VII -Cerco una fine, tu cosa desideri?-

Izuku non aveva mai detto addio. Si trattava di un'abitudine buffa e complicata: lui salutava con un piccolo cenno e lasciava che fossero gli altri a voltarsi. Prendeva quel che poteva dagli incontri che faceva, aveva disimparato presto a lasciare che i ruoli fossero invertiti e capito che a farsi svuotare dovevano essere coloro che se lo potevano permettere. Lui non aveva molto da dare, se ne era convinto facilmente, e sentiva che la mancanza era ben più profonda di quanto potesse immaginare. Non si trattava dei saluti, delle attenzioni che ricambiava, della disponibilità invidiata, quelli erano aspetti troppo scontati e forse le minime pretese che i ragazzi della sua età nutrivano verso chiunque. Lui era in difetto di conformità, di quella vaga calma che vedeva nei suoi compagni di classe, della resilienza dei loro sentimenti e della smodatezza dei loro divertimenti. Lui non solo era insoddisfatto, ma persino deluso da quanto il "diventar grandi" fosse arrivato in silenzio e di come la novità stesse passando velocemente.
Odiava il modo in cui il tempo alla mattina scorreva fluido ed il come correva nel pomeriggio, amava il maltempo ed i paesaggi di vie deserte che creava, ma ne condannava la freddezza, ammirava le foglie più tarde prostrarsi ai piedi degli alberi in autunno giudicandone l'aspetto malconcio, diceva di non potersi affidare ai pregiudizi, ma gli piaceva che gli altri seguissero il ragionamento contrario con lui; Izuku viveva di complementari e di contraddizioni, esempi di esteriorità e di fragilità passeggeri che non lasciavano il tempo per raccoglierne i frutti. Tutto marciva nella negligenza delle persone, lui non era diverso dagli altri, non come gli piaceva credere. Lui, i suoi compagni, i suoi amici, sua madre, Katsuki...erano tutti sulla stessa fila di binari, a viaggiare verso chissà quale direzione.
Ma forse crescere voleva dire accumulare confusione, avere un po' di sfortuna, di tanto in tanto sorridere per le cose meno ovvie; se fosse stato tutto così semplice ad Izuku sarebbe bastato poco per evadere dalla ristretta visione che aveva del mondo.
Si concentrava troppo su se stesso per vedere come la città in cui aveva sempre vissuto lo stesse schiacciando e come lui non facesse nulla per evitarlo. Dalla monotonia delle giornate agli sguardi fissi in aria, ogni particolare di Ginevra lo faceva rabbrividire di fredda gioia, come di una felicità nostalgica, infantile, di cui era rimasto solo un ricordo che andava a ripetizione nella sua testa. E capì con l'arrivo del nuovo anno quanto fosse rimasto indietro e quanto avesse sottovalutato la sua casa fatta di vie intricate ed alte finestre di palazzi, piccoli dettagli che con fare svogliato riportava su qualche album da disegno nei pomeriggi più silenziosi.
Si rifugiava nella carta, nel suo odore di nuovo e di vecchio, fra fogli intonsi e gialle pagine di libri polverosi. Respirare vicino a certi oggetti lo faceva sentire tanto libero quanto costretto in quel suo angolo di mondo. A guardare la città da quel buco di serratura non ne vedeva mai la vera bellezza, non la voleva, a lui bastava sporcarsi le mani con polvere nera, trasportare il mondo nel suo mondo e non permettere il contrario.
I disegni non scompaiono, si rovinano, si strappano, ma la loro immagine permane se non nel tempo, nella memoria ed Izuku era rassicurato dal senso di appartenenza che il frutto del suo lavori gli dava. Quei vecchi album, gli schizzi ai margini delle pagine, le bozze iniziate e mai finite erano suoi, come lui era loro, erano un tramite che gli permetteva di essere più vicino alla realtà, ma mai abbastanza per farsi contaminare da essa.
Non smetteva mai di ricreare quel che lo circondava, se non aveva gli strumenti utili sotto mano usava la mente e vedeva tutto, come al solito, nell'alternarsi di ombre grigie, luci bianche e sfondi neri, come immagini che si distendevano su di una vecchia pellicola. Anche questa era un'abitudine che sembrava volersi protrarre all'infinito. Di tanto in tanto il riccio si chiedeva se si sarebbe mai stancato di questo o di quello, gli sembrava impossibile dare una scadenza alle cose. Il fatto di non riuscire a darvi una fine lo faceva star male, sentire come una persona incapace di autogestirsi.
Faceva così anche con le relazioni, che iniziavano e restavano in testa anche dopo il fatidico "addio", con il rapporto con sua madre, che non aveva mai smesso di esser felicemente malinconico, con i pessimi giudizi che formulava e mai rivelava, con le amicizie nuove e con quelle vecchie. Aveva avuto lo stesso atteggiamento persino con Katsuki, anche se lui gli aveva dato più di un motivo per concludere il capitolo che lo coinvolgeva. Ci sarebbe stata una bella frase, aspra come si sarebbe potuto immaginare prima di gennaio o dolce e rabbiosa quando infine, passata l'estate, si era ritrovato più smarrito di prima.
I nostri sguardi sono rimasti quelli di una volta mentre prendevamo scelte capaci di cambiarci nel profondo. Non so se riuscirò a riconoscere il tuo silenzio, ho il presentimento che prima dell'inverno di te non mi sarà rimasto altro se non la coscienza di non esser stato ciò che cercavi, né ciò che desideravi e mai quel che volevi odiare. Si raccontava una storia infinita, quella di un fantasioso primo amore mai realizzato e del delirio di un cuore giovane che ancora non aveva compreso i propri dolori. Riviveva i passi di un libro che aveva letto distrattamente e di cui non riusciva a ricordare la sensazione che gli aveva lasciato sulle dita, forse doveva prestare maggiore attenzione alle note, ai sussurri che gli venivano rivolti fra le righe e non essere incurante come era sempre stato nei confronti di chi tentava di percorrere il suo stesso cammino. Tuttavia, non avrebbe mai rinunciato alla propria forma, a rimanere fedele a quel che era poiché era avido di sé, prigioniero di un insulso autocompiacimento. Non sapeva il motivo di questo suo aspetto, non sapeva se avrebbe mai iniziato a domandarsi quanto disgusto poteva suscitare negli altri, né se era stata proprio questa sua peculiarità a farlo camminare su lastre di muscovite che si crepavano ad ogni vibrazione. Prima o poi il suolo gli si sarebbe sfaldato sotto ai piedi, si trattava del pensiero ferito di un ragazzo, e non se ne vergognava. Era un fatalista, uno stupido che si osservava le mani rimaste tese in aria, piegate nel reggere l'ombra di un racconto su cui aveva posato gli occhi troppo presto. 
Perciò voleva tornare indietro, a ben prima di gennaio, quando il suo sguardo era rilucente di aspettative e come un bizzarro sognatore passava le sere a rincorrere le lucciole a Bossey, dove Inko amava trascorrere i periodi di ferie e che ricordava per la tranquillità di un'infanzia mai vissuta appieno. Vedere le persone crescere era l'unica immagine che aveva ben chiara del proprio passato, il come il tempo avesse sempre avuto successo nel modificare il carattere, gli oggetti, le case, le amicizie, persino ciò che non sembrava mutare aveva risentito dell'inesorabile scorrere delle lancette. Sua madre era diventata più gentile e apprensiva, rammentava che, durante gli anni del liceo, non era raro trovare qualche sua chiamata persa o ricevere calorosi bentornati quando rientrava da scuola e non passava giornata in cui non gli chiedesse come stesse, se in classe si trovasse a proprio agio, quanto freddo facesse nelle mattine di pioggia, se fosse vestito abbastanza, perché vedesse così pochi amici, come riuscisse a stare ore davanti al pc o chino su qualche libro e pur non sopportando la naturale invasione dei propri spazi, Izuku le sorrideva e capiva che dirle di esser felice fosse non solo il ringraziamento per le attenzioni che gli dava, ma anche il riempitivo per ciò che aveva perso. Lui, dall'inesperienza della sua adolescenza, sentiva di star svolgendo da fermo per la valanga di sentimenti che Inko si teneva dentro e guardava una figura materna che migliore non sarebbe potuta essere e che, al contempo, vedeva nel figlio la propria debolezza. "Sai? I capelli ricci li hai presi da tuo padre e credo che diventerai alto come lui, me lo ricordi a tratti persino nel carattere", glielo aveva sentito dire spesso, se non le stesse frasi, lo stesso concetto e non aveva mai smesso di chiedersi quanto Hisashi potesse mancare a Inko, che più di altri poteva dire di averlo conosciuto; a differenza di Izuku lei aveva il diritto di sentirsi abbandonata, tradita dalle speranze di un qualche lontano futuro che aveva immaginato nella giovinezza del matrimonio. Izuku lo percepiva, il suo sconforto, misto al sollievo di avere un figlio su cui concentrarsi. Per un certo periodo era arrivato a pensare che per lei aver la sua compagnia non significasse altro se non una distrazione, come un animale domestico a cui ci si affeziona troppo e che, si sa, non potrà stare per sempre al fianco del suo padrone. Per questo si diceva di non esser degno della nostalgia che lo assaliva nel guardare qualche vecchio tomo sparso nella sua vecchia casa, una camicia abbandonata sulla poltrona in camera da mesi, perché lui non aveva conosciuto Hisashi per molto, qualche misero anno era nulla a confronto della promessa di una vita e ciò che poteva dare ad Inko era poco vista la prospettiva che andava via via maturando: si sarebbe allontanato da lei, non sapeva bene quando, ma lo avrebbe fatto. Così, superato l'ultimo anno di scuola superiore, non aveva avuto alcun ripensamento sul voler lasciare alla madre dello spazio, quello che lei stessa non si era concessa. Andare a trovare il signor Toshinori nei pomeriggi liberi, riordinare in casa, aspettarlo per pranzo, lavorare fino a tardi in ufficio...non era questo che voleva per lei. Inoltre, se vivere con lui significava davvero vedere ogni giorno l'immagine rovinata di Hisashi, non voleva addossarsi un tale peso, in parte per risparmiare un tale supplizio ad Inko, in parte per codardia.
Che lei lo sapesse o meno poco importava: Izuku stava non solo inseguendo le orme del padre, ma cercava in ogni modo di non guardare i propri piedi ripercorrerle.
Essere portato per le stesse materie, amare le sue medesime cose, anche questo lo faceva sentire frammentato, quasi che Hisashi fosse davvero una sua parte e che la madre non avesse torto nel curarlo come tale. Questo voleva dire il non poter avere il completo controllo di sé. In fondo lui era il ragazzo affabile e con quella nota di superbia che non solo la madre, ma persino il signor Toshinori aveva riconosciuto come eredità paterna. 

Ritornava spesso con la mente ai pomeriggi solitari nel salotto del suo professore, rivedeva Inko salutarlo alla porta, stringergli la mano fasciata dal piccolo guanto di lana e consegnarlo all'ambiente caldo di una delle case della Grand Rue, una delle vie più affollate di turisti, prima di andare al lavoro. Lo lasciava lì solo nei lunghi pomeriggi della stagione fredda, quando i suoi turni diventavano più pesanti e non riusciva a staccar prima dalla frenesia della vita adulta. La piccola testa riccia spuntava dalle finestre del primo piano, fra pietre consumate dal tempo, e sbirciava, dall'angolo della vetrata, il cappotto rosso della donna venir risucchiato fra la folla. L'uomo dagli scombinati capelli biondi che gli stava a fianco lo imitava, inseguiva anche lui quella figura frettolosa e sospirava. Durante l'ultimo anno di elementari Izuku si convinse sempre più che quell'atteggiamento stanco, ma in qualche modo rilassante e accogliente, del signor Toshinori fosse al pari del proprio, che anche lui vedesse l'assenza di Hisashi come il tasto che aveva messo in pausa il mondo. Niente più viaggi, niente più lettere da leggere, niente più racconti sul piccolo Izuku: ora, cosa che era parsa indisporlo inizialmente, toccava a lui vederlo crescere. E lo aveva fatto, per l'amicizia che aveva avuto con suo padre e per la volontà di non deludere le persone che gli stavano a cuore. Il signor Toshinori era un egoista solo per questo: pensava sempre a fare il bene degli altri e pareva trarne diletto con tristezza. Il riccio aveva un modo di porsi che raramente infastidiva, a differenza di molti suoi compagni di classe non ricercava il ruolo da protagonista, tuttavia finiva sempre per attirare l'attenzione dei grandi e di colui che sarebbe stato il suo professore. Ad Izuku pareva impossibile non essere un disturbo per quel famoso amico di famiglia di cui i suoi genitori avevano tessuto le lodi più di una volta. Da bambino che era pareva strano che certi pensieri invadessero la sua testa, eppure si preoccupava degli affari di chi lo ospitava, con un'educazione fin troppo curata, e chiedeva permesso per ogni cosa, ringraziava per qualsiasi attenzione e si muoveva in punta di piedi quando Toshinori passava la sua solita ora nel proprio studio per una ricerca di cui non specificava mai l'argomento. Dopo, tornava subito da lui, gli chiedeva se voleva qualcosa per merenda, si offriva di leggergli qualche libro dall'alta libreria che teneva in sala, di tanto in tanto gli insegnava qualcosa, nozioni base del disegno, alcune semplici tecniche, gli parlava di varie cose, l'una concatenata all'altra, e passava dal discorso più bizzarro a quello più serio nell'arco di pochi minuti. Il racconto di una noiosa serata passata per le vie di Ginevra poteva mutare inaspettatamente nel resoconto dettagliato di qualche dipinto, della sua storia, ed il tutto partiva dall'immagine di qualche sconosciuto adocchiato negli angoli della città. In un'occasione era capitato che Izuku restasse affascinato dalla figura di un uomo trasandato, con cui il signor Toshinori aveva avuto da ridire riguardo a questioni di poco conto al tavolo numero dieci di un qualche ristorante (era sempre molto generico, Izuku sospettava che l'ambientazione assomigliasse maggiormente ad un fatiscente locale di periferia piuttosto che ad un ristorante); "Era chino sul proprio piatto e quasi si affannava per mangiare, attorno al signore l'aria aveva il sapore di una giornata pesante non ancora finita e lui stesso sembrava pronto ad alzarsi e a  lanciare occhiate stranite, stanche e distratte a chi lo coglieva nell'atto di addentare il pezzo di pane che usava per accompagnare il cibo alla posata. Pareva che le persone ivi presenti facessero da contorno al suo pasto, come parte complementare di una scena che, se isolata, non avrebbe trasmesso quel senso di quotidianità a lei consona. Si teneva accanto un boccale di birra e a momenti alterni si concedeva di berne qualche sorso" parlava sempre tanto, amava esibirsi in certi discorsi e ancor di più amava quando Izuku gli chiedeva maggiori informazioni. "E com'era? Me lo descrivi?" esclamava con la naturalezza con cui un bambino poneva un Perché  per qualsiasi cosa gli capitasse di sentire. La sua domanda era logica, ma non banale, e Toshinori capiva la sua sete di dettagli: era la stessa che rivedeva in sé e che aveva visto in Hisashi. Allora si divertiva a spiazzarlo con qualche uscita del tipo "Sembrava proprio Il mangiatore di fagioli di Carracci" e alimentava la curiosità di Izuku a dismisura. Si sentì di troppo per una manciata di mesi, ben presto al riccio fu chiaro di non essere una presenza fastidiosa, ma un interlocutore gradito e forse un alito di novità sul vetro degli occhiali che di tanto in tanto il signor Toshinori indossava al calar della sera, poco prima che Inko suonasse al campanello e lo riportasse a casa.

Quando iniziò a frequentare la Grand Rue successero tante cose. Divenne amico dell'amico di penna del padre, imparò a memoria alcune vie di Ginevra, quelle che percorreva con la madre per arrivare dal signor Toshinori, finì le elementari, entrò alle medie, conobbe nuovi compagni di scuola e pian piano le sue abitudini cambiarono. In particolare, perse quella di vedere Katsuki quasi ogni giorno, che fosse per giocare o per svolgere qualche compito e sul momento l'evento non lo preoccupò, né diede l'impressione di aver avuto luogo. Nell'istante in cui si accorse di come il suo vecchio compagno d'avventura si fosse allontanato era ormai tardi per ripercorrere le tappe che li avevano portati a dividersi. Fu il gesto veloce di un saluto, uno strappo di un foglio e l'accartocciare di un disegno, un giorno disse a sua madre di aver passato il pomeriggio a casa del suo migliore amico, di aver condiviso ore spensierate, glielo disse per l'ultima volta. Poteva avere poco più di dieci anni, non era a lui possibile capire cosa volesse dire passare dall'essere il ragazzo per cui Mitsuki preparava la merenda il più della settimana a quello che avrebbe solo ricordato il sapore dei suoi manicaretti, l'odore di quella grande casa di periferia e l'espressione scocciata di un amico stanco delle sue lamentele, ma che in qualche modo lo ascoltava. Izuku sapeva di essere insopportabile, da piccolo non aveva la stessa, terribile autocritica che si portava ormai appresso e guardava Katsuki dal basso del tappetto del suo salotto mentre si metteva comodo prima di fare una partita a qualche videogioco, chiedendosi quando Inko sarebbe passata a prenderlo e a come avrebbe sorriso all'espressione infastidita del suo compagno che mai ricambiava la sua gentilezza. Izuku non si offendeva, lui capiva, o così credeva, quel carattere che Katsuki mostrava quando ancora lo considerava una persona sincera, il suo alleato contro i cattivi dei fumetti, quello che si atteggiava da insensibile per mostrare una forza sbaragliante, il  suo Kacchan. Quel soprannome era il ricordo di qualcosa di sgradevole, il come lo fosse diventato non era una storia che sarebbe stato in vena di raccontare a qualcuno se non a se stesso. 
Amavano gli X-men, detestavano restare indietro con le uscite, gradivano i pomeriggi passati fra gli alberi del parco, imitavano gli artigli di Wolverin con i rami fra le dita, tifavano per lati diversi, pretendevano, fra alti e bassi, che Erik e Charles potessero mettere da parte il lato negativo dell'essere diversi per combattere assieme, fingevano che la morte fosse solo finzione e che fosse distante da cose come l'amicizia. Perché non era scontata la felicità, ma alimentata e difficilmente rifiutata proprio per la sua fragile natura.

Non sapeva come tutto aveva avuto inizio, né se e quando fosse giunta la grande, terribile fine che non credeva di poter raggiungere, era solo chiara l'inconclusione che gli aveva strappato il manoscritto dalla presa e posto un punto prematuro. Era successo tutto ed era successo il nulla fra lui e Katsuki, si chiedeva se fosse il solo a pensarlo o se anche il biondo si chiedesse cosa avevano significato i mesi precedenti. Per Izuku era sempre la lontananza a tenerli vicini, come mondi paralleli troppo diversi per coesistere.
Quando avevano cambiato pelle? Quando avevano preso a nascondersi sotto a strati di stupide incomprensioni? Non aveva forza per rispondersi, nei mesi addietro aveva abbandonato l'idea di doverne avere.
Katsuki aveva chiuso la portiera quella sera di gennaio, aveva chiuso porte, Izuku lo aveva immaginato coprirsi con una coperta e sbuffare nel silenzio della sua stanza, si era persino figurato il disordine che non era disordine nel suo appartamento, il come avesse attraversato con fare svogliato la cucina prima di buttare a terra gli indumenti e gettarsi nel letto. Vedeva le sue azioni o così si era divertito a credere, come vedeva l'eco del ragazzo che aveva conosciuto.
Sì, quell'acido compagno di classe che gli aveva raccontato di un modo contorto di vivere nella neve di dicembre, facendosi strada fra le difficoltà del primo anno di accademia, il divorzio dei genitori, il gusto di una sigaretta tra un periodo di calma e l'altro, i ricordi di un'infanzia ormai lontana ed il breve ritrovo di due persone troppo distanti per riallacciarsi ad essa, ma capaci di dare un senso alla vista del piccolo paese di Veiryer nella notte, un silenzio conciliante ed un saluto non detto per dividersi senza impegni...lui aveva girato molte serrature, ma aveva perso le chiavi.

Nel ripresentarsi davanti ai suoi amici Izuku dedicò loro un sorriso tirato, non aveva risposto a nessuna domanda, forse aveva annuito ad un "Sei andato a fare un giro per far passare il tempo?" di Todoroki e a malapena si era sforzato per nascondere il pacchetto di sigarette che aveva sul cruscotto. Tornando alla casa di periferia si era concesso un tiro, due, tre, probabilmente più di quanti avrebbe ammesso e rimpiangeva di non aver lasciato l'accendino a casa. Che assurdità gennaio, si carica di tante aspettative dei cuori dei giovani, poi li lascia una notte, di ritorno da una festa, con frasi mezze pronunciate, discorsi sconclusionati, qualche risata di contorno e mille stelle in un cielo dal freddo sorriso. I semafori erano tutti verdi, i locali tutti chiusi, Izuku si chiese se la ragazza dai capelli corvini fosse già tornata a casa, se stesse sospirando stretta al corpo di qualcuno, se i suoi amici conoscessero i suoi pensieri e se sì come potessero leggerli. Ma loro non potevano riuscire in cose tanto complicate, a volte persino il riccio faticava a capirsi e quando giunse ai piedi del proprio letto, dopo la doccia più lunga che avesse mai fatto, si disse che la città stava dormendo, che era tardi, che non era l'unico ancora sveglio e che non desiderava essere l'ultimo a chiudere le palpebre.

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