9 - Nella Capitale

Suzune fece di tutto per limitare il rossore sulla sua faccia, riuscendoci solo in parte.

Ora che l'aveva inquadrata meglio, Lorena sembrava molto, forse troppo, simile a Nanami. E questo la preoccupava.

Dal canto suo, Mattia le aveva subito lasciato la mano, segno che almeno lui condivideva il suo imbarazzo.

«Son'nani taishita kotode wa nakatta»* disse Suzune. I due si girarono, guardandola straniti. La ragazza sorrise, ritrovando il buon umore.

Era divertente poter fare quei commenti ad alta voce, senza che altri la capissero.

E le dava anche un certo piacere, mai provato prima, poter esprimere i suoi sentimenti senza tutti quei noiosi filtri.

«Allora, prima tappa?» chiese, desiderosa di visitare quanto più possibile.

Forse troppo desiderosa, perché nell'allungare il passo inciampò, quasi finendo lunga distesa; Mattia riuscì ad afferrarla al volo, ma non prima che Suzune, con un urletto, avesse richiamato l'attenzione di quanti le erano intorno.

«Il Circo Massimo, iniziamo dal peggio» disse Lorena, aprendosi la strada in un muro di altissimi e biondissimi turisti tedeschi.

«Beh... del Circo è rimasta solo la forma, tutto il marmo l'hanno preso e riusato» disse Mattia, mentre le camminava accanto.

Suzune, rossa come un peperone, annuì, anche se un poco di insoddisfazione le venne nel petto, alla vista dello scempio.

Del monumento che aveva visto in Internet rimaneva solo una bassa conca ovale, col centro in terra battuta e l'erba che cresceva dove un tempo c'erano gli spalti. Vederlo dal vivo le fece una certa pena, perché le sembrava di guardare solo una vaga traccia di quello che aveva letto nei libri.

«Potremmo dire che i romani vengono da qui» fece Mattia. Suzune lo guardò, senza capire. Accanto a loro, Lorena sbuffò.

«In che senso?» chiese la giapponese. Il ragazzo sorrise.

«Quando Romolo fondò Roma, si dimenticò di una piccola cosa: le donne» Mattia indicò lo spiazzo davanti a loro. «Così, lui e i romani, tutti maschi, decisero di procurarsele con l'inganno. Invitarono un popolo vicino, i Sabini, a una corsa di cavalli proprio qui, e mentre quelli ammiravano le gare, i romani rapirono le loro figlie».

Suzune spalancò gli occhi, balbettando. Si era completamente dimenticata di quel mito, e sentirlo raccontare in quel modo la colpì più di quanto si aspettasse.

La differenza con i racconti giapponesi era enorme, e sforzandosi non le venne in mente nulla di simile nelle storie di sua nonna.

Guidati da Mattia, i tre attraversarono i Fori Imperiali. Suzune rimase sorpresa da tre cose.

Dalla maestosità di quei resti, che continuavano a esercitare su di lei un fascino strano, perché erano del tutto alieni ai monumenti a cui era abituata.

Inoltre, da come quella giornata sembrasse decisa a finire in tragedia, in un modo o nell'altro.

Lorena quasi prese una storta, provando con poco successo a salire tre scalini alla volta.

Suzune, momentaneamente distrattasi, si accodò a un gruppo di turisti giapponesi, e solo alla fine si rese conto di dove era finita. Provando a svignarsela alla chetichella, finì solo per ricevere una solenne lavata di capo dalla guida.

Inoltre, mentre cercava di fare una foto, un uccello decise bene di defecarle sulla spalla, e dovettero trovare in tutta fretta una fontana per aiutarla a pulirsi.

Infine, nel guardare giù da una ringhiera, urtata da una coppia di scolari, Suzune fece cadere lungo il prato gli occhiali. Prima che se ne rendesse conto, Mattia aveva scavalcato, incurante del cartello che lo proibiva, e li aveva recuperati; solo che nel tornare su uno dei guardiani del sito archeologico lo aveva visto, e così tutti e tre avevano ricevuto una sonora ramanzina. Che non si tradusse in multa, ma solo perché, di fronte alle colorite rimostranze di Lorena, la guardia preferì far marcia indietro.

L'ultima cosa di cui Suzune si meravigliò, e che le fece dimenticare tutto il resto, fu Mattia.

Il ragazzo sembrava conoscere a menadito ogni tempio, ogni casa, ogni sito dove si fermavano. E per ognuno aveva un aneddoto divertente o una considerazione spiritosa, un qualcosa che andasse oltre il semplice sciorinare qualche data o un paio di parole difficili.

«Shinjirarensi...» disse Suzune, mentre si avviavano all'uscita «Kamiou wa kitto ki ni hairudeshou!»

Una piccola smorfia di fastidio le storse il naso, al pensiero di Mattia e Kimiou che giravano per Roma, mano nella mano.

Non sapeva perché, ma l'idea non le piaceva per nulla. Scosse la testa, scacciando l'immagine.

Per evitare domande, decise di concentrarsi sulla visita al Colosseo.

Si era distratta così tanto, che Mattia dovette indicarle l'Anfiteatro.

Alzando gli occhi, Suzune non riuscì a trattenere un sussulto, spalancando la bocca.

Con la sua famiglia aveva visitato più volte sia Tokyo che Kyoto, e aveva visto la maestosità dei grandi templi, dei palazzi imperiali, dei giardini antichi. Tutto le aveva trasmesso un senso di calma, di rilassatezza, di pacato compiacimento e di quieta maestà.

Erano luoghi ariosi e colorati, dove regnava il silenzio e la pace, permettevano ai visitatori moderni di camminare in punta di piedi nelle loro stanze.

Il Colosseo era diverso. Agli antipodi.

Svettava sfregiato di fronte a lei, insensibile e compiacente del marasma di persone che lo affollavano.

Pareva guardarli dall'alto, abituato a tutti quelli stranieri attorno a lui, anzi domandandosi perché non ce ne fossero di più.

Se camminando nel Fushini Inari-Taisha, Suzune si era sentita piccola al cospetto di una sacralità millenario, davanti al Colosseo si sentì minuscola, schiacciata da due millenni di storia che la giudicavano.

«Impressionante, vero?» le disse Lorena.

Lei era troppo imbambolata a fissare l'ovale di pietra e marmo per far altro che annuire.

«La più grande vasca da bagno del mondo antico» fece Mattia.

«Eh?!» Suzune sgranò gli occhi, sicura di non aver capito. Che c'entrava il Colosseo con le vasche da bagno?

«Quando gli imperatori volevano fare le cose davvero in grande» iniziò Mattia. «Non si limitavano a far combattere i gladiatori, ma allagavano l'arena al centro, ci facevano entrare delle vere navi e inscenavano scontri navali veri e propri».

Suzune non riuscì a rispondere, la sua testa che fumava nel tentativo di immaginare una cosa del genere.

Quasi non si rese conto che Lorena le aveva messo un biglietto in mano, e che stavano procedendo a passo d'uomo verso l'immenso arco.
Era così presa, Suzune, che quasi non si rese conto del numero sul foglietto.

Quattrocentoquarantaquattro.

Tre volte quattro.

«Yon... yon, yon, yon...» iniziò a cantilenare, sperando nessuno se ne accorgesse.

Mattia e Lorena non dissero nulla, e così Suzune si arrischiò a sussurrare una di quelle filastrocche che sua nonna le aveva insegnato.

Non era mai stata molto superstiziosa, ma visti i tanti piccoli incidenti della giornata forse era meglio prendere provvedimenti. Così, mentre la fila scorreva sui gradini per entrare, Suzune rivolse la mente a Fukurokuju, il più adatto tra i Sette Dei della Fortuna.

«Che canti?» le chiese Lorena, drizzando le orecchie.

«Niente!» Suzune saltò in aria. Non voleva ammettere di credere a quelle sciocche fissazioni da miko, ma non le venne in mente nessuna risposta coerente.

«Anche mio fratello ama cantare, non imbarazzarti» la ragazza le fece l'occhiolino. «Ma è stonato» aggiunse a bassa voce.

Suzune non sapeva cosa dire, e la loro immobilità suscistò l'irritazione dei turisti dietro di loro.

«Scìnni!» urlò un uomo, accompagnando con un gesto eloquente.

«Ma scenni te, de faccia!» gli urlò di rimando Lorena, prima che Mattia intervenisse a tirarle via.

Sì frappose tra il turista e loro due, e ne sostenne lo sguardo fino a quando quello non sbuffò.

«Stemo tutti in fila su 'ste cazzo de scale, voi non scìnnete!»

Lorena aprì la bocca, ma Suzune le afferrò il braccio.

«Ferma! Non gli puoi augurare la morte* pure tu!» lo disse a voce un po' troppo alta, al punto che anche il turista rimase perplesso.

«Ehm...» fece Mattia, le labbra morsicate nel trattenere le risate. «"scinni" è napoletano, vuol dire "scendere"»

Capita la figuraccia, Suzune si fece più piccola possibile dietro Lorena, intenzionata a non fissare altro che le punte delle sue scarpe.

Fino a quando non uscirono dal Colosseo e non la riaccompagnarono alla metro, non disse una parola. Aprì bocca solo per salutarli. Quel fraintendimento, di sicuro, non lo avrebbe raccontato nemmeno a Kimiou.

L'angolo delle cose inutili

*Son'nani taishita kotode wa nakatta: そんなに大したことではなかった: non era un gran problema

*Shinjirarensi... Kamiou wa kitto ki ni hairudeshou!: 信じられない!カミオウはきっと気に入るでしょう!: incredibile... Kamiou lo adorerebbe!

*Yon: 四: quattro; nello specifico è la lettura più comune, perché l'altra "shin" ha un piccolo problema...

*Augurare la morte: la nostra povera protagonista, colta in un momento di superstizione, decide di leggere il numero sul suo biglietto, 444, usando "yon"; questo perché "shin", l'altra possibile lettura del numero 4, è omofono di "morte", ergo sarebbe come leggere il 444 come "morte, morte, morte"; il problema col turista napoletano è che Suzune, troppo distratta dalla parola, confonde "scinni", napoletano per "scendere", con "shine!", 死ね, "muori!". In Giappone, ma un po' in tutta l'Asia, c'è una vera e propria "tetrafobia", al punto che in moltissimi luoghi, come alberghi, ospedali, ma anche ristoranti, strade e scuole, si evita di usare il numero 4, quindi ad esempio non il quarto piano viene numerato diversamente, così come la stanza, il tavolo, la classe o il numero civico quattro spesso diventano 3A o simili trucchetti. Fun fact, in Italia noi abbiamo problemi col 13, e infatti non ci si dovrebbe sedere a tavola in quel numero (salvo voler tradire e crocifiggere un commensale), ma anche il 4 non se la passa proprio benissimo: nella smorfia 47 è "il morto", e 48 "il morto che parla"...

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