XX. ROBY

Il parto di Lotte fu meno complicato del primo, benché in anticipo di qualche settimana.

-Questa volta non ti posso far promettere nulla- disse, tra una spinta e l'altra, il viso teso. La sua mano era stretta nella mia. Soffriva, anche se non voleva mostrarlo. Il parto era quindi dolore? Era sangue e grida? Il tributo chiesto alla donna, mi ritrovai a pensare. Herman si affrettò a procurare una levatrice, che arrivò dopo un paio d'ore. Dopo cinque ore di travaglio Lotte dette alla luce un bel maschietto, con due grandi occhi azzurri tendenti al verde.

-Lo voglio abbracciare- disse subito mia cugina e, con ultimo guizzo di energia, si spinse su, le braccia aperte.

La levatrice si affrettò a darglielo. Osservai la scena con un misto di sorpresa e turbamento. Amava davvero quel bambino?

-Roby, ti chiamerò Roby- e lo baciò sulla testolina. Sentii una stretta nel cuore.

Quando uscii dalla stanza trovai Herman seduto su una sedia, come un padre in attesa. Solo che non attendeva notizie di Lotte o del bambino, compresi, con un pizzico di orgoglio, ma mie.

-Ti senti bene? Non ti sei stancata?- si alzò e mi venne incontro, come se fossi stata io la partoriente.

-Sì, sto bene- sussurrai e lasciai che lui mi stringesse a sé.

Herman emanava una gran forza, un piglio di comando, qualcosa che non riuscivo a definire, che mi rendeva nervosa, che mi faceva tremare senza saperne il motivo. Erano sensazioni normali per una donna sposata? Sospettavo di no. Non volevo certo parlarne con Lotte... e tantomeno scrivere a mia madre. Compresi che avrei dovuto gestirle da sola.

-Julien si sente meglio- continuò Herman, come se fosse mio marito, come se fosse il padre del bambino, come se fosse il padrone di casa. Percepii un suo leggero fremito, ma forse sbagliavo. –Mi ha fatto parecchie domande sui carrarmati e ho dovuto promettergli di fargliene vedere uno-

-Quel bambino ottiene sempre ciò che vuole- scherzai, imbarazzata.

-Sembra il padre-

Il padre. Sì, Albert, anche se Julien assomigliava più a Herman a pensarci bene. Scacciai il pensiero di mio marito. Non in quel momento.

-Dovresti riposare-

Annuii debolmente. –Sono molto stanca- avevo la nausea, la testa mi girava, mi sembrava di sentire ancora l'odore pungente del sangue.

Roby si rilevò quasi subito un neonato prodigio, esattamente come all'epoca era stato Julien. Sembrava che Lotte contenesse in sé il gene della genialità e che lo passasse ai suoi figli. Julien ne era morbosamente attratto. In seguito mi sarebbe sempre sembrato che i due fratelli fossero legati da un filo invisibile, come un'infezione che passava dall'uno all'altro.

In quei giorni passai più tempo con Lotte, ma questo non m'impedì di stare molto insieme a Herman. Anzi, proprio il fatto che mia cugina fosse costretta a stare a letto e che la servitù si prendesse cura di Roby mi permise di stare molto con lui.

Fu proprio uno di quei giorni che Herman mi pose una domanda spinosa.

-Perché non dici semplicemente che medicina non ti piace?-

La chiarezza di quelle parole mi sorprese. –Non lo so- ammisi in un soffio. Non lo sapevo per davvero. –Forse non voglio deludere le persone che ho intorno-

-Ma tu devi pensare prima di tutto a te stessa, alla tua vita-

Aveva indubbiamente ragione.

-Cosa ti piacerebbe fare?-

-Scrivere- ammisi in un soffio –ma non so neppure da dove iniziare-

-Lascia fare a me-

Fu così che Herman iniziò a portarmi libri. Erano di vario genere. Letteratura, saggi, qualsiasi cosa.

-Se ti piace scrivere devi farlo- mi disse, la voce sicura.

-Non lo so- mormoravo, ma leggevo tutto, la sera, nel grande e vuoto letto matrimoniale. Presto presi l'abitudine di buttare giù su un foglio qualche frase, quello che mi colpiva di più. Ogni tanto lo leggevo a Herman.

-Devi continuare così- m'incitava.

Il mondo mi si scioglieva intorno in quei momenti. Era come se Herman comprendesse ogni piega del mio cuore. E furono allora che iniziarono i dubbi. Prima come dei rumori leggeri sullo sfondo, poi sempre più forti.

Forse mi ero sposata troppo presto. Forse avevo amato così tanto Albert perché era il primo che mi aveva corteggiata per davvero. E se fosse arrivato prima Herman? Avrei ancora scelto Albert? Mi costrinsi ad allontanare questo pensiero. Albert era l'unico. Lo sarebbe stato per sempre. Era Lotte ad avere quei problemi, non io. Avevo avuto un solo sogno in tutta la mia vita. Sposarmi, diventare una moglie, e poi i figli, la famiglia. Qualcosa era andato storto, ma non riuscivo a capire come. Ma cosa voleva dire la parola moglie? Ero diventata una sorta di emanazione di Albert, come la casa, i soldi, l'auto? Ero solo quello? E perché mi sentivo così? Quella parola, che tanto avevo amato, mi venne in odio. Avrei voluto scrivere tutto a mia madre... meglio, avrei voluto chiamarla. Sapevo bene però che se lo avessi fatto tutto sarebbe esploso. Lei avrebbe insistito per raggiungermi o, molto peggio, mi avrebbe detto di tornare al castello. Il ruolo di moglie era sacro e non dovevo profanarlo. Decisi di restare zitta, di attendere, di cavarmela da sola. Ero una donna fatta ormai, dovevo farcela senza l'aiuto di nessuno.

Lotte invece sembrava aver trovato il suo equilibrio. Era felice, gioiosa, perfetta. Provavo un'agghiacciante invidia. Lei non era come me. Lei non dava peso a niente e a nessuno, procedeva per la sua strada, sicura e fiera. Non era insomma timorosa e cauta come invece la ero io. Ora con Roby sembrava aver trovato finalmente la sua strada. Era una brava madre, o perlomeno ci provava. Lei ci stava bene in quella casa in cui non eravamo cresciute.

A me invece sembrava di essere cresciuta in un mondo ovattato, nascosta in una specie di stanza, in un sacco, in una voragine. Ora che ero stata lanciata nel mondo vero, ero confusa, turbata, non sapevo cosa fare. Affondavo sempre più in me stessa.

Fu forse sul corso di quei pensieri, di quella mia mente che cambiava, mentre il mio corpo rimaneva com'era, sempre sterile, senza che la pancia spingesse per aumentare, senza che nulla crescesse dentro, senza che niente cambiasse, che le cose tra me ed Herman presero un corso diverso. Fu lui a presentarsi con un quaderno dalla copertina rossa. Lo fissai confusa, non capendo cosa volesse dirmi.

-Cosa devo farci?- chiesi, prendendolo tra le mani.

-Scrivi quello che vuoi- fu la sua risposta.

Lo guardai, senza sapere come reagire.

-Io starò qua- aggiunse.

-Non so di cosa scrivere- ammisi in un soffio.

-Provaci-

E così feci. Soppesai le parole e cercai di tracciare un disegno del passato. La mia mano prese a raccontare da sola. Scrissi della Sposa, di quell'oscura figura che aveva percorso la mia infanzia, di quella donna che, rifiutata dall'amato, avrebbe per sempre indossato un abito da sposa che non era il suo, che lo avrebbe atteso fino a quando la stanza in cui abitava non era stata divorata dalle fiamme. Lei che aveva ambito a quel ruolo di moglie che ora io avevo e che disprezzavo quasi.

Herman restò di fronte a me per tutto il tempo. Apparentemente sfogliava un libro, ma sapevo che mi stava guardando, studiava ogni mio movimento, cercava il lampo della creazione nel mio sguardo.

Quando terminai gli riconsegnai il quaderno. Lui me lo portò il giorno seguente, qualche piccola correzione a bordo pagina.

Continuammo così. Non tutti i giorni, ma ogni tanto. Spesso parlavamo, ragionavamo insieme, facevamo connessioni sugli argomenti più disparati.

Il nostro rapporto si fece più forte, più intimo, più... simile all'amore che all'amicizia. Herman sostituiva Albert fin troppo bene. E un giorno arrivai perfino a fargli una richiesta.

-Vorrei che m'insegnassi a sparare- dissi tutto d'un fiato, nel mio tedesco stentato. Ero certa che mi avrebbe detto di no, come già aveva fatto Albert.

-Vieni- rispose invece.

E io lo seguii, l'ansia che mi divorava.


NOTE DELL'AUTRICE:

Ciao!

Cosa ne pensate del rapporto tra Viola ed Herman?

A presto!

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