Capitolo 13: 𝐿𝒶𝑔𝑜𝓂 - Parte 3
«Raccontami un po' di te».
«Non c'è molto di cui parlare... non ho mai avuto una vita così attiva».
«Può sembrare una domanda indiscreta... Io sto solo cercando di capire... sei sempre stata così?» mormorò lui prendendo una sua ciocca di capelli tra le mani.
A primo impatto, lei schiuse la bocca. Nessuno si era mai dimostrato interessato a capirla, se non i dottori. Le persone si limitavano a deriderla, ignorarla, evitarla e ferirla. Poi, sorrise. «Ci sono nata così».
«Se non vuoi rispondere, non sei tenuta a farlo», incespicò Cristoph in imbarazzo.
«Parlo se prometti di non prendermi in giro».
«Perché dovrei farlo?» rimandò lui stranito. Non era mai stata nella sua indole prendere in giro qualcuno. Sì, alle volte era scontroso e leggermente maleducato, ma tentava di migliorarsi ogni secondo.
«Io sono affetta da albinismo totale».
«E che cosa significa?»
«Significa che non ho melanina nel mio corpo e, di conseguenza, sono tutta bianca».
«E ci sono dei problemi in seguito a questa mancanza?»
Quel suo interesse quasi la commuoveva. «Non molti e, soprattutto, non gravi», mormorò Orchidea. «Questo posto è fantastico, comunque...» cambiò argomento.
«Dovresti vederlo quando c'è la neve».
«E come sarebbe?» rimandò lei.
«Praticamente tutto bianco. Ovviamente, anche ghiacciato e quindi più pericoloso, ma non c'è nulla di più bello in confronto a questo panorama con la neve... Beh, forse tu!» dichiarò il giovane bruno, osservandola da sotto le folte ciglia. «Perché a Firenze non c'è mai stata la neve?»
«Solo acqua mista ghiaccio».
«Quindi mi stai dicendo che non hai mai visto la neve vera?»
«No solo in tv o nelle descrizioni dei libri».
«Allora ti ci porterò».
«È una promessa?»
«È una promessa», ribadì Cristoph. «A tal punto che riuscirai a sentire con le tue orecchie il sareureuk».
«Il che?» rise lei.
«È una parola coreana che descrive il suono e l'azione dei fiocchi di neve che si sciolgono lentamente a una temperatura più calda o sotto il sole del mattino».
«Mi sorprendi ogni giorno di più. Da grande vuoi diventare una specie di dottore delle parole?»
«No, in realtà mi piacerebbe diventare uno psicologo», rispose il ragazzo.
«Come tua madre...»
«Forse anche più bravo», sogghignò lui. «E, tu, che cosa vorresti fare da adulta? Quale sarebbe la tua ambizione più grande?»
Il piccolo fiorellino bianco ansimò, chinando il capo. Non ci aveva mai riflettuto, anche perché non pensava di meritarsi un futuro.
Volse lo sguardo all'orizzonte e sospirò: «Voglio essere felice».
«Sono sicuro che ci riuscirai», mormorò lui sincero dopi qualche istante. «Scusa se te lo chiedo... prima... nella tua camera, sembrava che non volessi uscire, perciò scusami se ti ho costretto a fare una cosa che non volevi e che ti ha reso triste».
«No, mi ha fatto davvero piacere. Mi sto divertendo e mi sta davvero piacendo questo uscita... sono io a non esserci abituata».
«Perché ti definisci malata mentale?» domandò Cristoph improvvisamente.
Il fiorellino bianco rimase senza parole. Perché ha tirato fuori questo argomento? Pensò.
Sperò che il silenzio gli potesse dare una risposta, ma lui persistette con il suo sguardo intenso dello stesso colore del lago, così Orchidea si alzò e chiese: «Come funziona la cosa dell'urlo?»
Il ragazzo dai capelli corvini accennò un sorriso e, alzandosi, sospirò: «Devi semplicemente prendere tutta l'aria che puoi e gridare quello che ti passa per la mente».
Il fiorellino bianco fece un passo in avanti e disse: «Tappati le orecchie...non voglio che tu senta».
Lui annuì. «Mi volto persino». Lo fece e si mise le mani sulle orecchie, premendo così forte che era in grado di percepire solo un fischio.
La docile ragazza con non solo il viso pallido fece un grande respiro, si mise le mani davanti al viso, creando una specie di amplificatore vicino alla bocca e urlò: «Non voglio essere più un problema». Era rimasta senza fiato e la testa le girava vorticosamente, ma sì senti più libera. Dirlo davanti una psicologa era un conto, però ammetterlo a se stessa era un altro, perché lo rendeva autentico a tutti gli effetti.
Nonostante avesse promesso di non ascoltare, la voce piena di dolore del fiorellino bianco giunse al cuore di Cristoph, il quale si sentì quasi ferito nel sentire quella frase.
Come poteva un essere così perfetto, sentirsi in quel modo?
La risposta era che agli occhi degli altri si è sempre qualcuno che si vorrebbe essere, ma che non si è mai. D'altro canto succede alle volte di essere qualcuno che non si vorrebbe essere, ma che si è.
È una questione molto complicata e quasi impossibile da gestire.
«Posso?» domandò il giovane.
Lei tornò al suo fianco e annuì.
«È il mio turno e voglio che ascolti...»
La prese per mano, seguendo quel suo istinto sbarazzino, e fece due passi in avanti. Inalò quanta più aria possibile e gridò: «Vorrei che Orchidea smettesse di sentirsi un problema».
Sconvolto da sé stesso per quello che aveva appena fatto, Cristoph si voltò verso di lei, tramortita, e le si avvicinò. «Non volevo ascoltare, ma la tua voce ha oltrepassato le mie mani, oltre che la mia anima. Sentivo il bisogno di urlare questo».
«Perché... lo hai... fatto?»
«Perché anche io sono un problema, Orchidea», bisbigliò Cristoph. Inspirò. «Tutti noi, schiocchi esseri umani, siamo in problema». D'impulso le si accostò ancora di più, toccandole le braccia e il fiorellino bianco, invece di trasalire come ogni volta, non ci fece caso, perché era troppo concentrato su quel viso da modello con degli occhi da paura che emanavano tristezza allo stato puro.
«Siamo tutti un problema, ma – cazzo – siamo anche la soluzione», perpetuò il giovane filosofo. Le mise una mano sul viso e si sorprese nel vedere che non tremava sotto il suo tocco, eppure non voleva esagerare.
Dentro di sé, sentiva un bisogno inflessibile di lei: Orchidea Fiore era per lui l'ichi-go ichi-e, ma grazie a quell'appuntamento, capii che era anche l'Aman Cara, che dal gaelico valeva a dire la persona con cui avrebbe potuto condividere i suoi pensieri, i sentimenti e i sogni più profondi.
Sì, l'aveva vista così poche volte che poteva contarle sulle dita delle mani, ciononostante lo comprese dal modo in cui lei parlava, guardava, mangiava, respirava, che non era come tutte le altre persone. L'aspetto pallido lo aveva assai stregato, tuttavia erano stati gli atteggiamenti a condurlo alla luce. Proprio come una falena.
Fu in quel momento che Cristoph Coser sentì la necessità di dire: «Geborgenheit».
«Che cos'è? Tedesco?»
Lui annuì, accennando un sorriso timido. «Significa sentirsi completamente al sicuro, come se nulla potesse mai farti del male; sicurezza, comfort, fiducia, soddisfazione, accettazione e amore. Vorrei tanto che ti sentissi in questo modo quando sei con me».
Avrebbe voluto baciarla. Cavolo, se avrebbe voluto, ma aveva già invaso il suo spazio vitale per troppo tempo e, nonostante la basorexia – il forte bisogno di porre le sue labbra sulle sue– che si stava espandendo in tutto il suo corpo, si allontanò.
Per circa venti minuti i due ragazzi rimasero in piedi ad ammirare l'oscurità della notte che faceva il suo lavoro, spodestando la guerra di colori nel cielo, quando Crsitoph sospirò: «Si sta facendo davvero buio».
«Vero».
«Dobbiamo andare», affermò il giovane sistemando e raccogliendo i contenitori e il telo. «Sono contento che ti sia piaciuto quello che ho preparato».
Lei lo guardò confusa per un istante e nel momento in cui spostò gli occhi sui recipienti vuoti, si sorprese.
Tra parole e sguardi non si è accorta di aver fatto un grande passo avanti: aveva mangiato davanti a qualcun altro.
Tornarono alla macchina con qualche difficoltà e non appena Cristoph mise in moto, lei si appoggiò al finestrino, iniziando a pensare.
A dire il vero entrambi lo fecero e nessuno dei due proferì parola, finché l'auto non si arrestò davanti alla porta di casa Fiore .
«Grazie mille per oggi. Ne avevo proprio bisogno», dichiarò il ragazzo.
«Grazie a te per avermi portato nel tuo posto segreto».
«Non c'è di che», ridacchiò il giovane. Il fiorellino bianco accennò un sorriso e dopo qualche secondo si voltò, scendendo.
«Orchidea», la chiamò Cristoph, raggiungendola.
Stava cedendo all'impulso. Era davvero così forte che dovette trattenere il respiro.
«Dimmi... vuoi rivelarmi il significato di quella parola stramba?» sogghignò lei.
«Quale?» buttò fuori l'aria.
«Quella che sembrava polacco, misto serbo», rise lei.
«Ah, quella», ricordò il giovane. «No, il suo significato lo capirai quando sarai pronta»
Orchidea fece il broncio; dopodiché lo salutò ed entrò dentro in casa, lasciandolo sullo zerbino in piedi.
Ad essere sinceri quella parola, che le disse prima della gita, era stata davvero involontaria, ma dopo quella giornata, divenne più che vera...
Cristoph salì di nuovo in auto e si diresse verso casa, dove la madre lo attendeva seduta al tavolo in fondo al corridoio.
Girò la chiave della porta d'ingresso e nell'esatto momento in cui poggiò le borse sul piccolo ripiano vicino all'entrata, il ragazzo la scorse.
«Mamma», la chiamò da lontano, ma lei non si mosse. Continuò a fissare dei fogli sul tavolo davanti a lei, così a passo lento lui le si avvicinò. Oltrepassata la linea di delimitazione, che divideva la cucina dal corridoio, il giovane dai capelli scuri e ribelli vide i suoi disegni, quelli che aveva fatto nelle ultime due settimane, sparsi sul legno.
«Dove li hai presi?» domandò infastidito.
«Hai ripreso a disegnare», mormorò la madre con voce straordinariamente raggiante.
«Non toccare più le mie cose», borbottò il figlio raccogliendo rapidamente i suoi bozzetti.
«Cristoph, ti ho detto quelle cose... questo pomeriggio, perché mi preoccupo per te», affermò Katrin stancamente. «Non voglio che tu soffra. Lei è una persona problematica e...»
«Ti ho già detto come la penso», la interruppe il ragazzo irritato.
«Fammi finire», lo sgridò la donna. «Non sono d'accordo che tu esca con lei e ho le mie ragioni; d'altro canto ti ha portato a riscoprire il disegno, che era una delle tue passioni più care che temevo non avresti più ripreso... anche perché sei bravissimo». Fece un sospiro. «Comunque cercherò di non metterci più bocca».
Il sorriso del giovane Coser si allargò fino a far vedere tutti i trentadue denti. «Grazie, mamma. Lo apprezzo».
«Solo cerca di proteggere il tuo cuore...» aggiunse Katrin.
Per quanto sapesse che tale prevenzione fosse impossibile da applicare, lei ci provò. Era stato un giorno duro per lei, ma andò a letto con una strana sensazione di felicità, perché suo figlio aveva finalmente ripreso in mano il suo blocco.
Spazio Autrice
Ciao Amici!
Ecco la fine del capitolo 13. Che cosa ne pensate?
Grazie per avermi letto e per la stellina.
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