Capitolo 2 - 𝕀𝕝 𝕣𝕚𝕗𝕝𝕖𝕤𝕤𝕠 𝕕𝕖𝕝𝕝𝕠 𝕤𝕡𝕖𝕔𝕔𝕙𝕚𝕠

Ebbene sì! Il suo nome era Orchidea e il suo cognome Fiore.

Solo un anno dopo la nascita della bambina, la madre, alta e robusta, si accorse che il gioco di parole avrebbe potuto causare qualche problema alla figlia, ma ormai era troppo tardi e prenotare un appuntamento all'anagrafe avrebbe richiesto più tempo di quello che avrebbe voluto; così rinunciò e la figlia dovette pagarne le conseguenze.

«Ciao, Orchidea! Entra pure. Ti stavo aspettando», ripeté la donna dai capelli ricci grigi.

La ragazza con il nome di un fiore annuì e, stringendosi nelle spalle, entrò piano in quell'appartamento che le era ormai caro.

Una casa come le altre, con una cucina, un salotto e delle camere da letto, che però Orchidea non aveva mai visto, perché l'unica stanza in cui poteva entrare era proprio a destra della porta d'ingresso.

La ragazza con il nome di un fiore si diresse subito là, come faceva il venerdì di ogni settimana, e si sedette sulla solita poltrona scura, attendendo che la donna dai capelli ricci grigi la raggiungesse.

«Allora, Orchidea», sospirò l'anziana accomodandosi davanti alla ragazza, che teneva la testa china. «Una settimana è passata. Come stai?»

Eccola: la solita domanda a cui non sapeva come rispondere.

Orchidea frequentava quell'appartamento, e quella signora con il nome di una guerriera antica, una volta alla settimana e sapeva di essere obbligata a rispondere in modo sincero, perché la madre spendeva metà del suo misero stipendio da insegnante della scuola materna per quegli incontri, perciò si limitò a sospirare. «Io sto come sto. Posso rispondere così?»

«Che cosa ti fa sentire così?» esortò la donna anziana senza staccare gli occhi da Orchidea, che non ricambiava lo sguardo. «Perché stai

«Forse la continua stanchezza. Faccio fatica ad alzarmi dal letto e ogni giorno diventa sempre più difficile».

«E allora perché lo fai?» domandò l'anziana. «Che cosa ti fa alzare dal letto?»

«Per mia madre, penso. Quell'episodio l'ha segnata», mormorò Orchidea con la testa ciondolante.

«Quale episodio?» rimandò con voce sottile la donna dai capelli ricci grigi, portandosi un dito al mento.

A quel punto la ragazza con il nome di un fiore alzò gli occhi di scatto, incontrando lo sguardo intenso dell'anziana, e sbuffò voltandosi altrove.

«Avanti, Ida. Quell'episodio», ripeté Orchidea cercando di farglielo capire con un cenno del capo ma facendo ancora una volta la finta tonta, anche se era chiaro ciò che la ragazza intendeva.

«Orchidea, se non riesci nemmeno a pronunciare il nome di un evento, come credi di poterlo superare?»

«Ma ne abbiamo già parlato!» ribatté la ragazza e Ida, l'anziana dai capelli grigi, alzò un sopracciglio. «Ne abbiamo discusso non appena è accaduto e adesso voglio vedere se l'hai superato, come tu pensi di aver fatto, perciò dillo! Chiamalo con il suo nome!»

«Non posso», balbettò Orchidea sfregandosi le mani.

«Perché non puoi?»

La ragazza con il nome di un fiore non rispose e cercò qualche appiglio per distrarre la mente, che stava perdendo il controllo, mentre le emozioni cercavano di sovrastarla. Sapeva la risposta e anche Ida la conosceva, ma quella parola rimase sospesa nell'aria in un silenzio pieno di significato, finché la donna dai capelli grigi non ruppe la quiete. «Cosa stai facendo?»

«Sto contando», ammise la ragazza. «Conto i secondi per capire quanto ci resta oggi».

Ida capì che per Orchidea non era ancora giunto il momento di guarire dall'episodio il cui nome rimase in sospeso, perché non riusciva nemmeno a pronunciarlo nonostante fosse passato molto tempo dal giorno in cui tutto era accaduto.

«Non manca tanto», le assicurò Ida e Orchidea annuì con lo sguardo perso, intento a contare. «Sono contenta che almeno il mio metodo dei sette anni di lavoro ti piaccia», continuò la donna abbassando il capo, fingendosi offesa. Orchidea notò l'atteggiamento della donna e ci cascò. Tornò con lo sguardo sul mento dell'anziana e disse: «Scusa, non volevo essere scortese».

«Soffrire cambia le persone ed è questo che sta capitando a te».

«Io non sto soffrendo», ribatté all'istante la ragazza con il nome di un fiore.

«Perché non vuoi ammetterlo? Perché non vuoi accettare la sofferenza?» chiese Ida con tono pacato ma incalzante. Orchidea cominciò a respirare pesantemente, mentre delle goccioline si riunivano sulle sue palpebre, pronte per iniziare la loro gara fino al mento.

Le domande non le erano mai piaciute. La agitavano troppo e proprio quel giorno Ida aveva deciso di inondarla di punti interrogativi come se ciò potesse giovare in qualche modo alla sua salute.

«Perché significa pensarci!» urlò improvvisamente Orchidea. Fece un grosso respiro e riprese: «Significa pensarci e doverci riflettere. Significa rivedere quelle emozioni che cerco di ignorare».

«E chi è stato a fare questo?» domandò Ida con tono insistente. «A farti stare in questo modo... addirittura con l'angoscia di pensare».

«Le persone», rispose all'istante la ragazza il cui nome era un fiore.

«Quante?» rimandò la donna dai corti capelli grigi.

Orchidea incontrò il suo sguardo fisso e sbuffò: «Perché lo stai facendo?» La sua domanda era più un «Perché mi stai riempiendo di domande? Qual è il tuo fine? Farmi soffrire?»

«Sono pagata per farlo e in più tengo a te, Orchidea», ammise la donna senza staccare gli occhi dalla ragazza. «Adesso rispondi: quante persone ti hanno fatto del male?»

La ragazza con il nome di un fiore deglutì a fatica. «Non ho tenuto il conto. Dieci? Venti? Poco importa».

«Beh, mio caro fiorellino, vorrei informarti che sul pianeta Terra siamo quasi otto miliardi di persone, di cui sessanta milioni solo in Italia», ridacchiò Ida. Scosse la testa e tornò seria: «Orchidea, non puoi incolpare tutte le persone che ti circondano per un errore che solo una di loro ha compiuto».

La ragazza con il nome di un fiore ignorò la sua terapeuta, limitandosi ad annuire e a distogliere lo sguardo, ma una parte di lei – seppur piccola – capì che aveva ragione. Ida spostò lo sguardo sull'orologio da tavolo, che si trovava su un piccolo mobile in legno scuro alle sue spalle e, tornando di nuovo con gli occhi sulla ragazza con la pelle estremamente chiara, affermò: «Orchidea, sono ormai sette anni che vieni da me ogni venerdì e che parliamo di quello che è accaduto durante la settimana. Adesso...»

«Sto soffrendo! È questo che volevi sentirmi dire? Oppure volevi sapere che ho provato a suicidarmi cinque anni fa?» la interruppe bruscamente la ragazza con il nome di un fiore.

Ida, la psicologa dai corti capelli grigi, la guardò stupita, quasi incredula per aver visto uscire tutta quell'energia da quel corpo esile che vedeva spento da un paio di anni, e accennò un sorriso compiaciuto. «Erano quasi due anni che non ti sentivo dire quella parola», sussurrò la donna.

Orchidea, la ragazza dalla pelle estremamente chiara, era sempre stata una persona introversa, ma ciò che le accadde nei primi diciassette anni della sua vita accentuò ancor di più questo suo modo di essere. «Devi accettare la tua sofferenza per poterla superare», mormorò Ida con voce calma.

«Ci ho provato», bisbigliò Orchidea, trattenendo una sensazione forte che sembrava un'esplosione più che un semplice sentimento.

«Riprovaci!» insistette la donna rimanendo quieta. «Per questo venerdì abbiamo finito, ma se dovessi sentirti male, hai il mio numero di casa. Questa volta, però, ti lascio un compito», dichiarò l'anziana.

«Un compito?» rimandò confusa Orchidea e la donna dai capelli ricci grigi annuì, rispondendo: «Tempo fa pensavo che stessi migliorando, per questo ti ho diminuito la cura fino a sospenderla, ma adesso temo che dobbiamo ricominciarla».

La terapeuta sospirò, inquieta per la prima volta dall'inizio di quel colloquio, quasi sconsolata per quella situazione assurda, e prese un blocco bianco, mentre Orchidea tornò a contare con lo sguardo chino e delle ciocche bianche che le solleticavano le guance.

Il fatto di dover riprendere o ricominciare la cura era una brutta notizia per la ragazza con la carnagione estremamente chiara, perché quella avrebbe reso triste l'unica persona che temeva di deludere più di tutti. Sua madre. Quella dolce signora un po' in sovrappeso che – di sicuro – l'aspettava in macchina sul ciglio della strada, vicino al portone della palazzina, dopo un estenuante venerdì all'asilo.

La signora anziana dai capelli ricci grigi consegnò a Orchidea un foglio su cui era annotato un elenco di medicinali che la ragazza riconobbe subito, dopodiché disse: «Queste sono le pastiglie e le gocce che devi prendere. Accanto a ogni medicinale c'è scritto in che dosi e a che ora devi assumerlo».

«Sarebbe questo il mio compito?» mormorò Orchidea con voce triste.

«No. Il tuo compito è il seguente», sospirò la terapeuta. «Questa sera dovrai metterti davanti a uno specchio e lasciar passare quei sentimenti che hai chiuso fuori dalla porta del tuo cuore per troppo tempo. È un obbligo: non importa se si tratterà di tristezza, di rabbia o di paura; devi solo ascoltarle». Si interruppe per qualche secondo, in attesa di una risposta che sapeva che non avrebbe ricevuto. Orchidea era troppo in preda all'ansia per essere in grado di aprire bocca, perché, nonostante dicesse a Ida e persino a se stessa che non provava niente, quelle emozioni strisciavano sotto lo spiraglio della porta e la raggiungevano lo stesso. Solo che lei aveva imparato a non farlo vedere.

L'anziana signora continuò: «Fiorellino, devi imparare a esternare le tue emozioni».

Il colloquio venne interrotto dal telefono di Ida, che vibrava incessantemente; subito dopo aver visto il nome del mittente, la donna dai capelli ricci grigi aggrottò le sottili sopracciglia scure e rispose: «Diana! Sì, è ancora qui. Adesso la faccio scendere e...» Fece una pausa, rivolgendo uno sguardo ambiguo alla ragazza il cui nome era un fiore, e continuò con voce seria: «Diana, Orchidea deve darti un foglio non appena scende. Sì, c'è scritto tutto». La telefonata si concluse e gli occhi di Ida tornarono a scrutare il minuscolo corpo di Orchidea, seduta rigidamente su una poltrona scura più grande di lei.

Perché gliel'ha detto? pensò infastidita la ragazza, ma capì subito che la sua terapeuta non si fidava più di lei. In fin dei conti, chi si fiderebbe di un malato?

«Tua madre ti aspetta giù». Fu lei a spezzare il silenzio. La ragazza il cui nome era un gioco di parole si limitò ad annuire e si alzò – sentendo sopraggiungere ma ignorando l'ennesimo capogiro –, dirigendosi verso la porta.

«Ci vediamo venerdì prossimo, ma per qualsiasi esigenza hai il mio numero», rammentò Ida aprendo la porta dell'appartamento.

Orchidea annuì ancora una volta e uscendo da quella casa sentì di aver fatto mille passi indietro.

Mentre scendeva lentamente i gradini si sentiva delusa e pesante, perché non riusciva proprio a capire per quale motivo dovesse fare quello che Ida le aveva scritto e detto, ma quando aprì il portone afferrò il concetto, come se una fionda avesse colpito il suo cuore. Doveva farlo per sua madre, che, dopo una giornata di lavoro frenetica ed estenuante, era venuta a prenderla nonostante tutto. Aveva la fronte appoggiata al volante e la ragazza il cui nome era un fiore, vedendola priva di forze, ebbe la conferma che doveva farlo. Doveva farlo per sua madre. Magari anche un po' per se stessa, ma soprattutto per sua madre. Non poteva fare l'egoista con colei che aveva rinunciato a tutto per crescerla.

La folta chioma bionda della madre si alzò di scatto e i suoi occhi smeraldo incontrarono quelli azzurri della figlia. Il suo sguardo passò velocemente dalla rabbia alla tristezza, culminando nella delusione.

«Avevi il telefono spento», borbottò Diana mettendo in moto la macchina grigio chiaro.

«Scusa, mamma», sussurrò Orchidea a voce bassa, chiudendo la portiera.

«Forza, andiamo. Dobbiamo passare in farmacia e al supermercato», dichiarò la madre del fiorellino.

«Farmacia?» ripeté Orchidea fingendosi confusa, ma la madre non rispose. Così la ragazza con la carnagione estremamente chiara capì che sua madre aveva già intuito il contenuto del foglio che avrebbe dovuto consegnarle, perciò appoggio la testa al finestrino e cercò di smettere di pensare alle parole che lda le aveva detto quel pomeriggio.

Diana e Orchidea arrivarono a casa quando il sole era ormai andato al di sotto della linea dell'orizzonte. Poggiarono sul vecchio tavolo di legno la busta da trentanove euro del supermercato e quella da centoventinove della farmacia, che conteneva l'intera cura della ragazza il cui nome sembrava un gioco di parole.

Cenarono in silenzio con qualche cotoletta già pronta e nessuna delle due spiccicava una parola né sembrava volerlo fare: entrambe erano deluse.

La robusta signora Fiore era amareggiata. Sua figlia stava male e sentiva di non aver fatto ancora abbastanza per aiutarla. Voleva fare di più. Non interpretò come un buon segno il ritorno alla cura e questo la rese ancora più triste.

Pur sapendo quanto era difficile per lei, costringeva il suo fiorellino a mangiare insieme a lei solo perché doveva assicurarsi che ingerisse una quantità minima di proteine. Non voleva che svenisse a causa del suo corpo diventato quasi inesistente. Inoltre, ciò che la attanagliava era questa sua anomalia congenita ereditata dalla nonna, madre del padre, il quale era morto in un incidente d'auto proprio il giorno della nascita del suo fiorellino, che poteva causarle molti problemi fisici.

Dall'altra parte del tavolo, invece, c'era Orchidea Fiore, che non osava guardare la madre negli occhi perché si sentiva solo un peso per lei. Dal momento della nascita di Orchidea, la madre aveva dovuto sempre affrontare l'anomalia della figlia e, da circa sette anni, anche la sua malattia mentale. Nulla di grave, ma era pur sempre da tenere sotto osservazione.

Non è forse un peso, questo? pensò la ragazza.

«Stasera lavo io i piatti», sussurrò Diana, prendendo il piatto della figlia e facendo finta di ignorare completamente gli avanzi. «Va' a riposarti».

Orchidea, evitando lo sguardo della madre, si alzò ringraziandola con un cenno del capo e si diresse nella sua stanza. Cercando di non pensare alla giornata vissuta, si fece una doccia e si mise il pigiama a maniche lunghe che la madre le aveva regalato l'anno prima in occasione del suo compleanno. Decise di occupare la serata leggendo La sposa normanna di Carla Maria Russo, ma involontariamente – nonostante una piccola parte del suo conscio avesse pensato di farlo – il suo sguardo incontrò quello del suo riflesso. Orchidea non amava specchiarsi: non le piaceva vedere l'ombra di un essere umano, visto che lei era quello che sembrava – solo un'ombra –, ma all'improvviso una parte del suo cervello fece scattare qualcosa in lei. Ricordò il compito che le aveva dato Ida, la terapeuta anziana con il nome di una guerriera, e si domandò se fosse davvero obbligatorio. Era necessario? Doveva farlo? Che utilità aveva?

Tanto passano lo stesso: le emozioni mi attaccano e litigano alle volte tra di loro, confondendomi ulteriormente, pensò la ragazza.

In cucina sua madre lavava e sciacquava i piatti e il loro rumore attirò l'attenzione della ragazza, che ebbe un accesso di ingenua curiosità. Si affacciò alla cucina senza farsi vedere, cercando di sbirciare la madre, ma si accorse che la donna che l'aveva messa al mondo sospirava con un atteggiamento sconsolato e un viso cupo. Sentendo il senso di colpa farsi sempre più strada nel suo petto, Orchidea si convinse. Doveva provarci. Così chiuse la porta, posò sul comodino il libro che aveva intenzione di leggere e si sedette sul caldo parquet di legno scuro con il viso rivolto verso lo specchio dell'armadio.

Era così pronta a sentirsi male che in realtà non lo era affatto.

Guardare il suo riflesso, i suoi lunghi capelli bianchi e la sua pelle ancor più pallida le ricordò momenti dolorosi, quasi strazianti, della sua vita, che l'avevano portata a perdere il controllo di sé. Chiuse gli occhi di scatto e il suo corpo iniziò a tremare come non faceva da quasi cinque anni. C'erano troppe emozioni. Rabbia. Tristezza. Angoscia. Delusione.

Orchidea seguì quella più forte: tirò un pugno allo specchio, procurandosi diversi tagli e facendo cadere tanti pezzi di vetro sul pavimento.

Diana Fiore, ancora in cucina, sussultò sentendo un pungente rumore di vetri che si infrangevano sul pavimento. Spalancò gli occhi per il terrore di quello che avrebbe potuto vedere se si fosse mossa da dove si trovava, ma si diresse comunque verso la camera della figlia. La porta era chiusa, così allungò una mano, che si muoveva più di un ballerino di twist, e schiuse la porta scura che la divideva dal suo fiorellinobianco.

Non appena si aprì totalmente, Diana Fiore percepì un lungo brivido lungo la schiena e per un istante si pietrificò.

Solo il pianto disperato della sua dolce e confusa bambina la smosse; prese Orchidea tra le braccia e continuò ad accarezzarla finché ne avesse avuto bisogno. Se fosse stato per sempre, lei l'avrebbe fatto. Ne era sicura.

«Mamma», singhiozzò Orchidea. «Mamma, mi dispiace così tanto».

Spazio autrice

Ciao ragazzi e ragazze!

Come state oggi?

Ecco a voi il secondo capitolo di questa storia.

Come lo avete trovato?

Riempitemi di commenti! Voglio sapere le vostre opinioni, purché siano espresse in modo educato.

In questo capitolo iniziamo a capire un po' uno dei temi che voglio affrontare con questa storia... Inoltre, come vedete, mi sto impegnando in una nuova scrittura. La terza persona con un narratore esterno, che - nonostante mi stia piacendo - lo trovo difficile.

Grazie per aver letto questo capitolo e se ti piace, non dimenticarti di mettere una .

Sono sempre ben gradite. Un bacio 🌸

Checca B🌻

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top