La prigione delle ombre

Bero fece roteare la bevanda nel suo calice di cristallo. Tenebra liquida che sapeva di brina invernale, miele e cenere e aveva il retrogusto di ruggine del sangue. 

Bevve un lungo sorso e si chiese se Eira sentisse quello stesso sapore quando lo baciava. All'inizio era convinto che se avesse avuto anche soltanto un briciolo di libero arbitrio non avrebbe scelto di condividere il resto della sua esistenza con qualcuno come lei, ma le unioni di sangue nobile venivano decise dal Thoradh, il Consiglio dell'Equilibrio. 

Era stata una sorta di esperimento. Le loro terre si erano allineate, fluttuando nella stessa gravità, e arenandosi si erano ritrovate confinanti. Non era mai accaduto che un dominio di Luce ne sfiorasse uno di Tenebra e viceversa. Per il Consiglio significava cambiamento. Volevano osservare, e capire che cosa sarebbe accaduto provando a sovvertire le Antiche Regole. 

Bero non era fatto per cambiare le tradizioni. Quell'imposizione non gli era andata a genio, eppure Eira era riuscita a farsi strada nel suo animo freddo e calcolatore.

Eira, che pensava sarebbe stata un paio di catene, si era dimostrata un tocco risanante, una ventata d'aria fresca nel calore rabbioso del suo malumore. 

«Il vostro cuore si è addensato di preoccupazioni». Corvo, il suo consigliere - un dono dei suoi antenati -, ruppe il silenzio che era sceso nella stanza. 

«Ne avrei di meno se dovessi pensare solo a me stesso, ma si suppone che un re pensi anche...» scacciò una scia di nebbia con la mano. «A tutto il resto» completò di scatto, posando il calice sul bracciolo della poltrona. 

Aveva perso la sua sicurezza. Il Consiglio lo pressava con i nuovi obblighi da sovrano da un lato, dall'altro si sentiva le ginocchia molli. Era certo che Eira si sarebbe stancata di lui, eppure voleva essere il meglio per lei e si costringeva ad avere i modi affettuosi che si scambiavano nelle corti lucenti.

«Amore e perdita si tengono per mano, più cose amate più ne avrete da perdere. Ma non è forse questa la forza del mondo?»

Bero sbatté le palpebre, come se si stesse svegliando da un sogno. «La paura rende deboli» gli rispose stanco, eppure non riusciva a smettere di provarne.

«La paura vi renderà più perspicace». 

Sospirò. «Dimmi... A che cosa dovrei porre maggiormente attenzione?». 

«A volte le domande sono complicate e le risposte sono semplici».

«Cosa intendi?». I polpastrelli affondarono nel velluto. 

«Intendo, mio signore» si schiarì quella sua voce gracchiante: «Che le scelte che farete saranno vostre. Potranno anche decidere il vostro ruolo, re, marito di Eira Latha, signore di Wynt e Latha, ma le vostre azioni sono solo vostre e non dovreste dare troppo peso a ciò che non potete controllare, lasciatelo fluire, lasciatelo semplicemente accadere».

Bero si rilassò, appoggiando le spalle allo schienale. «Non potrò mai fare a meno della vostra saggezza».

Corvo fece un cenno col capo prima di tramutarsi in un volatile d'ombra. 


Rise nel suo orecchio, le labbra così vicine alla sua pelle. La sfiorarono delicatamente come per sussurrare un segreto. Bero sorrise e le tracciò con la punta del naso una linea sul collo, respirando il suo odore. Cambiava sempre, questa volta era calicantus. Le sue dita si ancorarono ai suoi fianchi ed Eira rabbrividì. 

«Hai sempre le mani così fredde?». Riusciva a sentire il gelo della sua pelle anche attraverso i vestititi, era sempre così. Per un qualche assurdo motivo non le faceva male, lo trovava confortante.

Le diede un leggero bacio sulla guancia. In lei tutto era così luminoso che era impossibile non scorgerla camminare per i corridoi bui del suo palazzo. Era fatta di schegge di luce che si rincorrevano fra loro. «E tu sei sempre così calda?». 

L'aveva cercata dappertutto, prima che Corvo lo avvisasse di averla vista aggirarsi tra le sue, ormai le loro, biblioteche personali.

Sul tavolino in ferro, accanto a un piatto di biscotti al ghiaccio, era posata una pergamena con inciso un simbolo. Bero allungò lo sguardo in quella direzione, mentre il suo corpo bloccava quello di Eira contro il mobile. 

«Ti ho disturbata?». 

Lei diede con le dita un pigro colpetto alla carta che si arrotolò su sé stessa. 

«Ah-ah. Non si sbircia. È una sorpresa per te». 

Gli sorrise. Bero non l'aveva mai vista di cattivo umore, non le aveva mai chiesto se anche lei si sentisse soffocare dagli obblighi e dalle aspettative che confidavano in loro, ma tutto quello che riuscì a dirle fu: «Hai mai avuto paura di me?». 

Eira s'accigliò ma le sue braccia scattarono e le sue mani si ritrovano premute contro la schiena della sua giacca nera. Quello fu tutto ciò di cui aveva bisogno, affetto che riempiva l'assenza.

Aveva così tanta paura di perderla... Insieme a lei si sentiva più forte, essere in due cambiava ogni prospettiva.

Le posò la fronte sulla sua, stringendola, e si sentì fortunato. «Tengo così tanto a te». Fu semplice e lei semplicemente arrossì.


Il loro castello al centro dei due regni era quasi terminato, ma Bero non aveva tutta questa volontà di lasciare il suo.

Quando Eira andava a trovarlo le piaceva passare il tempo nelle biblioteche; stava costruendo una serra per vedere se alcuni frutti del suo regno riuscivano a crescere anche lì. Era sempre più interessata al regno di tenebra che si era unito al suo, e Bero avrebbe voluto essere contagiato da quella curiosità, ma per lui era difficile.

Conosceva i limiti. Se avesse preso in moglie qualcuna della sua stessa natura non ne avrebbe avuti, ma con Eira doveva stare attento. Poteva congelarla e lei, invece, poteva bruciarlo.

L'aveva sempre trattata come un essere fragile, spaventato dalla paura di farle del male. Pensava che lei si sentisse allo stesso modo.

Per questo non si accorse del suo segreto e scacciò chiunque provasse a metterlo in guardia. 

Eira stava praticando arti proibite e se ne rese conto troppo tardi, quando un pugnale dall'elsa ricoperta di rune velenose gli era stato piantato nel petto.

La mano esitava, ma nei suoi occhi scintillanti non c'era traccia d'amore.

«Il Thoradh non lo permetterà» sussurrò dolorante.

«Sei uno sciocco, era tutto un inganno» rise lei, sembrandogli una sconosciuta.

L'aveva perduta? O forse, comprese, non era mai stata sua. Era soltanto una bugia a cui aveva creduto. Un'illusione. La luce non avrebbe mai amato la tenebra.

Bero si strofinò le dita sul petto, quando ricordava la ferita doleva ancora. Era come se potessero affondare all'interno della sua carne per scomparire nel nulla.

Il dolore era sordo e cieco. Non ascoltava le sue suppliche di fermarsi, non sentiva le sue palpebre bruciare, non vedeva le impronte di lacrime d'ossidiana che gli erano rimaste appiccicate alle guance.

La rabbia gli montò sulle spalle, la gravità lo costrinse a inginocchiarsi. Il suo cuore sussultò e un grido che avrebbe potuto crepare le mura della sua dimora fu sigillato dalla sua bocca.

Tremava e andava a fuoco, ma non era piacevole, erano fiamme divoratrici capaci soltanto di ridurti in cenere. Voleva che tutto finisse, ma ancor più si scopriva a desiderare che Eira ponesse fine a quel dolore dicendogli che era soltanto un incubo. Ma come poteva fermarlo se era stata lei la causa scatenante?

Si maledì per non essere stato davvero attento.

Si ritrovò a pregare il tempo. 

Torna indietro, torna...

Si concentrò sui suoi stessi respiri, cullandoli come onde di mare, sulla freddezza reale delle tenebre che gli strisciavano accanto. Il dolore continuava a schiacciarlo, ma il fuoco si congelò.

Alzò lo sguardo e fissò il suo volto nello specchio alla parete. Si sentì svuotato. Lui e il suo riflesso sembravano due astemi pronti a brindare, a cosa ancora non lo sapeva, ma era certo che prima o poi si sarebbe ripreso il suo potere.

Dietro di lui, nel cielo che una volta era una tela completamente nera, c'erano numerose gemme a illuminare la notte. I baci che le aveva promesso e che non le avrebbe più dato.

Un grande occhio dorato emanava la sua aura a ricordare che adesso la corona apparteneva soltanto a una regina. Una regina di Luce.

Le ombre erano imprigionate dalla magia dell'incanto e dall'indebolimento del potere del loro re. Non era più dato a nessuna di loro il permesso di camminare, o di anche soltanto guardare la Luce, tanto che potevano apparire solamente oltre il confine di un qualsiasi corpo colpito dalla sfera dorata della magia di Eira, inchiodate per sempre a piccole porzioni di mondo.

Ma Bero giurò a sé stesso che avrebbe imparato dai suoi errori, non si sarebbe più lasciato prendere in giro, avrebbe dato ascolto al suo istinto e spezzato quella maledizione.

Nel tempo si narrò che il simbolo del gioco di Eira, conosciuto come Luna, si facesse ciclicamente più piccolo e una notte al mese sparisse, inghiottito dalle tenebre. Quella è la notte di Bero, la notte che rammenta a tutti che in un cuore infranto e soggiogato ci può essere ancora forza. La forza per essere ancora sé stessi, liberi da qualunque prigione.

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