7. Informazioni confidenziali


Nancy rispose al secondo squillo.

«Hola, sei ancora viva?»

«Avrei bisogno di un favore enorme.» Anais prese un profondo respiro prima di continuare. Non le era mai piaciuto chiedere aiuto, nemmeno per le piccole cose. «Per caso oggi vai all'università?»

«Non dirmi che hai deciso di tornare!»

Al solo pensiero, la ragazza si sentì gelare. «No, ma avrei bisogno di consultare un libro con una certa urgenza. Si trova nella biblioteca del nostro dipartimento e io... Non riesco a passare, almeno non subito.»

«Capito, capito. Dimmi pure il titolo.»

«Si chiama La massoneria in Francia, di Louis Pellegrini. L'ho già prenotato, avrei solo bisogno che me lo andassi a ritirare.»

«Oh, da quando ti interessi di queste cose?»

«È sempre per la tesi. Mi servivano degli approfondimenti su un certo duca di Rochefort, ma al momento non posso dirti molto.»

«Non è che nella tua tesi è saltato fuori qualcosa sui conti d'Albignac, vero?»

Anais strinse le labbra, le dita che tamburellavano sul bordo del portatile. Sullo schermo, campeggiava la pagina Web della biblioteca del dipartimento. La sola vista del logo della Sorbona bastava a farle venire le vertigini. «Non posso dirti nulla al momento. Sono solo speculazioni.»

«E io non vedo l'ora di sentirle! Ci vediamo oggi pomeriggio verso le cinque?»

«Non posso, ho un impegno. Facciamo alle due? Ti raggiungo alla fermata della metro dell'università.»

«Ti direi di sì, anche se ho come l'impressione che mi stai nascondendo qualcosa.»

Anais sospirò. Con Nancy era impossibile mentire. «Ti spiego tutto non appena avrò più informazioni, va bene? Ma prima devo leggere quel libro.»

«E io non vedo l'ora di sapere che cosa hai scoperto. Ci vediamo dopo, tesoro!»

Calò di nuovo il silenzio, rotto solo dal pigro ronzio del portatile. Anais crollò sulla scrivania, le dita che massaggiavano febbrili le tempie. Quella mattina si era svegliata peggio del solito, ogni azione sembrava costarle una fatica immane. Era come sguazzare nella melassa, nella vana speranza di rimanere a galla. Le membra pesavano come macigni, la testa pulsava fino a farle male.

Si alzò dalla sedia e caracollò in cucina. Aveva un disperato bisogno di caffè. Avrebbe tanto voluto tornarsene a letto, in attesa che la crisi passasse e che tutto tornasse al proprio posto, ma sapeva che così non avrebbe risolto un bel niente.

Aveva promesso a Tristan che quel pomeriggio sarebbe tornata alla Maison d'Albignac e che gli avrebbe portato le informazioni che era riuscita a trovare sul duca di Rochefort.

Non avrebbe deluso anche lui.

****

Camminava a passo spedito lungo il vialetto avvolto dalla penombra, il volume stretto sottobraccio come se fosse il più prezioso dei tesori. Era stato tutto più semplice del previsto. Aveva preso la metro verso le tredici e trenta e aveva raggiunto la fermata come promesso. Nancy era lì che l'aspettava, insieme al volume che le aveva chiesto. Perlomeno l'amica non aveva il terrore di varcare le porte del dipartimento, con il rischio di incontrare la persona sbagliata.

Sempre Nancy l'aveva accompagnata in un bistrot lì nei paraggi, dal momento che Anais non aveva pranzato – né aveva voglia di farlo – e avevano passato una piacevole mezz'ora in cui era riuscita a tenere a bada i suoi spettri quanto l'emicrania.

Era tornata a casa per farsi una doccia veloce, lo stomaco che era tornato a brontolare, e si era messa a consultare il libro mentre sorseggiava l'ennesima tazza di caffè americano. Il cuore accelerava i battiti a ogni frase, fino a quando non era riuscita a trovare quello che cercava. Non riusciva a crederci. Per la prima volta dopo mesi, le sue ricerche stavano avendo un risvolto concreto. Il duca di Rochefort esisteva davvero.

In preda a un'improvvisa euforia, Anais era corsa a recuperare l'auto e in men che non si dica era di nuovo sulla statale, dritta verso Anjou e i suoi fantasmi.

Questa volta non ci furono porte sbattute e suoni spaventosi ad accoglierla.

«Ehi, sono io! Anais.»

I conti apparvero non appena udirono il suono della sua voce, insieme all'ormai familiare sensazione di freddo che li accompagnava ovunque.

«Che cos'è?»

Tristan fu il primo a notare il libro che teneva sottobraccio. La ragazza lo appoggiò sul tavolo della sala da pranzo e prese a sfogliare le sue pagine davanti a loro.

Il giovane conte provò l'istinto di sfiorarle con le sue dita perlacee, senza però riuscirci. Una smorfia di disappunto gli adombrò per un istante le sopracciglia scure. «Perdonatemi, mi dimentico sempre che non riesco a toccare nulla che non appartenga a questa casa.»

«Non preoccuparti, è comprensibile. Oh, chiedo scusa...» Anais arrossì. Per un attimo si era completamente dimenticata di essere al cospetto di un nobile, e non di un ragazzo poco più grande di lei.

«Va tutto bene, è comprensibile.» Tristan le sorrise. Alle sue spalle, nonna Jolande e Camille si scambiarono un'occhiata perplessa.

«Di solito ci si dà del tu, quando si entra in confidenza» spiegò la ragazza. «Almeno tra coetanei, s'intende. Ma se voi preferite un linguaggio più formale, per me non c'è nessun problema.»

«Diamoci pure del tu. Credo che oramai siamo in confidenza, giusto?»

Gli occhi di Anais guizzarono per un attimo sul resto della famiglia di spettri. «Non voglio creare disagi.»

«Affatto.»

«Che belli questi quadri. Sembrano veri!» La voce acuta di Marie richiamò la loro attenzione. La bambina indicava una pagina del libro su cui spiccava un'immagine della reggia di Versailles.

«Si chiama fotografia.» Anais sollevò il volume per aiutarla a vedere meglio. «È un perfezionamento della camera ottica, che permette di catturare la luce e riprodurre un'immagine su carta. Si può anche modificare, se si vuole.»

«Oh, ma è stupendo! E come funziona?»

«Se volete, ho anch'io uno di questi dispositivi. Sono diventati molto piccoli, li teniamo in uno strumento che si chiama cellulare. Serve per parlare con le persone anche se vivono molto distanti, addirittura dall'altra parte del mondo. Le puoi anche vedere, se vuoi.»

Gli spettri la fissarono attoniti, in particolar modo Tristan.

«Davvero è possibile realizzare un simile prodigio?» esclamò, gli occhi colmi di curiosità.

«Ma certo. Ora ti faccio vedere.» Anais estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans.

Gli altri osservarono l'oggetto come se si trattasse di un manufatto alieno. La ragazza accese la fotocamera e inquadrò la parete davanti a sé, per poi premere il pulsante al centro.

«Ecco qui, questa è una fotografia» disse, mentre mostrava loro l'immagine che aveva appena scattato. «Ne ho altre in galleria, se volete.»

«Galleria?» Tristan si fece più vicino, un brivido di freddo che subito attraversò Anais nel momento in cui i suoi abiti incorporei le sfiorarono appena la pelle scoperta del braccio. L'espressione estasiata sul volto del giovane era qualcosa di irresistibile.

«Non è una vera galleria, diciamo che è una raccolta di immagini che ho salvato all'interno del dispositivo. Guarda, ti faccio vedere.» La ragazza prese a scorrere le altre fotografie.

«Questa è Parigi?» esclamò Tristan, riconoscendo la cattedrale di Notre-Dame.

«Sì, anche se è molto cambiata. Ora ci sono dei grandissimi viali alberati, detti boulevard. E un sacco di quartieri nuovi. Per molto tempo, Parigi è stata la capitale Europea della cultura e della scienza. Ogni novità, artistica o tecnologica che fosse, passava prima di qui. Ancora oggi è considerata una delle città più famose del mondo.»

«Che razza di diavoleria è mai questa?» nonna Jolande indicò lo schermo, occupato da un selfie scattato sul lungo Senna circa un anno prima.

«Oh, questa è la Torre Eiffel. È praticamente il simbolo di Parigi. Alta più di trecento metri, è stata realizzata completamente in ghisa all'inizio del secolo scorso. Sarebbe metallo, per intenderci.»

«Una torre di ferro? Che obbrobrio! Dovrebbero abbatterla.» L'anziana contessa appariva alquanto scandalizzata.

Anais non poté fare a meno di sorridere. «È quello che hanno pensato in molti, all'epoca. Ma alla fine, hanno deciso di tenerla. Sarebbe impossibile oggi immaginare Parigi senza la Torre Eiffel.»

«E questa chi è?» Camille si fece avanti, l'indice puntato sulla ragazza dai capelli ricci ai piedi in primo piano.

«Oh, lei è Nancy. La mia migliore amica. Era con me, la prima volta che sono venuta qui.»

«Curiosa. Cioè, non avevo notato il suo colore della pelle.»

«Perché, è un problema?»

Camille non rispose. Il suo volto aggraziato aveva assunto un'espressione indecifrabile.

«Potresti provare a ritrarre anche noi?» chiese Tristan a quel punto, quasi come se avesse intuito che l'atmosfera stava iniziando a farsi troppo tesa.

«Oh, certo! Mettetevi in posa.» Anais riaprì la fotocamera.

Con suo sottile divertimento, Tristan si mise subito nella classica posizione che assumevano i nobili nei ritratti: appoggiò la mano destra sullo schienale della sedia davanti a lui e appoggiò la sinistra sul fianco, guardando dritto in camera con un'espressione seria e profonda allo stesso tempo. Camille lo imitò titubante, le dita intrecciate sul grembo, mentre Marie si sedette in mezzo a loro con Mimì tra le braccia come al solito.

Nonna Jolande, invece, si limitò a rimanere in disparte. «Mah, continuo a non capire tutto questo entusiasmo per simili diavolerie» si limitò a commentare in tono altezzoso.

«Pronti? Guardate qui!»

Anais fece per puntare l'obiettivo su di loro, salvo accorgersi che lo schermo del cellulare appariva completamente vuoto. Provò a scattare la foto, ma il risultato rimase sempre lo stesso.

«Qualcosa non va?» Tristan allungò il capo verso di lei.

La ragazza scosse il capo. «Provo a mettere il flash, evidentemente c'è troppa poca luce. Non vi preoccupate, è solo un fascio luminoso, non vi farà del male.»

Ciononostante, le reazioni di sorpresa alla vista del flash furono inevitabili.

«Ho fatto!» Anais recuperò la foto. Il cuore accelerò all'impazzata nel momento in cui si rese conto che l'immagine restava vuota, come se l'obiettivo della macchina fotografica non riuscisse a cogliere le presenze evanescenti di fronte a lei. Le loro uniche tracce erano delle vaghe chiazze perlacee che si allungavano sullo sfondo, proprio com'era avvenuto con il ragazzo che si era introdotto all'interno della Maison d'Albignac poco tempo prima. Un'espressione di puro imbarazzo si delineò sul suo volto mentre girava il cellulare per mostrarlo agli altri.

«Scusate, ma temo che la fotocamera non riesca a cogliere ciò che è incorporeo.» Scattò una foto della propria mano, per poi mostrargliela. «Vedete?»

Tristan annuì, comprensivo. «Non importa, forse dovevamo aspettarcelo.»

«Comunque, sono venuta proprio per parlarvi del duca di Rochefort. Ho fatto delle ricerche, e le informazioni più importanti sono proprio in questo libro.» Anais riprese a sfogliare il volume davanti a loro, fino a raggiungere il punto che le interessava. «Ecco qui. Philippe de Rochefort, presente a Versailles già dal 1774. Non ci sono pervenuti ritratti, ma fu sempre presente a corte fino allo scoppio della Rivoluzione. Era un personaggio misterioso e allo stesso tempo molto influente. Si diceva che si dilettasse in alchimia e che avesse radunato intorno a sé un circolo di nobili, filosofi e letterati che condividevano gli ideali illuministici.» Scoccò un'occhiata in direzione di Tristan, che ascoltava con attenzione.

«È lui» confermò, l'incarnato che di colpo appariva ancora più pallido ed evanescente.

«Ti ha riempito la testa di sciocchezze, insieme a quegli scapestrati che consideravi tuoi amici» intervenne Camille, severa.

«Che fine ha fatto?» incalzò il giovane conte, le mani poggiate sul tavolo.

«Secondo il libro, è fuggito a Londra nel 1793, dove è morto alcuni anni dopo. A quanto pare, non ha lasciato nessun erede. Mi dispiace.»

«Quindi siamo al punto di partenza. Niente duca, niente possibilità di spezzare la maledizione.» Nonna Jolande schioccò la lingua con fare di stizza.

«Come se dalla morte si potesse tornare indietro» commentò Camille, acida.

«Ma noi non siamo morti! Siamo ombre, ma non siamo morti. Me lo sento.» Tristan si voltò verso di loro.

«E allora come ti spieghi il fatto che non possediamo più un corpo? Rassegnati, fratello. Non possiamo più tornare indietro.»

Anais avvertì un profondo senso di disagio attanagliarle le viscere. Si sentiva del tutto impotente di fronte alla terribile condizione dei conti d'Albignac, e in più aveva come l'impressione di aver peggiorato la situazione con il suo goffo tentativo di aiutarli. Abbassò lo sguardo e recuperò il libro, riponendolo sottobraccio.

«Mi dispiace» ripeté piano.

«Devi già andare via?» Tristan si voltò verso di lei.

L'incrinatura traboccante di delusione della sua voce la colpì con la violenza di uno schiaffo d'aria gelida.

«Io... non volevo farvi perdere tempo, ecco.»

«Come se ne avessimo.»

«Ma...»

Si fissarono negli occhi per un istante, sbilanciati dall'assurdità della situazione. Poi, entrambi scoppiarono a ridere.

«Non ci avevo pensato, scusate.» Anais avvertì l'ennesima vampa di rossore risalirle lungo le guance.

Da una parte avrebbe voluto girare i tacchi e fuggire in preda all'imbarazzo, dall'altra non desiderava altro che trovare una nuova scusa per restare ancora un po' in loro compagnia.

«Anais.» Tristan la chiamò ancora una volta. La sua voce era gentile e sincera, i suoi occhi colmi di speranza.

La ragazza percepì l'ennesimo brivido attraversarle la schiena. Per quanto fossero ormai entrati in confidenza, faticava ancora a tenere lo sguardo posato su di lui. E non era tanto la sua natura evanescente a metterla a disagio. Era qualcos'altro. Qualcosa a cui non voleva pensare, e che la terrorizzava a morte.

«Sì?»

«Potresti restare ancora un po'? Sai, non eravamo più abituati a ricevere visite e ci dispiace molto di essere stati così scortesi con te all'inizio, ma... ecco, tutte le cose che ci hai mostrato poco fa sono state a dir poco meravigliose e....»

«Volete... volete che vi parli ancora di Parigi? Anche se sono successe tante cose, alcune molto brutte a dire il vero.»

«Non importa, Anais. A me piace molto ascoltarti, e anche alle mie sorelle e a nonna Jolande, per quanto non te lo abbiano ancora detto apertamente. Mi chiedevo se volessi tornare altre volte a farci visita per farci conoscere il mondo al di fuori di qui, visto che non possiamo vederlo con i nostri occhi.»

La ragazza avvertì l'ennesimo brivido attraversarle la colonna vertebrale. Un'idea assurda si stava facendo largo dentro di lei. Qualcosa che, in qualche modo, l'avrebbe aiutata ad affrontare un argomento che non osava toccare da troppi mesi.

«In tal caso, avrei un favore da chiedervi» sussurrò. «Com'era vivere a Versailles?»


**** Buonasera a tutti! Lo so, di solito aggiorno di lunedì, ma ho voluto anticipare l'aggiornamento per due motivi.

Il primo è che domani divento vecchia, e anche se lavoro vorrei giustamente godermi un poco di vita privata, sempre con il cronometro.

Il secondo, molto più importante, è che martedì uscirà La Sentinella, il mio primo romanzo pubblicato a tutti gli effetti da una casa editrice! Se volete saperne di più, vi rimando al mio profilo Instagram le_storie_di_fedra.

Spero che questa storia continui a piacervi e che possiamo rileggerci presto!

Un abbraccio <3

F.

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