Il trasferimento
Nonostante il vento sbattesse a raffica sulla sua pelle egli non indugiava, proseguiva il sentiero dalla fine ignota, solo perché sentiva di star facendo la cosa giusta.
Non passò molto tempo dal saluto di Ginevra a Klaus ed il suo ritorno nella bella Italia. Ella dovette frequentare ancora pochi anni di scuola mentre il ragazzo tornò al monotono via vai tra casa e quartier generale a Berlino per sistemare vari documenti assegnatoli. Per ora, fu quella la sua mansione. Quando sedeva alla scrivania e divideva i vari fogli immaginava di portare con sé il fantomatico libro e soddisfare l'assidua curiosità che lo premeva. In pochi mesi lo aveva letto quasi completamente e si sentì quasi in preda all'esasperazione nel comprarne un altro ma non ve ne erano molti, in quei tempi.
Poco prima di tornare a casa, un superiore volle parlargli nel suo studio così Klaus vi entrò e rimase diligentemente in silenzio ascoltando tutto il solito discorso su quanto stesse facendo il fuhrer per la loro nazione e quanto ancora tutti loro si sentissero con lui in debito. La devozione per quella figura era ben evidente, quasi tutti i cittadini di Francoforte commentavano positivamente le azioni del Partito Nazionalsocialista come la promulgazione delle ultime leggi stimanti una razza pura e perfetta, quale descriveva il tedesco imperterrito pioniere di una Germania forte più degli anni passati.
Klaus notò anche come l'astio verso le altre culture era cresciuto, quando pochi anni prima era solito compare il gelato da un signore tanto simpatico ma ebreo ed ora che non lo vedeva più appariva sempre una smorfia sul suo viso ma non su i suoi concittadini, a sparlare di lui e della sua famiglia descrivendola come la peggior feccia della città. Tenne segreto anche quello, ovvero che detestava ciò che suo padre, suo zio, la sua patria stava facendo, poiché era abbastanza sveglio da capire che nessuna forma di discriminazione doveva essere ammessa e che non si trattava di un gioco tra preda e predatore ma di persone in carne ed ossa, con dei sentimenti e con una coscienza.
Si risvegliò da quel flusso di coscienza per delle parole insolite provenienti dal suo superiore lasciandolo interdetto.
«Questa è un'ottima possibilità per farsi notare un po' di più tra noi, non crede?» Accennò un sorriso compiaciuto. «Domani la farò mettere in contatto con uno dei comandanti del campo, anche lui è di Francoforte, avrete molto da dirvi.» Constatò accendendosi un sigaro in mezzo alla stanza.
Klaus salutò col braccio teso verso l'alto come un burattino, tornando silenziosamente nella sua città assieme a suo padre. Reinhard ed Helene erano più che orgogliosi del figlio, nonostante solo il padre sapesse ciò che avrebbe dovuto realmente fare. Klaus salì in camera e sistemò alcune camicie nella valigia sbuffando. Sotto di esse vi nascose il libro ed alcune vecchie lettere di Ginevra che leggeva spesso per sentirsi più confortato.
D'un tratto, tirò un calcio all'angolo del letto sentendosi come in gabbia per tutta quella situazione; terribilmente inadeguato, debole, perché sapeva che non aveva gli stessi principi dei suoi coetanei eppure stava diventando una figura ben vista ed apprezzata da tutti.
Passò la notte disteso di un lato nel suo letto, verso la finestra dalla quale la luna rifletteva una luce fredda in bande lungo la sua stanza. Preso dalla desolazione, raccolse carta e penna e scrisse tutti i suoi pensieri in quella lettera che il mattino seguente avrebbe spedito in Italia. Avrebbe voluto mai essersi arruolato, mai esistere a quel punto. Un enorme senso di responsabilità misto al timore del deludere i suoi genitori premeva sulle sue spalle facendolo, poco a poco, sbattere la fronte al pavimento. Avrebbe tanto desiderato vivere in un'epoca diversa, fuori da una guerra senza motivazione, raggiungere il suo sogno per poi morire con la consapevolezza di aver vissuto a pieno.
Accartocciò il foglio con pugno stretto ma, pentendosi, lo riaprì delicatamente cercando di appiattirlo il più possibile. Lo lasciò così, non utilizzò un altro pezzo di carta, era stanco e la testa gli pulsava, tanto che si addormentò sulla scrivania e con la luce accanto ancora accesa.
Il mattino seguente segnò un ricordo dolente nel cuore del ragazzo. La madre lo abbracciò forte mentre il padre, mantenendo sempre quel distacco formale, lo salutò col braccio ben disteso verso l'alto, facendo innervosire Klaus ma che riuscì a non trasparire alcunché.
Raccolse la valigia ed entrò nella macchina di un suo collega incaricato nell'accompagnarlo in Weimar.
Nel pomeriggio, Klaus conobbe uno dei due comandanti, il più loquace, che gli mostrò come veniva gestito quel campo, quali regole vi erano, quanti internati vi stavano e la sua provvisoria abitazione, al di là della foresta di faggi.
La prima cosa che notò il ragazzo, una volta sceso dalla vettura, fu la desolazione.
Il silenzio incombeva in quell'ampia terra cinta da filo spinato, torri di controllo ed anche puzza di polvere da sparo. Era settembre ma il freddo non mancava affatto, la sua pelle chiara subì un lieve rossore sul dorso delle mani e sulle guance, nonostante fosse ben coperto da una pesante giacca.
«Klaus, posso darle del "tu"?» Si rivolse a lui il comandante sorridente, mentre lo accompagnava alla nuova abitazione di Klaus, una casa d'un piano solo con ampia sala ed un letto matrimoniale in camera.
«Sì, signor comandante Hauster.» Rispose neutrale lui, focalizzato più sulle pareti della casa, appena tinteggiate. Sembrava nuova, in effetti.
«Anche tu, quando siamo soli chiamami pure Walter. Immagino tu non sappia i tuoi turni, bene, eccoli.» Gli porse un foglio scritto a penna con orari lunghi ma differenti in base ai giorni della settimana.
«Ti ringrazio, Walter.»
«Veramente una bella casa, non trovi?» Si guardò intorno, sorridendo di tanto in tanto a Klaus.
«Sì, lo penso anche io.»
Walter accompagnò Klaus oltre i cancelli del campo, ignorando appositamente persone morenti o sfinite dal lavoro per guidare il ragazzo verso una baracca dedicata solo alle ss dove altri lo accolsero calorosamente.
Era appena mezzogiorno ma alcuni di loro si presentarono trasandati, ubriachi, con le gote rosse dalla birra.
«Oliver, festeggi presto oggi!» Commentò il comandante, salutando ognuno di loro col suo caratteristico sorriso a denti stretti.
Fece accomodare Klaus ad uno dei tavoli, appena in fondo, invitandolo a prendere del cibo appena cotto ma non seppe da chi.
Appena diede il primo boccone subito si sentì in pace con lo stomaco, era delizioso, magari qualcuno nell'esercito aveva anche una dote in cucina oppure dovevano esserci le mogli.
Si voltò crutando appena oltre un muro divisorio, l'arco al centro di esso gli facilitava la vista della cucina potendo notare due donne intente a preparare qualcos'altro.
«Klaus, giusto? Il tuo nome non mi è affatto nuovo, hai battuto valorosamente al fronte.» Un suo collega commentò, scuotendolo dai suoi pensieri. Era alto, ben più grande di lui, dalla chioma corvina e due occhi gelidi come l'inverno che intimorirono in un primo momento il giovane.
«Sì, è vero.» Non gli piacevano le adulazioni, si limitò a sorridere, restando in silenzio per gran parte del discorso di quei colleghi vicini di posto che invitarono lui ad una sorta di festa la sera seguente.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top