XIX. NIBELUNGHI
Un pomeriggio io ed Herman scendemmo al villaggio. Era arrivata una compagnia di attori che avrebbe interpretato una versione semplificata dell'anello dei Nibelunghi. Julien era rimasto a casa visto che la sera prima aveva avuto una leggera febbre. Avrei voluto rimanere con lui, ma Lotte mi aveva detto che avrebbe badato lei al bambino.
-Ti fa bene svagare un po'... anche se quell'uomo non mi piace per niente-
Mi sentivo quasi una madre snaturata a lasciare Julien a casa, mentre io andavo a divertirmi. Forse però avevo davvero bisogno di un po' di tempo libero. Mi sentivo stanca, stremata, quasi malata. Smagrivo e impallidivo ogni giorno di più. Herman, preoccupato per me, mi aveva consigliato di farmi visitare da un medico, ma io avevo rifiutato. Non ne avevo un reale bisogno. Herman lo aveva comunque fatto venire, con la scusa di una cena. L'uomo mi aveva consigliato, con tono allegro, di riposare e distrarmi.
Quel pomeriggio eravamo solo noi due e la cosa mi faceva sentire un po' in imbarazzo senza che riuscissi a comprendere il perché. Seduta accanto a Herman osservavo gli attori recitare la loro parte. Sigfrido, Brunilde, il drago. Era tutto così bello, così incantevole, così meraviglioso. Una fiaba. Ci avevano riservato il posto d'onore ed Herman si era premurato di procurarmi un binocolo per vedere meglio, anche se non ce n'era un reale bisogno. Il teatro era in realtà improvvisato, all'aperto, nella piazza centrale del villaggio. L'aria fresca mi accarezzava il viso. La neve, caduta fino alla settimana prima, si era sciolta quasi completamente. In seguito avrei ricordato con gioia quel momento. Fui quasi perfettamente felice e dimenticai i problemi. Mi sentivo di nuovo una ragazzina ed Herman non faceva che acuire quella sensazione.
-Cosa ne pensi?- mi chiedeva, alla fine di ogni scena.
-Perfetto- mormoravo. Ed ero sincera.
-Ne sono felice-
Quando terminammo io ed Herman passeggiammo ancora un po' per il paese. Io avrei voluto tornare subito a casa, ma lui mi aveva rassicurato.
-Se Julien stesse male ci avrebbero chiamati- mi aveva detto.
In realtà anch'io volevo stare lì. Passare il tempo con Herman mi faceva sentire giovane e felice. Ero di nuovo una bambina. Lo ascoltavo parlare di Attila, delle sue conquiste, della sua morte.
-Alcuni dicono che sia stavo ucciso dalla moglie- mi raccontò con il sorriso di chi ama parlare, spiegare –la notte stessa delle nozze-
-Che cosa orribile- replicai.
-Oh, morì un grande generale- lo sguardo grigio scintillò –ma il mistero non è solo questo-
-Davvero?- indagai, il cuore che mi tamburellava nel petto. Era bello ascoltarlo. Mi sembrava di essere l'unica al mondo.
-Non si sa dove fu sepolto- mi spiegò –gli uomini stessi che si dedicarono alla sua sepoltura si uccisero, in modo tale che nessuno potesse conoscere il suo segreto-
-Ma è orribile!- gemetti, mentre la mia mente vagava. Come potevano essere esistite persone simili?
-Oh, non è un caso unico... se t'interessa ti posso procurare un libro, parla principalmente di strategie militari, ma vorrei sapere cosa ne pensi-
-Sì, ne sarei felice-
Lui sorrise. –Sarei io a essere felice... sai Etzel dei Nibelunghi è ispirato ad Attila-
-Davvero? Non sembrava un personaggio così temibile-
-In effetti... - s'interruppe, lo sguardo cupo.
Una donna mi aveva posato una mano sul braccio. Mi stava dicendo qualcosa in tedesco, una parola che non comprendevo. Il modo in cui lo diceva però mi terrorizzava. Arretrai, il cuore che mi schizzava in gola.
Herman fu rapido. Prese la donna per il braccio, le disse qualcosa con il suo tono duro, quello da militare, quindi l'allontanò. Io fissai la scena scossa. La donna continuava a voltarsi, a cercare i miei occhi.
-Cosa vuol dire?- chiesi, senza capire, abbassando lo sguardo.
Herman indugiò e questo mi fece capire che c'era qualcosa che non andava. Graffi sul mio stomaco.
-Cosa vuol dire?- insistei. Dovevo sapere, almeno lui non doveva mentirmi.
-Vuol dire morte... non crederci, è solo una vecchia pazza-
Le parole però s'impressero inevitabilmente in me. Julien. Deglutii, la gola secca. –Torniamo a casa- sussurrai.
Herman non si fece pregare, anche se notai una certa delusione e insofferenza nel suo sguardo. Avrebbe forse voluto stare ancora un po' di tempo da solo con me. Durante il percorso di ritorno non riuscii a concentrarmi su nulla. Continuavo a giocare nervosamente con le maniche del mio abito. Herman cercava di distrarmi, parlando dello spettacolo e dei Nibelunghi.
-Scusa, è solo che... Julien per me è come un figlio- mi giustificai.
-Certo, lo capisco- e poi fece una cosa che mi sorprese. Posò una sua mano, avvolta in un guanto nero, sulla mia. La fissai confusa. Non era il suo gesto a sorprendermi, no, era la sensazione che provavo. Come se fossi completa, come se desiderassi la sua mano sulla mia, come se volessi che non la togliesse mai più. Cosa stava succedendo?
L'auto che si fermava m'impedì d'indagare oltre. Ero solo stanca, la lontananza di Albert metteva a dura prova la mia pazienza. La notte, sdraiata nel letto grande e vuoto, mi giravo e mi rigiravo, non riuscendo a prendere sonno. Quando mi addormentavo ero tormentata dagli incubi. Mi sentivo sola, abbandonata. E Albert non tornava. Scacciai questi pensieri e scesi dall'auto, senza aspettare che Herman venisse ad aprirmi la portiera. Percepii subito che qualcosa non andava. La casa era avvolta nel silenzio. Le parole della vecchia mi rimbombarono in testa. La morte. Un presagio di morte. Mi misi a correre, il cuore che traballava dentro di me. Quando arrivai sulla soglia trovai una cameriera pallidissima.
-Julien- gemetti, era colpa mia, non avrei dovuto lasciarlo solo –sta male?-
-No, è la signora Charlotte... sta partorendo-
NOTE DELL'AUTRICE:
Ciao!
Cosa pensate di questo capitolo?
A presto!
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