Capitolo 4. fiorellinosbocciato E spechiodellanima

Mentre entravamo nella classe del pon per la certificazione di inglese, iniziai a sentirmi molto strana, udivo voci familiari, pianti, urla; ovviamente non capivo che stesse succedendo in quel momento. Fu dopo che realizzai: le sagome delle persone dentro la classe stavano completamente mutando, non le riconoscevo, sembravano dissolversi nell'aria. Io continuavo a guardare la scena, ma non comprendevo il motivo di ciò che stava accadendo in quella classe.

La professoressa adesso indossava la tonaca e la parrucca che il giudice indossava il giorno dell'udienza di mio padre. I ragazzi mutavano nella corte. I due fidanzati che frequentavano il corso - in quel momento stavano litigando - mutarono in mio padre e mia madre. Kayla anche era mutata: era l'avvocatessa che difendeva mio padre, Kevin era l'avvocato di mia madre, giovane e affascinante.

Mi rividi bambina, quando assistetti alla sentenza contro mio padre. Io ero seduta tra i banchi, guardavo il pavimento, perché guardare mio padre in faccia mi infastidiva a tal punto da farmi venire da vomitare.

Siamo venuti troppo tardi in tribunale, la mamma non aveva più i graffi delle percosse che aveva subìto da mio padre circa due settimane fa'. Pensavo sempre nei momenti bui del processo. La tristezza mi attanagliava. Piangevo sempre. La sofferenza però, in quel momento, si era trasformata in una sete di vendetta, che sarebbe stata colmata dopo poco grazie alla sentenza definitiva nei confronti di mio padre.

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Eravamo in cucina, io ero di fronte a mia madre, mio padre a capotavola. Poco prima lui aveva detto alla mamma di volere un po' di zuppa dato che fuori faceva molto freddo, ma mia madre per tutta la mattina aveva preparato una semplice pasta con le verdure che coltivava suo padre in campagna. Mio padre, quando non vide la zuppa, chiese spiegazioni. <<Dov'è la zuppa che ti avevo chiesto? Non sei buona proprio a niente, eh?>>

<<Tu me l'hai chiesta dieci minuti fa' la zuppa, quando ormai la pasta era pronta. Dovevo solo riscaldarla. Me lo dovevi dire stamattina che volevi la zuppa, che te la facevo volentieri, ma ora certo non mi rimetto a cucinare solo per te una misera zuppa quando puoi avere le buone verdure di mio padre>>.

<<Giochi con il fuoco, eh!>> le disse. <<Ora giochiamo insieme>>. Si alzò dalla sedia, prese il piatto e lo scaraventò sul viso di mia madre. Alcune schegge piccolissime le rimasero attaccate al viso. La mamma cadde dalla sedia e mio padre, invece di aiutarla e chiederle scusa, iniziò a colpirla con calci fortissimi allo stomaco, ripetutamente: quel ritmo con cui la colpiva ce l'ho ancora in testa.
La prese dal pavimento per i capelli e la trascinò per le scale, la fece alzare e gliele fece salire a volte spingendola, a volte dandole calci e pugni. La condusse verso la loro camera e la sbatté sul letto. Iniziò a violentarla: lo capii dal fatto che mia madre piangeva e lui invece faceva versi strani tipo grugniti. Lei urlava, mi diceva di chiudermi a chiave nella mia stanzetta, sapendo che poi sarebbe toccato anche a me, ma io non avevo paura. Alla sua cintura ero abituata. Non piangevo mai quando mi colpiva, né urlavo. Tenevo tutto per me. Piangevo dopo e non per il dolore, ma per il fatto che non capivo il senso di tutto quello che ci faceva subire.

Mio padre violentò mia madre senza porsi il problema che io avrei potuto essere lì a guardarlo, mentre lo faceva. Lo udii, ancora seduta sulla mia sediolina, dire : <<Quando sarai maritata succederà anche a te>>. Continuava a far del male a mia mamma che mi supplicava di chiudermi in camera. All'improvviso urlò, capii che per lei era finito. Ora toccava a me. Mi venne a prendere e mi portò in camera mia, mi fece piegare sul letto e mi disse: <<Dici anche solo una parola di quello che hai visto oggi a qualcuno, e io ti ammazzo. Chiaro?>> Lui non sapeva che ogni volta che maltrattava me e la mamma io andavo a confessarmi e dicevo tutto a padre Thomas, nostro vicino di casa, anche se lo supplicavo sempre di non chiamare la polizia.

Si slacciò la cinghia dai pantaloni e la fece schioccare dopo aver creato una sorta di cappio nelle sue due mani molto muscolose. Ed iniziò a colpirmi ripetutamente, dove capitava: a volte sulla schiena, a volte sulle gambe o sulle braccia.

Quella notte, non capii perché non piansi come le altre volte... anzi, non piansi affatto. Avevo tanta paura. Mi decisi a fare una cosa che dovevo fare da tanto, troppo: chiamai la polizia, denunciai mio padre senza alcun rimorso. Sentivo la mia vocina delicata tremare quando raccontavo ai poliziotti il motivo della mia denuncia.

Quando fummo in tribunale sedetti tra il pubblico e notai che il primo a testimoniare fu proprio padre Thomas, al quale io raccontavo sempre tutti i dettagli dei maltrattamenti. Mi fidavo di lui. Poggiò la mano sulla Bibbia e giurò di dire tutta le verità riguardo il nostro caso.

<<Ha mai sentito i coniugi Forrest litigare?>> chiese l'accusa, il giovane e bell'avvocato di mia madre.

<<Tutti i giorni. Ma non ho mai sentito il signor Forrest picchiare la moglie. La sentivo spesso urlare, forse non per le botte, ma per qualcos'altro. È sempre stata la loro figlia che... avendo bisogno di dirlo a qualcuno l'ha detto sempre a me, che sono un prete. Mi raccontava sempre tutti i particolari di ciò che suo padre faceva sulla madre e su di lei. E mi creda, se l'avesse mai sentita si sarebbe spaventato. La sua vocina di bambina  che dice quelle cose è agghiacciante>>.

<<Il giorno in cui la piccola Forrest ha chiamato la polizia per denunciare il padre, lei era in casa padre Thomas?>>

<<Si. La bambina era venuta da me. Era piena di lividi, povera piccola. Mi chiedo come possa un padre...>> Gli si era incrinata la voce per il terrore e la commozione. Era di una bambina che stava parlando, una sua piccola confidente. Gli scese addirittura una lacrima. Si mise la mano sinistra sulla fronte, come per riflettere su come concludere il suo discorso, e poi si asciugò la lacrima che gli era scesa. Lo vedevo quasi sconfitto. Era sconvolto. Non avrebbe voluto essere lì, e neanche io avrei voluto che fosse lì. Mi dispiaceva vederlo seduto sul banco dei testimoni per rispondere a quella sorta di interrogatorio al quale lo stava sottoponendo l'avvocato di mia madre. Dopo avermi guardata per un attimo, mi sorrise, e io gli risposi. Solo dopo aver visto il mio sorriso, si decise a concludere il discorso nello sconforto più totale: <<Mi chiedo come possa trattare in quel modo sua figlia>>.

Io sentivo le confessioni di padre Thomas e rimanevo sempre più sconvolta, era tutta le verità, ma l'avevo pregato di dire il meno possibile, o mio padre mi avrebbe ammazzata, anche lì davanti a tutta la corte e davanti al giudice. D'altronde io non dovevo avere paura. Non ne avevo alcun motivo. Ho aiutato mia madre, l'ho salvata da quell'uomo spregevole che era mio padre. Io non mi dovevo sentire in colpa, come invece mi sentivo in quel momento.

<<Lei ha detto che la bambina aveva dei lividi. Come se li è fatti, o meglio suo padre come glieli ha procurati?>>

Lui mi guardò in cerca di approvazione. Non sapevo se volevo che lo dicesse all'avvocato, che aspettava una risposta. Ma poi pensai al fatto che se non volevo vederlo per un po' dovevo fargli dire tutto. Feci un cenno del capo e lui rispose alla domanda dell'avvocato. <<L'ha frustata con la cinghia. Lo faceva sempre dopo aver fatto del male alla madre. E... Le frasi che le diceva, quando me lo raccontava, mi facevano rabbrividire. Io se mi fossi sposato e avessi avuto figli, non avrei avuto nemmeno il coraggio di pronunciare certe parole nei confronti della mia bambina>>. Padre Thomas stava sempre ad ascoltarmi, quando mi confessava mi faceva stare bene, mi rassicurava con frasi dolcissime e carezze. Non mi avrebbe davvero mai fatto del male se fosse stato lui mio padre.

Come ho detto seguii tutto il processo dai banchi, ma non potei mai testimoniare a favore di mia madre. Non me lo permisero poiché ero minorenne. Mio padre fu riconosciuto colpevole di violenza su mia madre e su minore e fu condannato a dieci anni di carcere.

Durante il periodo poco dopo il processo, mia madre necessitava di stare un po' da sola per riprendersi. Il processo era stato molto lungo. Non potevo stare a casa in pratica. Mi disse padre Thomas che durante questo periodo avrei potuto trascorrere il tempo in una struttura di sua proprietà che fungeva da orfanotrofio.

Una volta arrivata alla struttura di padre Thomas, subito notai che i ragazzi erano ostili nei miei confronti. Chi mi guardava in cagnesco, chi non mi parlava, chi non voleva che giocassi nei gruppi che si erano creati. <<È la figlia dei Forrest, quelli che sono in televisione>>, <<Lei è quella che viene presa a cinghiate dal padre>>. Queste erano le frasi che tutti dicevano. La notte sentivo i ragazzi prendermi in giro e quando ero in classe mi tiravano oggetti contro. Spesso il sorvegliante mi dava contro poiché non facevo bene il letto, perché il mio armadio non sempre era in ordine ma, fortunatamente, non venivo mai picchiata. Se non fosse stato per l'ostilità sarei stata lì molto volentieri. Il problema era che non mi sentivo accettata a causa di mio padre e mia madre. Mi sentivo sempre esclusa. Mi odiavano tutti. <<Almeno tu I genitori li hai. Noi siamo qui perché non li abbiamo. Perché non te ne vai?>>. Per fortuna nessuno dei ragazzi arrivò a picchiarmi.

Aveva vinto la causa. Mio padre era finalmente in carcere e noi potevamo vivere in pace. Però ancora mio padre aveva il diritto di venirci a trovare una volta al mese per tre giorni.

Aveva vinto quella causa, ma avrei preferito che non vincesse, perché mi trascurava continuamente, pensava sempre solo al lavoro e al suo avvocato con il quale aveva instaurato un rapporto che andava ben oltre l'amicizia. Lui amava lei, lei amava lui. Ma chi avrebbe amato me, che ero sola?

Quando mi prendevano in giro sul pullman e lo raccontavo a mia madre, sembrava non interessarle. Non le interessava quello che subivo io... le interessava solo che non le succedesse più quello che le succedeva prima. E poi le importava solo del suo giovane e bell'avvocato. Io non interessavo più a nessuno. Ero esclusa da tutti.

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Quando ritornai alla realtà, sussultai. Kayla, vicina a me, mi guardava stranita. Ero sudata: avevo in faccia l'espressione vera della paura. Mi chiese se fosse tutto a posto. Confermai, ma uscii dalla classe in fretta e furia.

Scoppiai in lacrime. Non riuscivo a respirare. Ero spaventata. Non capivo cosa fosse successo in classe poco prima. Come mai avevo visto quelle cose? Era una specie di sogno a occhi aperti? Una premonizione?

Guardai alle mie spalle, stavano passando i giocatori di rugby. Ultimi nella fila erano Sebastian e Derek. Quest'ultimo iniziò a darmi contro. <<Ehi, sfigata, cos'hai da piangere? Oggi non abbiamo ancora iniziato con te. Anche perché, avendo avuto la partita, non abbiamo potuto>>. Sebastian notò che avevo in faccia lo sconforto per ciò che avevo visto e, per farlo smettere, gli diede di gomito.

Sebastian si fermò per chiedere se fosse tutto a posto, e per non lasciare il compagno con una sfigata, si fermò anche Derek. Mentii spudoratamente. <<Certo. È solo paura. Domani abbiamo il corso di cinematografia e non so che ci potrà chiedere la professoressa. Tutto qui>>.

<<Meno male che non è nulla. Domani mi voglio divertire con te>> fece quell'insensibile di Derek, beccandosi un'altra gomitata.

Sebastian semplicemente mi aiutò ad alzarmi dal pavimento sul quale mi ero accasciata per piangere, mi asciugò le lacrime e mi salutò mentre andava via. Non disse nulla.

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