XV -Puoi avere me-
Izuku aveva passato buona parte degli anni delle medie a desiderare una macchina. Non qualcosa di anonimo e omologo a tutte quelle che vedeva girare per la città, no, la sua doveva essere colore delle stelle, veloce, tecnologica, doveva avere tre display a sette segmenti sul cruscotto. Uno rosso, uno verde e uno giallo, che indicassero rispettivamente la data e l'ora impostate come destinazione, la data e l'ora a cui ci si trovava e la data e l'ora da cui si è partiti l'ultima volta che la macchina era stata usata. Doveva inoltre essere dotata di un flusso canalizzatore e di circuiti molto speciali: circuiti temporali. E aveva bisogno di barre di plutonio per l'alimentazione, quindi di un generatore di fusione, che avrebbe chiamato M. Fusion. Oh, e non dimentichiamo il sistema di recupero automatico, quello è importante.
Doveva essere, per la precisione, una DeLorean MC-12 capace di viaggiare nel tempo.
La vettura argentata poteva scomparire in un lampo di energia blu e portarlo ovunque. Izuku la sognava ad occhi aperti quasi ogni sera.
Erano gli anni del pessimo gusto nel vestire, delle merende di mezzanotte e delle prime uscite al cinema. In centro c'era un vecchio teatro adattato a cinema che durante l'estate proiettava film della cultura pop. Fuori teneva fissa la locandina di Ritorno al futuro anche quando non era in lista fra quelli disponibili, forse perché era qualcosa che attirava clienti e con il tempo era diventata un segno distintivo. Era stata Inko a comprargli i biglietti per Ghostbusters, Star Trek: Generazioni, L'Impero colpisce ancora, Alien, Indiana Jones, per poi passare a American graffiti, Taxi driver e scivolar presto verso le opere di Kubrick e Spielberg. Sua madre era contenta che fosse appassionato di pellicole simili, in qualche modo le facevano sentire Izuku più vicino, perché lei era cresciuta in un secolo saturo di certe strane, meravigliose storie.
Così Ritorno al futuro ricompariva di tanto in tanto nelle sale del cinema e la prima volta che lo vide Izuku aveva sette anni. Era ancora amico di Katsuki ed era ovvio che avessero due posti in terza fila prenotati. Avevano passato il pomeriggio nel parco, avevano corso, facevano finta di non esser stanchi per convincere le loro madri a non fargli saltare la tanto attesa serata film. Due bambini a cui non si poteva dire di no, erano così irritanti messi insieme, ma anche tanto felici che esistesse la fantascienza e che la fisica e la matematica dessero la speranza che le fantasie potessero un giorno essere realtà. Loro non capivano molto di calcoli, di relatività, di loop temporali o di accelerazione gravitazionale, di wormhole e di teorie, teoremi, leggi e dimostrazioni, non ne immaginavano la grandezza ed i limiti, ma bastava un film di un'ora e cinquantasei minuti a farli avvicinare a quel mondo e farlo sembrare semplice.
Per la scienza, un ponte di Einstein-Rosen o cunicolo spazio-temporale, detto anche wormhole, è un'ipotetica caratteristica topologica e relativistica dello spaziotempo. Immaginare lo spazio come una linea di materia infinita è sbagliato, di per sé l'universo non ha inizio o fine, né un dritto o un rovescio. Potenzialmente ogni punto può esserne il centro. Quindi immaginate un ragazzino di sette anni che a otto, tanto preso dai viaggi nel tempo, si mette a far ricerche e tenta di comprendere come funzioni idealmente una DeLorean MC-12 modificata con componenti futuristiche e cosa sia una galleria gravitazionale.
Prendete un cartoncino, curvatelo a U così da portare la superficie in vista anche sotto, poi immaginate di collegare i due piani della stessa con un cunicolo, un passaggio; questo collegamento è un via intra-universale, una specie di strada che lega due o più punti dello stesso universo spaziotemporale e tramite cui la materia può viaggiare. Il cartoncino è lo spaziotempo, la gravità ivi contenuta interagisce con le due dimensioni e crea dei passaggi. Il senso è più o meno questo. Miriadi di termini e miriadi di formule bizzarre, Izuku vi si immergeva e storceva il naso insistentemente come se la cosa lo potesse aiutare a fare chiarezza. Katsuki lo aveva preso in giro per la sua fissazione, non capiva che all'epoca una passione del genere era tutto per la sua testa riccioluta. Sì, anche Katsuki guardava i film di Ritorno al futuro e come Izuku li amava, ma in qualche modo separava la finzione dalla realtà e rinunciava a seguire l'amico nei suoi strambi studi. Per il biondo era stato sempre semplice vivere con i piedi a terra. A lui, dopo tutto, non serviva viaggiare nel tempo.
Katsuki non aveva lasciato l'infanzia a metà, non aveva chiesto alla madre di spiegargli perché il padre fosse sparito dalle loro vite, non si era imposto di capire i suoi silenzi, né di rinunciare ad amicizie troppo tarde. Izuku si incolpava, lo faceva quando tornava indietro nel tempo, per come aveva portato all'inconclusione la loro. Era scomparso dalla vita del biondo lentamente ed era diventato il ragazzo dal sorriso tirato che mal sopportava le sue cattiverie. Lo denigrava da sempre distorcendo il suo nome e bastarono pochi passi di distanza perché lo deridesse, lo ferisse e lo deludesse.
Perché esser tanto brutali? Perché, Katsuki? Perché non mi hai mai chiesto scusa? Non aveva mai dato spazio a certe domande, ne temeva le risposte. Temeva di trovar qualcosa di sbagliato dentro di sé, qualcosa che giustificasse le azioni del suo vecchio amico. Sperava nel giorno in cui non avrebbe più pensato a certe cose.
Ma persino ora che lo guardava dall'altra parte dell'isola aveva paura di cosa riservasse loro la ricerca della verità, quella corsa che non era mai finita e che portavano avanti su strade diverse, anche se poi non così tanto. Cosa devo fare? Izuku in vero desiderava uscire dal proprio appartamento, allontanarsi dalle preoccupazioni, porre una pietra sopra alle parole spese, rispondere da solo ai propri dubbi. Perché da quando Kacchan si era trasformato nel Katsuki che aveva imparato a conoscere si era impegnato sempre più a chiedere senza voce e ad ottenere senza chiedere. Per questo si teneva stretto quel che già sapeva del biondo, tuttavia si affidava al proprio instinto quando gli diceva di non lasciar correre altri sospiri fra di loro, di non percorrere da solo la strada fino a casa, ma di chiedere la compagnia di un ricordo e di un'ultima impressione al sol calante. Gli piaceva trovarsi sulle linee di confine e correre a fiato corto, sentiva la labilità di un nuovo muro avvicinarsi.
Katsuki poteva perdersi nella pioggia del sabato mattina, farsi piccolo nel mondo in cui Izuku lo aveva fatto entrare, un mondo improprio ed informe che avrebbe fatto da stanza d'attesa per i confronti a venire.
Devi dirmi cosa vuoi fare, dove vuoi andare, con cosa vuoi restare, a chi vorresti urlare, a chi, ancora, vorresti dire di farsi da parte. Izuku sentiva di nuovo il desiderio di sapere, senza confini e senza tatto, sapere più di tutti. Anche se il mondo gli avesse negato un così pesante piacere sarebbe stato contento di averlo sfiorato.
<Puoi restare> glielo disse nuovamente, come se a farlo potesse fare capire al biondo cosa significasse vedere la sua bolla di problemi galleggiare nel maltempo della giornata.
<Anche questa notte?>.
<Per quanto vuoi> lo fissò girare lo schermo del cellulare sul ripiano dell'isola, sollevare le spalle e rilassarsi al suono dell'ennesimo tuono.
<Non sei obbligato, Izuku. E poi, forse, sono io a non voler restare> e così Izuku si sentì male. Qualcosa, nel tono della voce, gli aveva fatto capire di aver tentato di avanzare un metro di troppo.
<Senti, ti ringrazio per il divano, il tè, per questo - disse tirandosi un lembo di stoffa della tuta all'altezza delle spalle - ma sappiamo che con me non vuoi aver nulla a che fare e questo, insomma, lo capisco>. Detto ciò si girò verso il soggiorno mollando la tazza sull'isola e dirigendosi al mucchio di vestiti sul tavolino. Il riccio guardò la scena come attraverso un lunghissimo cannocchiale, dove l'immagine di Katsuki si faceva distante e sfocata per la sporcizia della lente. Il biondo, in modo fiacco e sbrigativo, afferrò i lembi della felpa per sfilarsela e già cercava con lo sguardo la maglia che indossava la sera prima per cambiarsi.
E nel vedersi ricomparire di fronte la pelle pallida, tesa e macchiata di Katsuki inspirò a fondo ricordandone l'odore disperso e appena percepibile subito fuori dai bagni dell'accademia, come il velo di uno spettro. Katsuki respirava come le mattine d'inverno: piano, sollevando le membra verso il cielo ghiacciato. La neve si era ormai sciolta sotto l'acqua, la città l'avrebbe presto dimenticata e lo stesso poteva succedere ad Izuku con Katsuki. Era una minaccia a cui si era abituato, eppure accettarla risultava difficile ogni volta. Come si fa? Cosa si dice? Come si vive con persone come te?
<Non ti ho detto questo> spinse le parole fino all'altra parte della stanza, la testa di Katsuki sbucò dalla t-shirt che tirò con forza giù. Il bianco dell'incarnato era ancora più chiaro messo a contrasto con il nero del tessuto, i segni lasciati dalle bocche degli sconosciuti spuntavano vicino al colletto come fiori appassiti. Ad Izuku parevano chiazze d'acquerello stese ad arte sulla tela del corpo, chiazze che lasciavano intendere il passaggio del caso, del caos della giovinezza, delle setole umide di ragazzi caduti in trappola.
<No, l'ho detto io. Non è lo stesso?> ribatté afferrando i pantaloni. Era tornato a farsi distante, forse non era importante aver parlato, raccontato di cosa lo aveva portato a casa del riccio.
<No che non lo è!> senza pensare, Izuku gli strappò l'indumento dalle mani. Il biondo, in risposta, lo fissò contrariato.
<Non puoi accettare solo quello che ti fa comodo, non voglio che mi ringrazi, né che mi parli della tua vita, lo capisci?!>.
Katsuki tese le labbra facendosi cupo. Izuku levò nuovamente la voce.
<Non ho bisogno di nulla di tutto ciò, non se prendi e te ne vai come se non avesse importanza. So qualcosa di te e vorrei che mi dicessi come devo incastrarmi in mezzo ai tuoi casini. Non puoi darmi così poca considerazione! Vieni qua, accetti quello che posso darti, mi tratti come un'area di sosta per poi sparire?!> gettando i pantaloni a terra, Izuku inspirò a fondo. Si strinse nelle spalle, permise ad una tensione strana e viscida di corrergli addosso e defluire. Non sapeva cosa aspettarsi in risposta, non sapeva quando certi discorsi si erano formati nella sua testa, nè come fossero riusciti a raggiungere le sue corde vocali. Ma erano giusti, nella loro sincerità davano ragione a quella parte di Izuku che cercava verità.
Katsuki deglutì guardandolo fisso, il silenzio crescente lo faceva indurire di fronte agli occhi del riccio. Prima o poi quel fantasma sarebbe diventato una statua fredda, priva di crepe, finalmente incapace di ascoltare proprio come sembrava desiderare.
Incominciò a scuotere piano la testa, sussurrò un "no" privo di calore. Izuku capì che c'era tanto da chiarire, tanto per cui nessuno di loro aveva il coraggio di farsi avanti.
<Puoi restare, Katsuki, questo non lo ritiro. Ma dammi modo di aver le idee chiare> riprovò ad intavolare il discorso più gentilmente, la comunicazione era qualcosa in cui non erano mai stati bravi e crescendo, se ne rese conto, la cosa era peggiorata. Katsuki era un presenza incostante per chiunque, Izuku cercava di evitare persone simili perché danno troppe preoccupazioni, troppi punti interrogativi, lo portavano fuori dai binari.
Ma con Katsuki come poteva lasciare che tutto slittasse nel dimenticatoio? Loro, che non avevano punti nella stesura del passato, non sapevano più usare la punteggiatura della vita.
Katsuki indossava ancora i suoi pantaloni di tuta, le braccia erano coperte di pelle d'oca ora che non aveva più la felpa e tenergli caldo. La individuò posata malamente sul bordo del tavolino, la afferrò e gliela mise fra le mani senza chiedergli se la cosa andasse bene. Il biondo non poté fare altro se non prenderla per non farla cadere. La guardò soppesando il da farsi e alla fine parve non poco sconfortato nel rinfilarsela.
Ma quando la sua testa sbucò di nuovo fra la stoffa beige la sua espressione era mutata repentinamente. Ancora, vide l'inaspettato. Quel fantasma, creatura scomoda, era un grumo di tensione mal gestita. Il viso tirato non era più pallido, ma coperto da un rosato troppo tenero per risaltare a dovere. Era comunque abbastanza intenso da notarsi; persino gli occhi, da seri che erano, ne avevano preso le delicate sfumature. Izuku per poco non strabuzzò gli occhi. Che fosse possibile? Era davvero riuscito a frustrarlo a tal punto? Quelle velature lucide non potevano esser altro che lacrime e quando Katsuki iniziò a sbattere ripetutamente le palpebre si obbligò a crederci.
Il biondo piombò sul divano pesantemente, il riccio lo imitò istintivamente prendendo posto sul bracciolo della poltrona lì vicino e prese a massaggiarsi le dita colto dal nervosismo. E ora cosa succede?
<Katsuki, va tutto bene?>.
<Tsk - fece sollevando le spalle - volevi che restassi? Bene, resto>.
<No, non è questo, insom-
<Dove vuoi che vada?! Ormai tanto vale che stia qui ad ascoltare quanto ti infastidisca la mia presenza>.
<Ho detto cose simili? Non credo> provò a dire, ma era chiaro che certe frasi sarebbero entrate e uscite dalle orecchie del biondo senza far effetto.
<Senti - disse il riccio e nel prendere un respiro scivolò giù dalla poltrona per mettersi sul tappeto davanti a Katsuki, incrociò le gambe e si scompigliò capelli - mi puoi parlare come hai fatto prima? Andava bene, no? Mi racconti qualcosa, io ascolto> e osò mostrare un piccolo sorriso allungando il naso verso il ragazzo dagli occhi sempre più pieni di lacrime. Era fastidio? Era rabbia? Era un po' tutto? Era star lì, non saper che fare, dove andare, come comportarsi? Izuku si sforzava di trovare dei punti in comune fra quello che stavano provando. Anche lui era a disagio, muoveva le dita e se le tirava, si chiedeva cosa avrebbe fatto quando lo stress di Katsuki si fosse riversato fuori dai suoi occhi, se quel ragazzo che lo guardava in silenzio avesse potuto essere più contento senza che gli allungasse un fazzoletto dal contenitore sul tavolino.
<Forse non vuoi parlare con me. Però non lo hai fatto con Kirishima, Sero o altri, giusto?> Izuku lo chiese certo della risposta che non tardò ad arrivare. Katsuki scosse ancora la testa e si portò le mani alle tempie. Era tutto curvo in avanti, con i gomiti sulle ginocchia, e teneva le labbra allineate in un tratto dritto e inespressivo.
<Ok, quindi è un problema se parli con me?>.
Silenzio. Quando non trovava le parole Katsuki non faceva alcun rumore. Persino il respiro sembrò sempre più assente man mano che i secondi passavano.
<Lo è?> insistette, voleva che rispondesse anche a costo di ricevere lo stesso sguardo torvo che al biondo riusciva tanto bene in quel momento.
<Non lo so> sibilò e la sua voce tagliò l'aria. <Che vuoi? La storia della mia vita? Quella la sai già> aggiunse pungente come sempre. Izuku lo ignorò, anche se voleva dirgli che non sapeva tutto e che voleva chiedergli tante altre cose.
Katsuki tirò dentro una grande boccata d'aria e la ributtò fuori tremando un poco. Quando il riccio pensò di dover afferrare la scatola di fazzoletti non giunse nessuna lacrima da asciugare. Restò tutto in quei rubini circondati da un bianco arrossato, sotto le sopracciglia leggermente corrugate.
Così Izuku capì che Katsuki non avrebbe pianto, perché lui non piangeva, era una motivazione molto semplice. D'altronde, come fanno i fantasmi a piangere?
Per un attimo quel rosato della pelle lo aveva ingannato, gli aveva fatto credere di aver davanti un ragazzo come lui, fatto di carne e ossa.
Quindi, qualsiasi tipo di spettro fosse Katsuki, si scosse come una persona normale e mandò giù la frustrazione per poi fare il giro della stanza con gli occhi e tornare alle giade che lo fissavano senza riguardo in attesa che si pronunciasse sul da fare. Izuku gli voleva dare spazio di manovra; inclinò la testa imitando la sua espressione contrita. A quel punto Katsuki fece una breve risata satura di nervosismo.
<Cazzo> sussurrò nascondendo la testa fra le mani.
<Non voglio tornare al mio appartamento, ma se sto qui non so che fare. Che cosa ti devo dire?> fece restando a viso coperto. Izuku pensò che stare a quel modo lo aiutasse a muovere le labbra, produrre suoni, dare risposte. Lo capiva e non lo capiva al contempo.
In ogni caso non seppe che dire. Aveva molte domande da fare, ma nessuna che fosse giusta per il momento.
Katsuki era arrivato fin lì, questo era un dato di fatto. Aveva bevuto il tè che gli era stato offerto, scavato il proprio posto su quel divano, ascoltato il temporale nello stesso modo di Izuku, in qualche modo aveva trovato il proprio posto, ma non sapeva definirlo.
<Insomma, non vuoi davvero mandarmi via? Non sono stato io a dire che eri un buono a nulla, a trattarti da schifo al liceo e a spargere la voce che sei entrato per favoritismo? Solo questo dovrebbe bastare a farmi sbattere la porta in faccia>.
<Sì, questo basterebbe> gli confermò. Quelle non erano scuse, Izuku lo sapeva, ma erano entrambi alla soglia dei vent'anni ed era stancante attaccarsi al passato; quel che aveva portato il riccio ad odiare il biondo, odiarlo dal profondo, era cosa antica e oramai tutti i torti che gli aveva fatto, anche se non dimenticati, erano decantati prendendo un gusto migliore. Izuku aveva sofferto, ma non escludeva che fosse stato lo stesso per Katsuki. Erano stati assenti l'uno per l'altro, trascurando un'amicizia di cui il riccio cercava di scoprire i resti. Non si erano mai detti di essere arrivati alla fine, il pensiero invase la mente di Izuku con forza. No, infatti, non abbiamo lasciato andare tutto a rotoli.
<Ma in questi anni non abbiamo chiarito nulla. Non che le cose che hai fatto non contino, ma se per te andasse bene starei qui a parlare. Forse questo basta per dire che posso essere tuo amico. È ok, Kacchan?>. In un gesto sicuro gli tese la mano, alcuni tasselli andarono a posto, altri restarono a vagare nel cassetto dei ricordi. Per la prima volta da quando le loro vite erano tornate a incrociarsi avvertì un senso di giusto nelle proprie azioni.
Katsuki, che di sicuro spiava i suoi movimenti fra le dita che teneva davanti agli occhi, restò immobile per alcuni secondi. Ma Izuku sentiva di aver ragione e tale convinzione non gli fece dubitare del ragazzo che sedeva sul suo divano. Alla fine la sua mano fu avvolta dalla pelle fredda del biondo. Il palmo era liscio, troppo levigato, così come i polpastrelli troppo morbidi. Che strano. Immaginava mani ruvide, non rovinate, ma comunque usurate dal continuo utilizzo di matite, fogli taglienti, gomme che non cancellavano mai a sufficienza, più simili alle sue. Invece Katsuki aveva mani delicate, affusolate, leggerissime, che sembravano quasi inconsistenti fra le proprie. Sorpreso, ma felice, strinse leggermente la presa e sorrise. Di rimando, Katsuki sbuffò osservando dall'alto la sua contentezza.
Quando le loro dita si separarono al riccio restò una sensazione di mancanza, qualcosa che per molto tempo si era portato dietro senza accorgersene. E mentre il biondo si strofinava gli occhi eliminando le ultime tracce di lacrime mai fluite, capì che anche lui si sentiva un po' meno fuori posto.
Bene, eccomi di nuovo qua!
Finalmente Katsuki ed Izuku hanno iniziato a chiarire alcune cose. Vedremo come evolveranno i loro rapporti
( ꈍᴗꈍ).
Alla prossima♡(ӦvӦ。)
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