sembrava un gioco di parole vedeva quel paesello come un qualcosa di autentico, che riusciva a percepire con tutta se stessa e di cui non poteva più fare a meno.

D'altro canto, però, tutto quel nuovo la spaventava: ogni cosa era così grande, mentre lei era... piccola. Iniziò a pensare al passare delle stagioni e al fatto che in inverno la neve sarebbe arrivata, perché – di sicuro – lì avrebbe attecchito. Non come a Firenze...

Tutto questo riflettere non le faceva bene, perché iniziò a immaginare come sarebbero stati i rapporti con le persone. L'avrebbero presa in giro per il suo aspetto? Per il suo nome? Avrebbe trovato un amico che poi l'avrebbe pugnalata alle spalle come...?

Scrollò la testa e sospirò.

«Ehi!»

D'un tratto, il monologo interiore della piccola ragazza dai lunghi capelli bianchi venne interrotto da un'esclamazione inaspettata. «Nessuno aveva mai trovato il mio posto segreto!»

Orchidea si voltò sorpresa e, appoggiata al tronco di un albero, vide un ragazzo che pareva più un uomo. Aveva capelli corvini ricci e folti e i suoi occhi, dello stesso colore del lago, la fissavano curiosi.

La ragazza minuta abbassò lo sguardo impietrita. Non voleva causare problemi, visto che per di più era il suo primo giorno in quel paesello, così fece per alzarsi, ma il giovane la anticipò. «Sta' tranquilla. Non mordo e puoi rimanere», ridacchiò il ragazzo dai ribelli capelli corvini il cui nome significava colui che portava in sé Cristo.

Orchidea, con lo sguardo rivolto verso il basso, continuò a sgranocchiare più lentamente di prima il panino che aveva in mano, di cui era rimasto meno di un terzo, mentre il ragazzo con il nome religioso si sedette con la schiena appoggiata al tronco del robusto albero. Rimasero entrambi in silenzio, ciascuno al proprio posticino su quella piccola riva nascosta del fiume di Toblach, in italiano Dobbiaco, e continuarono a fare quello che avevano in mente: lei mangiava piano come un uccellino, cercando di nascondersi tra i lunghi capelli bianchi, mentre lui leggeva un vecchio libro con una copertina rigida e scura che parlava di un lungo viaggio al centro della Terra. Improvvisamente, però, quel silenzio, quella distanza finì, perché il ragazzo dai capelli ribelli, incapace di andare avanti con la lettura, non riusciva a concentrarsi su altro che non fosse quella creatura dello stesso colore della neve. Proprio per questo decise di parlare. «Posso sapere il nome di colei che si è appropriata del mio posto segreto?»

Orchidea non rispose, ma quella sfrontatezza la infastidì tremendamente.

Il ragazzo, fermo al suo posto, sospirò e tentò un altro approccio. «Bist du deutsch?» Le chiese se era tedesca, ma ancora una volta la ragazza dai lunghi capelli bianchi non replicò. Cercava solo di ignorarlo e, aspettando i commenti a cui era abituata, chiuse gli occhi. Dopo un silenzio carico di tensione tra la ragazza a disagio e il ragazzo incuriosito da quella che sembrava una turista, il fiorellino bianco reagì.

«Il tuo libro non è abbastanza di compagnia e così disturbi la mia quiete?» borbottò Orchidea.

«Ah, parli». Il ragazzo fece un sospiro di sollievo e accennò una risata. «Pensavo di aver fatto una figuraccia e che tu fossi una sordomuta».

«E se anche fosse? Hai qualcosa contro i sordomuti?» ribatté la ragazza il cui nome pareva un gioco di parole.

«Assolutamente no. Avrei trovato un altro modo per ottenere una risposta. Sei una turista? Come ti chiami?» esortò il ragazzo dagli occhi cerulei, ma ancora una volta Orchidea lo ignorò. Se non avesse risposto, prima o poi avrebbe smesso di insistere, o almeno è così che aveva sempre pensato che andassero le cose.

«Io sono Cristoph e tu sei...?» disse lui facendo il primo passo.

Orchidea, ormai seccata dalla situazione, alzò lo sguardo e, voltandosi, incontrò gli occhi dello stesso colore del lago di quel ragazzo a lei sconosciuto. Per una frazione di secondo rimase impietrita: era veramente... No, meglio di no, pensò Orchidea.

«Io...» sussurrò la ragazza. «Credo che tornerò a casa», affermò con un tono carico di disprezzo. Salì in fretta e furia sulla sua bicicletta e, senza prendere in considerazione l'espressione stupita di Cristoph, il ragazzo dai capelli ribelli color carbone, si allontanò cercando di usare tutte le calorie che aveva assunto mangiando metà panino per fare ritorno alla sua nuova abitazione.

Non si accorse dell'orario finché non oltrepassò la porta di casa e vide la madre vicino al camino nel soggiorno informale, quello che si trovava sulla destra rispetto all'entrata, concentrata su alcuni fogli che stringeva tra le mani. Diana percepì una presenza che la fissava e alzò la testa di scatto, scoprendo con sollievo che sua figlia era tornata. «Tesoro, sei tornata presto... Anche se ero preoccupata. Non avevi il cellulare con te». La madre cercò di domare tutte le emozioni che avrebbe voluto esternare e, sospirando, continuò: «Parliamo?»

La ragazza il cui nome sembrava un gioco di parole annuì, ma chiese di farlo a cena. Voleva farsi una doccia prima di insozzare una casa così perfetta. Diana acconsentì e in un battito di ciglia, dopo aver sfogliato una serie di carte, l'ora di cena arrivò.

«Come lo trovi?» Fu la madre a prendere l'iniziativa mentre, seduta nella grande sala da pranzo, si portava alla bocca dei fagiolini.

«Che cosa?» esortò Orchidea.

«Il paese. Dove sei stata oggi?» chiese curiosa Diana.

«Al centro informazioni della città e poi al lago», rispose con indifferenza la ragazza.

«Al lago?» La madre per poco non si strozzò nel ripeterlo. Dentro di lei la rabbia ebbe la meglio sulla preoccupazione. «È lontano dalla città! Sai quante cose ti sarebbero potute capitare? E hai anche lasciato il telefono a casa...»

«Ho mangiato», balbettò la figlia sentendosi in difetto. Sapeva bene da dove venisse tutto quel timore...

Udendo quelle due paroline, Diana si calmò. «In ogni caso, non è stato saggio», mugugnò la donna, facendo un piccolo broncio.

Rasserenatosi il clima, la discussione si spostò su qualcosa di più pratico: la madre spiegò al suo fiorellino bianco che a occuparsi di loro sarebbe stata una signora che avrebbe provveduto alla spesa e alla pulizia della casa, che il giorno seguente avrebbe iniziato a frequentare una nuova scuola, dove – le assicurò – parlavano italiano, e che sempre l'indomani avrebbero conosciuto la nuova psicologa.

Dall'altra parte del paese, che in realtà altra parte non era, perché Dobbiaco era veramente piccola, c'era un ragazzo il cui nome significava colui che portava in sé Cristo, che appoggiato allo stipite della sua porta finestra guardava il sole che si stava nascondendo lentamente dietro le rocciose montagne.

Nella sua mente c'era un unico pensiero, una sola immagine. Un angelo caduto dal cielo.

SPAZIO AUTRICE

Ciao ragazzi e ragazze!

Come state oggi?

Ecco a voi il capitolo 4 parte 3 di questa storia.

Come lo avete trovato?

Riempitemi di commenti! Voglio sapere le vostre opinioni, purché siano espresse in modo educato.

Adesso la storia inizia piano piano a prendere forma ed io mi sto impegnando per farvi avere i capitoli in tempo.

Grazie per aver letto questo capitolo e se ti piace, non dimenticarti di mettere una ⭐.

Sono sempre ben gradite. Un bacio 🌸

Checca B🌻

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