Capitolo 15
Il principe si guardava allo specchio, gli occhi da cucciolo ferito stonavano con il cerchio d'oro che portava sul capo.
«Stai bene come al solito marito mio, non ti angustiare.»
Emel si volse verso di lei, le mani intrecciate in grembo, lo sguardo alto ma triste.
«Per quanto ancora andranno avanti questi inutili festeggiamenti? Sembra trascorso un tempo infinito dalla mia nomina.»
«Ogni scusa è buona per bere e ingozzarsi di cibo, lo sai bene anche tu. Dopotutto gli uomini sono uomini.»
Il marito le rivolse un'occhiata di rimprovero, che Alia finse di non cogliere. «Devi cercare di portare pazienza, anche se è dura. Passerà, vedrai.» Gli si avvicinò, con ambo le mani sistemò da davanti, senza aver bisogno di guardare, I lacci del meraviglioso farsetto argentato che indossava Emel.
Il marito le lasciò fare, anche se lo sentì deglutire pesantemente. «Come fai, Alia?»
«A fare cosa?»
«Ad essere tanto tranquilla, a fingere che non stia accadendo nulla di sbagliato.»
In quel momento Alia fissò gli occhi su quelli di Emel e notò solo allora quanta sofferenza celavano a stento. Pagliuzze scure li segnavano, come macchie d'inchiostro su una pergamena.
«Cosa ti turba tanto, amor mio? Se c'è qualcosa che posso fare per farti sentire meglio...»
«No.» Emel rifiutò secco la sua mano, che mirava a posarsi su una sua guancia per fargli una carezza. Nonostante non fosse una donna debole, che si lasciava intenerire con facilità, le dispiaceva vedere il marito in quello stato e avrebbe voluto, da brava moglie, condividere le sue angosce. Così sarebbe stato in un matrimonio felice, ma il loro non lo era e Emel non le concedeva mai alcuna tenerezza che non avesse deciso egli stesso.
Ritirò la mano, portò il braccio dietro la schiena. Per distrarsi da quel momento infelice si rimirò allo specchio. Una tunica blu decorava la sua figura snella e una sovratunica ricamata d'argento si abbinava al farsetto del marito. La gonna, ampia, nascondeva le sue grazie, una severa acconciatura nordica appiattiva il suo volto allungato.
Un abbigliamento scuro che non le donava colorito, ma non spegneva la sua fiera bellezza. Perché Alia Taevon sapeva benissimo di essere bella e non ne faceva un vanto, ma nemmeno tentava di nascondere questa sua certezza.
«Mi dispiace.»
«Lo so.»
Emel prese una sua mano e se la portò al petto. «Non mi piace essere freddo con te, moglie mia. È a causa delle mie preoccupazioni se sono così. Spero potrai perdonarmi.»
Il dolce nocciola dei suoi occhi la stava contemplando, ma Alia non gli rivolse lo sguardo. «Prima o poi dovrai confidare a tua moglie I tuoi supplizi. E io sarò qui.»
Suo marito le baciò la mano che aveva tra le sue, poi la lasciò andare, sospirò e attraversò a lunghi passi la stanza. Un servo gli aprì la porta e lui uscì.
Alia stava ancora fissando lo specchio.
Raggiunse il marito in lieve ritardo, dopo aver stipato le sue angosce in un calice di vino speziato caldo. Non avrebbe mai mostrato ad alcuno i suoi sentimenti, men che meno al re, che non stimava molto.
La sala dei banchetti, pregna di fumo, odorava di arrosti e sudore di uomini già ubriachi. Storcendo il naso avanzò fino ai posti riservati ai reali di corte. Il sovrano, che ridacchiava alla battuta di un lord, era rosso in viso e si teneva la pancia da quanto le risa lo stavano soffocando.
La ignorò quand'ella si inchinò dinanzi a lui e alla regina; quest'ultima, invece, chinò con grazia il capo in segno di saluto. Non le piaceva nemmeno la regina, che trovava troppo giovane e avvezza ai piaceri della vita per governare accanto a un re, ma la apprezzava molto più del sovrano.
Almeno si poteva dire che fosse scaltra, gentile e dotata di una certa dose di saggezza. Inoltre Alia rispettava il suo dolore per la perdita del figlio e la partenza della figlia, ben sapendo cosa significasse l'amore per le proprie creature e l'angoscia che si poteva provare per loro.
La regina portava i lunghissimi capelli di fuoco sciolti sulle spalle, su un abito del medesimo, acceso, colore. Anche a lei, come a tutti, era stato negato il lutto. I pugni di Alia si serrarono, ma fu pronta a scioglierli stringendo I denti e sopportando.
Si sedette al suo posto, accanto al marito, che le rivolse un tiepido sorriso.
A differenza degli altri fratelli rimasti Emel era bellissimo, ma un alone di insofferenza lo accompagnava sempre. Al contrario il principe Sezan possedeva il carattere forte e scaltro della madre, ma privo della sua grazia. Non era bello, avendo lineamenti più simili al padre, con un naso importante e il viso squadrato all'esasperazione.
Di bell'aspetto era stato Lored, forse il più avvenente prima della morte di Endin, che doveva averlo segnato profondamente dato che da quel giorno la sua bellezza aveva iniziato a sfiorire. Gli occhi di ghiaccio erano velati di grigio, la folta capigliatura color del grano matura sembrava diradarsi. Il volto allungato, dai tratti morbidi, appariva scavato. A corte già girava voce che anche lui fosse stato colpito da una misteriosa malattia, ma Alia sapeva che era solo storie. Probabile invece che Lored soffrisse per Endin, anche se dal suo carattere egocentrico nessuno se lo sarebbe mai aspettato, non in tale misura.
Era forse Miseh, il più giovane, a somigliare più alla madre, con il volto morbido, i capelli rossi e gli occhi penetranti, ma i suoi modi di fare sconstanti non lo rendevano certo un principe cortese tanto quanto Emel.
No, era suo marito il più bello, Alia ne era certa e anche orgogliosa. Da sotto il tavolo gli sfiorò una gamba, sentendolo rispondere con una carezza.
Furono serviti arrosti, pasticci di carne, salse di verdure e dolci di ogni fattezza. Alia piluccò con grazia, come le era stato insegnato da bambina. Di sottecchi osservava Emel digiuno e avvolto dalla sua tristezza.
«Prima o poi dovrete dirmi cosa vi fa soffrire tanto. E non dite che è per Endin. Vedo che c'è altro a turbarvi. Oramai vi conosco, marito.» Alia sussurrò tra un boccone e l'altro, parlando con naturalezza per non farsi ascoltare.
«Se te lo dicessi non cambierebbe nulla. Anzi, oserei dire che peggiorerebbe la nostra situazione.»
«Quale situazione?» Emel aveva calcato bene su quella parola, come servisse a conferirle più importanza. «Mi sono concessa più volte, o sbaglio?»
Sentì la mano del marito premere sulla sua gamba: «Ti prego Alia, parliamone più tardi. Non ora.»
Alia sapeva di aver osato troppo, ma si infuocava al pensiero che lui la ritenesse una moglie che non faceva il proprio dovere. Perché lo faceva eccome, anche se controvoglia. Forse era quello il problema? Emel voleva che lei fingesse godimento come una delle sue intrattenitrici?
No, Alia sentiva che c'era di mezzo la politica per turbarlo tanto e temeva per la sua casa, la sua vera casa. Doveva saperne di più. Come sua moglie esigeva di venire al corrente di tutto, anche quando non la riguardava, se creare disagio in lui.
«Più tardi, avete promesso marito.»
«Sì, più tardi.» Emel deglutì, ma per la prima volta Alia lo vide addentare un pezzo di carne dalla sua ciotola e intingere un tozzo di pane bianco nella salsa verde. Stava fingendo per non destare sospetti? Qualcosa non stava andando per il verso giusto, ne era sicura.
Vennero serviti frutta e gli ultimi dolci. L'aria odorava di fumo, miele e birra. Nauseata, Alia sorseggiò del vino.
Non le era mai piaciuta la caotica e puzzolente corte reale. Preferiva di gran lunga la casa dei Taevon, meno lussuosa ma più profumata, calda e accogliente.
Ci sarebbe tornata prima o poi. Questo le piaceva fingere.
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