Il primo abbraccio
Nei mesi che seguirono tornai a vivere una vita sola, quella con te.
Degli altri non me ne fregava più niente.
Dopo la reazione di mio padre e mia madre, avevo tirato su uno scudo bello grosso per le batoste, quindi ero pronto a tutto. Qualsiasi cosa mi avessero potuto dire, qualsiasi sguardo avessero potuto lanciarmi, qualsiasi bisbiglio avessi potuto percepire, mi sarebbe venuto addosso andando a colpire solo la mia corazza, che, giorno dopo giorno, tu contribuivi a rafforzare.
Continuai a sentire solo mia sorella, che mi teneva aggiornato sulla gravidanza e sui preparativi di un matrimonio che né lei né Giuseppe avrebbero voluto, non in quel momento almeno.
In ogni telefonata mi chiedeva di presentarmi quel giorno: mi voleva al suo fianco, diceva; non avrebbe avuto la forza di affrontare mamma e papà da sola, diceva.
E me lo disse così tante volte che alla fine cedetti: le promisi che ci sarei stato, ma che ti avrei portato con me.
Lei ne fu felice, davvero, e disse che non mi avrebbe voluto senza di te. Disse che non vedeva l'ora di incontrarti, di conoscerti, e che una volta che ti avesse incastrato, non ti saresti più liberato di lei.
Ancora rido se penso alle sue parole. Ricordo che, quando te le ho riferite, hai riso anche tu e che non ti sei sentito minacciato, ma accolto.
Io forse, al posto tuo, sarei scappato a gambe levate. Ma ormai lo sappiamo: io sono quello cacasotto, mentre tu sei quello spontaneo.
Così arrivò il fatidico giorno in cui mia sorella si sposava e io ti avrei presentato al mondo, il mio mondo, quello dal quale venivo.
Arrivammo sotto casa, vestiti di tutto punto: tu eri bellissimo! Lo sei sempre stato, ma quell'abito blu scuro metteva in risalto... Beh, tutto di te! L'altezza, le spalle, il bacino, il colore degli occhi. Ero fiero di te e del fatto che fossi al mio fianco in un momento così difficile per me.
Non volevo salire, non me la sentivo, e tu mi dicesti che non ero obbligato a farlo.
Mandai un messaggio a Giuditta per avvertirla che eravamo arrivati, ma che non saremmo saliti. Lei mi rispose che sarebbero scesi a momenti, così da farmi capire a cosa stessi andando incontro.
Dopo una decina di minuti la vidi uscire dal portone: non aveva voluto fare le cose in grande, non c'erano addobbi floreali, non c'erano parenti e amici ad attenderla, non c'erano fotografi che la costringevano a stare in posa. Aveva acconsentito a quella follia, ma l'avrebbe fatto a modo suo.
Indossava un abito corto fino al ginocchio, stile impero ― mi spiegò poi ―, color panna; aveva raccolto i capelli in una treccia che le cadeva sulla schiena e tra le mani portava un mazzolino di margherite.
Aggiungi il fatto che al quinto mese la sua pancia era leggermente prominente, e hai l'immagine della felicità fatta persona.
Era raggiante e il suo sorriso diventò ancora più grande quando mi vide.
Le corsi incontro e l'abbracciai: «Sei bellissima!»
«Sono una balena!» si lamentò lei.
«Adesso? Io aspetterei a dirlo!» Scoppiammo a ridere come due cretini.
Poi sbucasti dalle mie spalle e si accorse di te: «Ciao! Sono felice che tu sia qui!» Non dimenticherò mai le sue parole.
Stavo per presentarti a lei, ma la vista di mia madre e mio padre che varcavano la soglia del palazzo mi bloccò.
Quattro mesi. Erano passati quattro mesi e non erano tornati sui loro passi.
Ok, nemmeno io. Ma io ero nel giusto!
Non ci eravamo più sentiti, non sapevano dove vivessi, non sapevano se e quando tornavo in città, non sapevano che avevo trovato un lavoro per mantenermi fuori. Se fosse stato possibile, probabilmente mi conoscevano ancora meno di quattro mesi prima.
Ma, a pensarci bene, forse di me sapevano l'unica cosa che importava veramente.
Giuditta spostò lo sguardo da noi a loro e poi di nuovo a noi. Non sapeva cosa dire, se parlare.
Io rimasi fermo sul mio posto. No, anzi, ricordo che una cosa la feci: ti presi per mano.
Ti sentii trattenere il fiato, perché da me non te lo aspettavi ― io sono quello cacasotto, mentre tu sei quello spontaneo ― e forse non fosti l'unico, perché vidi il petto di mio padre gonfiarsi.
Solo ora, dopo tutto questo tempo, ho capito che quello che gli gonfiò il petto quel giorno fu l'orgoglio.
Mio padre si avvicinò a me, fissò i suoi occhi stanchi nei miei, e mi abbracciò. Mi strinse così forte che per un po' smisi di respirare. Eravamo entrambi scossi dai singhiozzi delle lacrime, ma io riuscii a fare di peggio quando sentii la carezza di mia madre sui capelli e la vidi piangere silenziosamente accanto a me.
La strinsi forte, allungando il braccio, senza abbandonare ― non l'avrei fatto mai più ― mio padre.
Restammo così, per non so quanto tempo, finché non ci calmammo.
Quando risollevai lo sguardo su di loro, sorridevano, i volti ancora segnati dalle lacrime, ma stavano sorridendo a loro figlio.
Mi voltai verso di te e ti chiesi con lo sguardo di avvicinarti; ti presi di nuovo per mano e mi rivolsi ai miei genitori, che dopo quattro mesi avevano finalmente capito chi fossi. «Mamma, papà, lui è Luca».
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Salve, cari lettori!
Grazie per aver letto questa storia breve, nata per un concorso e cresciuta piena di sentimenti, di gioia e dolore, insieme a voi.
Aggiungo giusto due righe per informarvi che ho iscritto questa storia al "Concorso Plump Words 2019 || We Are Again The Spam - #CPWU19 ||" di @SentencesPower , @Primrose_Lovegood e @masvherata .
Una piccola aggiunta a questo spazio autrice, per avvisarvi che ho iscritto questa storia al "Concorso #Room2019" di @Carmen_Caratozzolo in "𝕃𝕒 𝕤𝕥𝕠𝕣𝕚𝕒 𝕡𝕚𝕦̀ 𝕖𝕞𝕠𝕫𝕚𝕠𝕟𝕒𝕟𝕥𝕖".
Incrociate le dita per me! ^_^
Un abbraccio!
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