Capitolo 10
La stanza era piccola, ma l'oste aveva dichiarato fosse la migliore tra le cinque. Larica rimase immobile mentre le ancelle ispezionavano tutto, per accertarsi che fosse un luogo sicuro; accando a lei Donna Rubia sembrava soddisfatta. «Si sono impegnati, principessa, non è una brutta stanza.»
«Non è brutta, sì.» Dopo che il re aveva ottenuto con la violenza la loro entrata nel villaggio, Larica non aveva avuto più il coraggio di tenere la testa alta. Avanzando verso l'unico piccolo ostello, il suo sguardo era rimasto basso a osservare le sfumature bionde della criniera di Edna. Non aveva nemmeno guardato in faccia Ferdinand, quando l'aveva aiutata a scendere di sella in un elegante gesto da vero cavaliere. Aveva solo visto ser Muynn, accanto a loro, adomprarsi appena fissandoli.
«Dormirete in quel letto immagino. Cercherò di renderlo più comodo possibile.» Rubia la distolse dai suoi pensieri, ricordandole quanto si sentiva stanca. «Va bene così, balia. Mi sembra comodo.»
Sorvolò sul pavimento polveroso di assi sconnesse, andando verso il letto con il solo desiderio di stendersi e rimanere lì per molte ore. Era l'unico arredo, a parte una piccola cassa di legno ai piedi del letto.
Si stese, immaginando il caldo abbraccio delle sue pellicce e i suoi morbidi cuscini; invece non era altro che un umile pagliericcio, scomodo, umido e privo di cuscino. Dopo una giornata trascorsa in sella fu comunque un sollievo per il suo fondoschiena dolente.
Era abituata a lunghe cavalcate con Edna, ma si risolvevano sempre con un bel bagno caldo e con le ancelle che le massaggiavano le gambe con oli bollenti e profumati.
Quella volta indossava abiti meno confortevoli e il bagno non sarebbe stato come a casa sua nella sua enorme tinozza foderata di seta. Quanto le sarebbe piaciuto averla portata con sé, ma era un bagaglio davvero troppo pesante e insieme a molto altro avrebbe rallentato il loro viaggio.
«Vorrei fare un bagno» disse comunque a Donna Rubia.
«Provvedo subito, mia signora, anche se temo che l'acqua calda sarà un miraggio per qualche tempo.»
«Ci penseremo quando saremo giunti a Calanthia. Lì avrò ogni comodità, come si adegua al mio rango.»
La balia annuì, impartendo poi una serie di ordini alle ancelle. Larica rimase sola, stesa sul quel letto che quasi peggiorava la sua stanchezza. Eppure era consapevole di essere più afflitta per l'accaduto tra re Ferdinand e quei poveri popolani rispetto alle sue membra doloranti che in poche ore si sarebbero riprese.
Pensò al principe, alle sue mani sottili, una sulla sua mano, una sul suo fianco quando l'aveva accompagnata giù dalla sella facendole compiere un elegante balzo degno dei racconti che la sua balia le leggeva da bambina. Ferdinand era così simile ai quei cavalieri cortesi se non nell'aspetto fin troppo mansueto del suo volto.
Per quanto si sentisse ancora irritabile per quanto era successo, lasciò che le ancelle la strigliassero per bene. Le lavarono anche le lunghezze dei capelli, impolverate dal viaggio nonostante la protezione del velo. Si fece però mettere gli stessi abiti, dopo che l'ebbero profumata con un veloce massaggio per togliere gli ultimi residui di stanchezza dal suo corpo.
Non era ancora il tramonto quando bussarono alla porta. Donna Rubia aprì e si affrettò in un profondo inchino. «Vostra Altezza, non sapevo della vostra visita altrimenti mi sarei preparata ad accogliervi.»
«Nessun disturbo, signora. Ero solo venuto a vedere se la principessa era pronta per la cena. È mio desiderio accompagnarla.»
«Oh, certamente Altezza, quale onore sarà per la principessa! Vi prego solo di attendere un istante.» Larica la vide socchiudere la porta e rivolgersi poi a lei.
«Mia signora, il principe.» Si avvicinò con il volto in fiamme, facendosi aria con un lembo della sua veste. «Desidera accompagnarvi...»
«Sì, ho sentito.» Larica si alzò, lisciò la gonna dell'abito soffocando in fretta un'ondata di tristezza vedendo tutta quella stoffa nera.
«È venuto di persona, mia signora, non lo farebbe qualsiasi principe. Dovete esserne fiera.»
«Come quando mi diceste di non essere orgogliosa quando indossai i colori della mia casa misti a quelli dei Calan?»
Donna Rubia inspirò a fondo e i suoi seni pesanti si sollevarono rendendo il suo collo corto e tozzo. Anche lei indossava il nero, ma stoffe meno pesanti e una mantella meno preziosa. «Principessa, so bene quello che vi ho detto. Volevo che imparaste a ricordare qual è la vostra vera famiglia, dove sono le vostre origini. Ma ora è anche tempo di riconoscere che ben presto farete parte della casa Calan e dovrete fingere di esserne felice.»
«E se potessi non fingere? Se davvero ne fossi felice?» Larica sentì il cuore batterle forte nel petto.
«Sarei felice per voi, bambina.» Gli occhi di Donna Rubia luccicavano. «Ma è davvero così?»
Larica non le rispose; sapevano entrambe che era troppo presto per saperlo. Uscì con le ancelle al seguito, mentre la balia preferì per qualche strana ragione rimanere nella stanza, forse a riflettere sul loro scambio di parole.
Ferdinand aveva un aspetto se possibile ancora più stanco. I suoi occhi scuri erano arrossati, le labbra serie con un accenno di amarezza. Le porse una mano, salutandola con un cenno del capo. Larica prese quella mano, calda e sudata; il suo cuore ebbe un tuffo, perché la mente andò a quel momento, al ricordo ancora troppo fresco, in cui aveva stretto la dita tremante di suo fratello morente. Le sue però erano fredde come marmo.
«State bene principessa?» La voce dolce del principe la destò dall'angoscia di quel ricordo. Annuì a testa bassa, cercando di non mostrare i suoi sentimenti.
Ferdinand la condusse per mano lungo un corridoio stretto e poi giù per anguste scale di legno scricchiolante. Si chiese per quale motivo le desse la mano invece che il braccio come i nobiluomini erano soliti fare; fu quasi tentata di chiederglielo ma raggiunsero troppo in fretta la sala mensa dell'ostello e si vide costretta a rimandare la sua curiosità.
La sala non era ampia, giudicò Larica; anche se lei non essendo mai stata in un ostello non aveva idea di quanto spaziosi fossero la maggioranza di quei posti. Ospitava meno di una decina di tavolini e un tavolone montato su cavalletti nel mezzo. Quasi tutte le sedie e le panche erano occupate.
Gli uomini seduti mangiavano voracemente ridacchiando tra loro, squartando cosce di pollo dai taglieri ricolmi e avventandosi persino sulle forme di pane nero tagliate a metà e scavate che sarebbero dovute servire a raccogliere salse e zuppe.
Per quanto povera fosse la gente del villaggio, Larica fu quasi commossa notando tutto il cibo che erano riusciti a togliere dalle proprie dispense pur di sfamarli tutti e non incorrere all'ira di re Ferdinand.
Quest'ultimo sedeva impettito a capotavola nel lato destro del lungo tavolone. L'altro capo era vuoto, forse destinato al figlio.
L'altro principe invece lo individuò al lato opposto del tavolo rispetto a lei e tracannava birra incitato dai cavalieri che gli stavano attorno.
Ferdinand fece un cenno di saluto al padre, ignorò il fratello e senza lasciarle andare la mano la accompagnò a sedersi.
La fece accomodare al posto vuoto a capotavola e lui sedetta accanto sulla destra.
Gli rivolse un sorriso di gratitudine; anche se in quella posizione si sentiva un po' troppo al centro dell'attenzione, almeno non era costretta a sedere accanto a cavalieri sudici ed esaltati dalla birra.
Dal suo sguardo capì che Ferdinand pensava alla stessa cosa, perché rispose al suo sorriso guardandosi attorno e scuotendo lievemente il capo. «A Calanthia non è così, non temere.»
«Temo invece di esserne abituata, principe. Anche se non siedo mai così vicina ai cavalieri di mio padre, nondimeno li vedo come mangiano e ridono e scherzano.»
Le labbra di Ferdinand si strinsero in un mezzo sorriso: «A Calanthia tendiamo ad essere più educati, mia signora. La differenza è che anche se gli uomini sono gli stessi, qui non siamo a Calanthia.»
«Osate affermare che siano questi luoghi a ubriacare i vostri uomini?» Larica si sentì piccata da quelle parole. Si chiese se tra loro sarebbe sempre stato così da quel momento in poi; un continuo rimarcare le differenze tra le loro terre e i loro popoli.
«Loro non sono i miei uomini» precisò Ferdinand. Larica allora sentì la fiammella dentro sé consumarsi appena. Lanciò uno sguardo al re; era così freddo e composto che pareva impossibile fosse lui a dare il cattivo esempio ai suoi sottoposti. «E i vostri uomini dove sono?»
Ferdinand parve d'un tratto rabbuiarsi; il suo bel viso si rattristò, lo sguardo si abbassò sulla sua porzione di carne che non aveva ancora toccato. «In guerra. I miei cavalieri sono in guerra.»
Larica trasalì a quella rivelazione. Calanthia era in guerra? Non aveva idea che il luogo dove fossero diretti stesse attraversando un periodo tanto buio. «Guerra?»
Il principe immaginò i suoi timori, perché le rimandò un tiepido sorriso: «Non nella città di Calanthia, lì è sicuro.»
«Perdonate, non volevo apparire curiosa.» Sapeva che le donne non dovevano esserlo, come non dovevano chiedere al proprio signore delle faccende politiche. Anche se Ferdinand non era ancora il suo signore, Larica immaginò fosse più conveniente mettere a tacere quell'argomento. «Non mangiate?»
Lui sembrò distrarsi per un attimo dalla sua tristezza: «Mangio, sì.»
«Sul serio? A me non sembrate mangiare molto.»
«Invece mangio, principessa» rispose punto sul vivo, «quel che mi serve.»
Non ne era molto convinta ma non replicò; non le sembrava conveniente infastidirlo.
Si dedicò al suo pasto, in completo silenzio.
Allora ebbe modo di ripensare agli ultimi accadimenti; il primo incontro con Ferdinand, la malattia di Endin, la sua morte, il funerale, la partenza. E poi, dopo tutto il dolore passato in pochi giorni finalmente qualcosa di bello con la piacevole conoscenza di ser Muynn. Poi l'orrore al loro arrivo al villaggio, dove aveva avuto la conferma che il re era una persona mostruosa.
Addentando un pezzo di formaggio le tornò in mente l'immagine del ragazzo a terra e della frusta del re che colpiva il suo corpo; serrò gli occhi tentando di liberarsi dagli schizzi di sangue che riempivano il suo campo visivo.
Intanto, si accorse, il principe aveva spezzato il silenzio, rivolgendosi a lei in tono calmo, ma le sue parole le arrivavano ovattate, distanti.
Cominciò a provare una sgradevole, come di rabbia mista a una forte angoscia, paura e sdegna, fervore e codardia; sembrava che da un momento all'altro dovesse fuggire per nascondersi da qualcosa e allo stesso tempo uscire allo scoperto e sfogare una collera talmente grande da non sapere se sarebbe riuscita a reggerla.
Il suo iniziale smarrimento, che presto divenne panico, dovette riflettersi sul suo sguardo, perché Ferdinand si accigliò: «Principessa, tutto bene?»
«Sì, tutto bene» farfugliò iniziando a sentire il respiro mancarle. Si alzò, capendo di dover uscire subito da quel posto, per non farsi vedere e nella speranza che un po' d'aria potesse giovarle. «Con permesso, avrei bisogno di assentarmi.»
Non riuscì a dire altro; tanto, pensò, a parte Ferdinand erano tutti impegnati a mangiare. Escluso forse anche il re, ma quel particolare lo allontanò subito dalla sua mente.
Ferdinand sembrò volerla seguire o accompagnare, ma Larica scosse la testa mentre il fiato usciva velocemente dai suoi polmoni. Corse fuori dall'ostello, non trovando per sua fortuna nulla e nessuna a intralciarle il cammino.
Fuori l'aria fresca, che aveva sperato l'avrebbe schiarita dai suoi pensieri e liberata da quell'improvviso malore, le bloccò ancor più il respiro. In ginocchio, appena fuori dalla porta, si prese la gola.
I suoi occhi si appannarono, mentre annaspava terrorizzata. "Sto morendo? Non voglio, non voglio morire." Larica mise le mani a terra, un grido le uscì in un gesto involontario.
Di colpo il panico passò. La rabbia prese il posto d'onore nelle sue sensazione e cominciò a sentirsi invadere da un fuoco interno, potente e distruttivo. Rabbia e odio verso suo padre, che l'aveva venduta a degli estranei che l'avrebbero solo usata; rabbia verso sua madre che era rimasta a guardare; rabbia verso Endin, che l'aveva abbandonata proprio quando aveva più bisogno; odio verso quel mostro di re Ferdinand, rabbia causata anche dal principe, che l'aveva accettata come fidanzata costringendola ad allontanarsi dalla sua casa, dalla vita che conosceva e aveva imparato ad accettare.
Una forte, straziante, rabbia cresceva dentro di lei, che ansimava tentando di calmarsi, ma era come se non potesse prendere il controllo sui suoi sentimenti, sulle sue sensazioni; come se dentro di lui vi fosse qualcos'altro che comandava quell'istinto.
I suoi occhi non vedevano più altro che buio e sangue rosso vivo, che avevano nascosto l'erba, la terra, la luna nel cielo e le stelle. Fu allora che avvertì sempre più forte la familiare e orribile percezione di essere divisa dal suo corpo; rabbia e confusione la dominavano, e quella piccola parte di lei rimasta a guardare piangeva e urlava di terrore.
Era da molto che non le accadeva, soprattutto in un modo tanto sconvolgente. Si chinò per rigettare la cena, ma le gambe crollarono e finì ad affondare nella melma causata dall'ultima pioggia. Pensò di non essersi nemmeno resa conto di essersi rialzata prima di crollare; quel pensiero la spaventò. Non si rendeva più conto di quello che faceva?
Per lunghi istanti rimase immobile, le mani strette a pugno tra erba e fango, in preda alle sue sensazioni. Come ogni volta che le accadeva gli occhi aveva cominciato a bruciare, ma non di un bruciore doloroso; somigliava più a un forte calore che le infondeva un senso di forza nella vista.
Le veniva da spalancare gli occhi e guardare tutto ciò che aveva attorno, come se in quel modo potesse vedere meglio. Invece era tutto rosso e nero, sangue e tenebra.
Vomitò di nuovo e dopo quell'ultimo atto liberatorio si sentì meglio. In poco tempo tutto passò, tranne il bollore che continuava ad avvertire negli occhi. Attese che il suo respiro si calmasse e che i suoi pensieri tornassero lucidi, almeno in parte.
Poi si alzò, si ripulì le mani dalla melma sui vestiti e rientrò nell'ostello; all'improvviso sapeva di dover trovare qualcosa per poter specchiarsi. Oltrepassò il tavolo dove tutti erano seduti, tenendo gli occhi bassi ed evitando lo sguardo del principe.
Vide un vaso di vetro accanto al bancone; era sporco e vecchio, ma questo non le importava. Il proprietario la vide: «Avete bisogno di qualcosa?»
«Sì, questo vaso.»
L'uomo parve sbigottito: «Non è in vendita.»
«È un oggetto prezioso?»
«Cosa? No...»
«Allora datemelo.» Larica seppe di averlo guardato con una smisurata dose di cattiveria, ma una parte di lei non ne era del tutto consapevole. Era come se fosse un'altra persona, in quei momenti, per quanto avesse pensato di aver ripreso il controllo di sé. "Mi sbagliavo. Questa non sono io."
Il taverniere annuì frettoloso e si accinse a prendere il vaso e a porgerglielo. Larica gli lasciò sul bancone una moneta di rame, e lui rimase ancora più sbalordito di prima.
Non fu difficile rompere il vaso; si coprì una mano a pugno con l'orlo del mantello e lo colpì con forza. Tenne solo un pezzo, quello che le pareva più grande e meno opaco.
Gli altri li eliminò gettandoli dalla finestra, avanzando tra gli sguardi stupiti della gente che mangiava ai tavoli e immaginando che anche il re stesse guardando; anche il suo fidanzato forse, ma a questo non voleva pensarci.
Con il cuore che batteva forte, Larica si specchiò nel pezzo di vetro. Tra il verde marcio della muffa e i riflessi trasparenti, vide ciò che temeva. La sua pelle era sbiancata, più pallida della neve. Ai lati degli occhi era solcata da striature scure, come se nelle sue vene scorresse veleno.
E quegli occhi, i suoi occhi non erano più i suoi; iniettati di sangue, privi dell'avorio ai lati e al centro le iridi rosse, rosse come le fiamme più vivide di un fuoco.
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