Capitolo 1
La candida giumenta della principessa trottava tranquilla per le viuzze della città bassa, con la sua movenza elegante e la graziosa criniera che danzava nell'aria.
Ogni volta che il vento passava la creatura emetteva uno sbuffo che condensava in piccole nuvole di vapore. Larica le osservava salire per un poco e poi dissolversi. Era ciò che avrebbe voluto fare lei; andarsene così dolcemente da quel luogo freddo e ostile, per poi volare serena verso un luogo dove ghiaccio e neve non potevano toccarla, non tanto nella pelle e nelle ossa quanto nel cuore.
Negli angoli della città vedeva la gente indaffarata a portare ceste piene di stracci fino alla fontana della piazza per fare il bucato; altri vendevano la loro merce in piccoli banchi ai lati della strada, ricolmi di qualsiasi cosa, da tessuti, anche pregiati, alle spezie, da pugnali e coltelli a collane fatte di strani oggetti come ciondoli di fili d'oro, e altri più poveri intrecciati con paglia, fibre di legno e lana e poi incollati con le resine degli alberi.
Tra i vicoli un gruppetto di bambini vestiti di stracci si rincorrevano, aizzandosi contro delle finte spade di legno; mentre lei passava i bambini tentarono di attraversare la via finendo quasi sotto gli zoccoli della giumenta. «Edna, va piano.» Larica strattonò le redini e la portò al passo.
Procedettero più lentamente fino ai cancelli che separavano la città bassa dalle abitazioni dei signori. Lì la differenza era palpabile, oltre che ben visibile. L'atmosfera vivace, satura delle grida giocose dei bambini, dei rumori del lavoro e delle chiacchiere delle donne che insieme facevano il bucato alla fontana pubblica, aveva d'improvviso lasciato il posto alla calma piatta e serena del benestare.
La ricchezza spingeva la gente a chiudersi nelle loro belle case, isolandosi da quella che era la vita quotidiana della maggior parte della popolazione, che loro temevano profondamente, e per cui provavano disprezzo.
L'enorme differenza sociale si notava parecchio dalle case in pietra e marmo candido, con le colonne, grandi portici, le terrazze e legni pregiati che lei sapeva essere adoperati per la costruzione del mobilio, scarso e costoso; mentre la gente comune, per lo più molto povera, utilizzava paglia, legno scadente che col tempo, privo di alcuna vera manutenzione, marciva e crollava, e talvolta addirittura fango impastato con i loro stessi escrementi, cosicché l'odore impregnava ormai tutta la capitale.
Diverse erano anche le strade, più larghe, provviste di grandi spiazzi dove spesso i mercanti più abbienti vendevano la merce migliore; erano anche meno sporche, nonostante i liquami venissero gettati in strada ogni mattina, ma almeno erano stati scavati dei solchi profondi perché scorressero solo ai lati.
Le case dei ricchi erano poi molto diverse anche dal castello, che a differenza di quelle abitazioni di costosi marmi provenienti dalle terre straniere non sfoggiava invece alcun decoro né segno di ricchezza. A decantarne l'importanza erano invece le austere fattezze delle torri, alte ma dalla pianta larga e forte. Ogni singola parte dell'esterno era fatta in pietra grigia, ardesia e legno grezzo. Allo stesso tempo però il castello era un'immensa struttura che ridicolizzava gli assurdi sprechi di denaro dei nobili e puntava più sulla protezione della famiglia reale che sulla bellezza della casa.
Larica attraversò il ponte levatoio sentendosi come sempre schiacciata da tanta maestosità. La fortezza dei Lavin incuteva timore a chiunque la vedesse anche solo da lontano. Sedici anni non bastavano ad abituarsi a tanta grandezza, che di certo la spaventava più del lusso, inutile sfoggio di vanità e di un potere tanto labile quanto pericoloso.
La sua casa le metteva soggezione, nondimeno infondeva anche in lei un indomito coraggio e senso di protezione. Una volta entrata, Larica era al suo posto, poco importava che fosse un immenso, grigio castello. Non era l'abitazione il problema della sua esistenza, bensì il fatto che molto presto sarebbe stata costretta a lasciarla.
Accompagnò Edna nelle scuderie, le diede da mangiare come faceva sempre, poi la affidò alle cure di uno stalliere perché la strigliasse per bene, e lei tornò sui suoi passi; percorse tutto il cortile e raggiunse il mastio, l'enorme e squadrata torre centrale che faceva da vera abitazione alla famiglia Lavin.
Entrò dall'unica porta, custodita da due guardie che la lasciarono passare senza indugio e salì le scale a chiocciola di corsa. Non le serviva guardare gli scalini per non inciampare; aveva percorso quel tragitto tante di quelle volte che nemmeno il castellano Thomard Vill o suo fratello, il siniscalco Fenimore, potevano batterla in numero.
Larica non era una fanciulla buona solo a stare ferma sulla sua poltrona a ricamare; a lei piaceva uscire, osservare il cielo anche se grigio, e talvolta quando poteva anche le stelle; e cavalcare sulla sua Edna, correre sui prati ricoperti di neve, percorrere tutta la città bassa e guardare la gente nelle faccende quotidiane.
Era consapevole di avere ancora poco tempo a disposizione per godersi le poche libertà che si era costruita, perciò voleva godersi tutto finché le era concesso. Non si sarebbe chiusa nelle sue stanze a piangere, come tutte le altre lady, in attesa che il suo destino fosse compiuto.
Giunta alle sue stanze si cambiò d'abito, con l'aiuto delle sue dame. Sostituì le brache di lana che utilizzava per cavalcare, all'insaputa della sua severa balia, con una lunga veste di velluto verde scuro con maniche ampie a losanga e ricami argentati, pizzi, merletti e inserti di satin viola.
Si fece aiutare dalle sue ancelle ad acconciare i lunghi capelli biondi. Le infilarono perle tra le trecce, le misero i suoi più bei gioielli e la sua coroncina d'argento. Per ultimi Larica cambiò gli stivali di cuoio e pelliccia con morbide pantofole di velluto verde.
Era pronta. Non voleva ammetterlo, ma sapeva bene cosa stava per accadere. Durante quel pranzo suo padre il re l'avrebbe presentata al suo futuro marito. Anche se non era stata immobile ad aspettare, infine il destino stava comunque venendo a prenderla.
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