3 - Il Segreto del Fiore di Loto

La prima mezz'ora sul nuovo posto di lavoro era stata strana. Non sapeva se definirla peggiore o migliore di quel che si aspettava, ma di sicuro la poteva dire "diversa".

Trasferirsi a Roma era un sogno che si avverava, e mettere mezzo mondo tra lei e la sua famiglia era qualcosa che Suzune desiderava fare da una vita intera.

Che poi, l'interezza della sua vita fossero solo venticinque anni, non contava.

Quella piccola agenzia pubblicitaria era il posto perfetto per iniziare, e l'ambiente le sembrava così informale, così diverso dalla rigida precisione a cui si ispiravano i suoi genitori. Certo, c'erano anche degli inconvenienti.

Era colpa sua, lo sapeva, perché si era dimenticata che avrebbe dovuto dire prima il suo nome e poi il cognome, come facevano in Europa, ma l'ansia l'aveva travolta e si era confusa.

Quella, e gli sguardi che tutti continuavano a mandarle. Da quello che le avevano detto lei sarebbe stata l'unica ragazza nella sede, anche se in realtà ce ne erano altre due. La receptionist al piano terra, che però aveva a malapena potuto salutare, e quella ragazza avvocato dallo sguardo freddo.

Quando l'aveva incrociata nel corridoio, Suzune non aveva potuto fare a meno di saltare di lato, quasi per nascondersi dietro il ragazzo americano.

La cosa peggiore era che il capo, per ben due volte, l'aveva chiamata per nome, davanti a tutti, e senza nemmeno un suffisso. Sua madre sarebbe svenuta a sentire una cosa del genere, e Suzune poteva benissimo immaginare suo padre che diventava rosso di rabbia.*

Poi, era iniziata la tortura.

Passasse il giovane editor, Giacomo le sembrava si chiamasse, che cercava di spiegarle i programmi, con lei che annaspava a cercare i tasti e le lettere su quella tastiera così diversa*, ma la cosa che davvero non riusciva a capire era il fotografo dai capelli castani che le si era seduto accanto.

Non aveva perso occasione per riempirla di complimenti, o per inserirsi nelle spiegazioni del collega, o per fare domande idiote su qualche stereotipo degno di un manga di terza categoria.

Quando le aveva chiesto se davvero usassero le uniformi alla marinara, Suzune non si era riuscita a trattenere.

«Watashi o hanatte oite moraemasu ka?»* l'aveva detto a voce un po' più alta del dovuto, e si era ritrovata ad impallidire di colpo. Si era portata le mani davanti alla bocca, spalancando al massimo gli occhi, pronta a una ramanzina coi fiocchi, e magari anche al licenziamento.
Il fotografo, invece, aveva ridacchiato.

«E io che pensavo il calabrese fosse incomprensibile...»

In quel momento, Suzune si era ricordata che era rarissimo trovare qualcuno che conoscesse il giapponese, e che sarebbe stato quasi impossibile che uno dei suoi nuovi colleghi lo parlasse in modo fluente. Sorrise, mentre una piccola scarica di adrenalina le eccitava la schiena.

«Cosa ha detto, signorina?» le domandò Giacomo.

«Ehm... che vorrei capire bene come si fanno queste modifiche qui». Indicò una cosa a caso, e l'altro annuì, ricominciando a spiegare dal principio.

Il fotografo, Romeo, tornò alla carica dopo un poco, quasi lottando con il collega per poter parlare delle fotografie e di come caricarle sul computer.

Un'idea folle prese forma nella sua mente, e mordicchiandosi il labbro Suzune decise di osare.

«Baka»*. Stavolta lo disse con una voce appena più alta d'un sussurro, ma i due si limitarono a guardarla un attimo, per poi tornare a litigare su chi dovesse usare il mouse. Suzune represse a fatica un sorriso. Era chiaro, nessuno lì capiva il giapponese.

Aveva trovato un modo per dar voce ai suoi pensieri, senza che nessuno potesse intromettersi. Le scappò un sospiro di sollievo, così forte che i due litiganti si fermarono un momento.

«Tutto bene?» fece Giacomo. Suzune sorrise, arrossendo un po'.

«È... che sono molto felice voi mi stiate aiutando così tanto!»

I due ci cascarono in pieno, e anzi raddoppiarono gli sforzi per avere la sua attenzione.

Ad essere onesta, la cosa divenne presto insopportabile, al punto che la ragazza avrebbe voluto poter scomparire.

Poi, arrivò in suo soccorso la coppia di editor. Allontanato il fotografo, e dopo la fuga di Giacomo, lei rimase sola con l'altro ragazzo.

L'imbarazzo di parlare con qualcuno del sesso opposto, al momento, era mitigato dall'eccitazione di quello strano gioco. Poter dire quello che le passava per la testa, senza che nessuno la capisse, era per Suzune un piacere nuovo e inebriante.

Però, non sarebbe stato giusto prendere in giro anche lui.

In fondo, si era divertita a fare battutine sul fotografo solo perché lo trovava invadente, e anche un poco viscido, ma il ragazzo davanti a lei non aveva fatto nulla di male. Inoltre, era ora di chiarire quel malinteso.

Si era presentato come Mattia, per fortuna un nome facile da pronunciare per lei.

«Hoshino Suzune» disse lei, ma rendendosi conto di aver fatto, di nuovo, lo stesso errore aggiunse. «Mi scusi ma... ecco...»

Le parole non le venivano, e non vedeva modo di togliersi dall'imbarazzo senza fare una figuraccia. Non era nemmeno sicura che lì in Italia fosse così grave chiamare le persone col loro nome, e se quindi non si stesse facendo da sola dei problemi inutili.

«Non ti preoccupare, usate prima il cognome e poi il nome, giusto? A pranzo lo spiegherò anche al capo». Disse Mattia.

Per un istante, Suzune si sentì sollevare da terra. Non doveva dare spiegazioni, non doveva chiarire nulla, qualche divinità misericordiosa le aveva risparmiato tutta la sofferenza del rivelare l'errore e pagarne le conseguenze.

Un momento dopo, mentre Hoshino ritrovava la calma e cercava di darsi un qualche contegno, anche se avrebbe voluto saltellare felice, si ritrovò invitata a pranzo.

Di nuovo, forse era lei che viaggiava troppo con la fantasia, oppure era lei che si preoccupava troppo per nulla.

«Ah?! No grazie! Non ce ne è bisogno!» disse, e per sicurezza alzò le mani davanti al corpo. Anche quello, forse, sarebbe potuto essere un gesto sconveniente, o no, non lo sapeva. Di certo, alzare le mani in quel modo non sarebbe stato ben visto, ma al tempo stesso temeva di avvicinarsi troppo al ragazzo, così Suzune finì per muovere su e giù le mani, incapace di decidere dove posizionarle.*

Mattia si limitò ad annuire.

«Va bene, in ogni caso io scendo a prendere un caffè» fece quello. «Se non vuoi arrivare al bar, c'è una macchinetta nel corridoio in fondo, a sinistra, proprio davanti ai bagni»

Detto questo, il ragazzo si allontanò. Controllato che nessuno la stesse guardano, Suzune si lasciò cadere sulla sedia. Finse di lavorare al computer, mentre cercava di scacciare il rossore dalle sue guance.

Si era comportata malissimo, ne era certa. Quel ragazzo, Mattia, doveva essersi offeso e se ne era andato; certo, da un lato era felice che non avesse insistito, perché la sola idea di andare, da sola, in un caffè con un ragazzo le faceva tremare le gambe.

Sua madre le aveva ripetuto fino alla nausea, fino a quando non lo aveva sognato anche la notte, che le signorine per bene non vanno da sole con i ragazzi, mai, in nessun posto.

C'era anche da dire che sua madre era dall'altra parte del mondo, in quel momento.

Ma comunque, Suzune si era paralizzata, ricordando tutte le raccomandazioni dei genitori sugli uomini, e i commenti delle amiche sui ragazzi italiani.

Quel Mattia sembrava una persona per bene, e di sicuro c'era anche rimasto male per quel secco rifiuto. E poi, perché diamine si era messa a gesticolare? Cos'era, una bambina? Le persone adulte non muovono le mani quando parlano, suo padre glielo aveva sempre detto!
Non sapendo che fare, Suzune si alzò per dirigersi al bagno, dove forse, senza nessuno attorno, avrebbe potuto calmarsi.

Stava quasi per varcare la soglia, quando sentì una voce glaciale dietro di lei.

«Tu sei la nuova impiegata, vero?»

Quando si girò, Suzune trovò l'avvocato donna che aveva incrociato prima. E, se possibile, sembrava ancora più arrabbiata.





L'angolo delle cose inutili:

*Nome e cognome: spiegato nel capitolo successivo, ma qui lo iniziamo a esporre; in Giappone è tradizione presentarsi prima col cognome e poi con il nome proprio, cosa che crea questo piccolo siparietto alla povera Suzune; di solito, nella Terra del Sol Levante, è consuetudine chiamare gli altri usando solo il cognome, seguito da tutti quei suffissi diventati famosi con gli anime (-kun per i ragazzi, -chan per le ragazze, -san per gli adulti, tanto per semplificare), usare il nome proprio, senza aggiungere nemmeno un suffisso, è indice o di enorme maleducazione oppure di estrema intimità tra le due persone, ad esempio famigliari stretti (padre/madre/sorella/fratello) oppure amanti, per di più, in questo secondo caso, usare il nome anche tra amanti presuppone l'essere in un momento molto intimo, come ad esempio tra le mura di casa
Per fare un esempio, per la cultura giapponese, e per i genitori di Suzune, è come se Figliomeni, davanti a tutti, chiamasse la ragazza "tesoruccio mio"

*La tastiera: Suzune non è un'esperta di computer, e non so davvero che genere di tastiera usino negli uffici in Giappone, ma la nostra protagonista è abituata a quella del cellulare, chiamata "tastiera a scorrimento": il giapponese si scrive usando un sistema sillabico, in cui ogni simbolo rappresenta una sillaba (ha, sa, na, wa, eccetera), alcuni simboli però mutano di suono con l'aggiunta di alcune lineette vicino (て "te", che con le linee diventa で "de") e questi simboli nelle tastiere si trovano tenendo premuta la sillaba richiesta e "scorrendo" col dito nella direzione desiderata. Se ci aggiungiamo il cambio di alfabeto, non credo sorprenda che Suzune sia in crisi con la nuova tastiera

*Watashi o hanatte oite moraemasu ka?: 放っておいてもらえますか: "può lasciarmi in pace, per favore?"; come vedete, Romeo ha decisamente fatto colpo Xd

*Baka: バカ: "scemo"; attenzione, perché Suzune è comunque una signorina educata, anche con chi non se lo merita, e qui non usa la variante propriamente nipponica, ばか, omofono, che è più pesante come insulto, "idiota"

*I movimenti del corpo: al contrario che in Italia, dove siamo capaci di andare avanti per ore usando solo le mani per fare conversazioni complesse, nel resto del mondo si ostinano ancora a usare la voce. In particolare, in Giappone gesticolare troppo mentre si parla, guardare gli alti direttamente negli occhi e in generale stare troppo vicino all'interlocutore sono tutte cose viste come segno di grande maleducazione o tacciate come infantili, per questo Suzune cerca in tutti i modi di fermarsi. Non serve dire che Mattia non ci ha proprio fatto caso

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