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  " C'era una volta, oltre le Colonne d'Ercole, poco prima del Nuovo Continente, un'isola abitata da fantastiche creature. L'erba era sempre verde, i ruscelli perennemente gorgoglianti d'acqua trasparente e cristallina, ove i pesci nuotavano impazienti. Gli alberi erano in fiore, come bloccati in un'eterna primavera che portava api e farfalle in mezzo ai rami per usufruire al meglio del buonissimo nettare sia delle piante più alte, sia dei cespugli e arbusti che crescevano a contatto con il soffice terreno, anch'essi ornati di bacche colorate e profumate.

La mattina, quando il carro d'Apollo passava ad illuminare quei paesaggi degni della visione divina, svegliando dapprima le ninfe e poi i satiri e i centauri, era il momento più calmo sull'isola in mezzo all'oceano poiché la notte, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, era perennemente illuminata e decorata a festa. Non c'era sera lasciata senza musica, canti o balli, ornata da mille ghirlande di candidi fiori, rallegrata dalle chiacchiere e dai cori delle ninfe più anziane.

Spesso le feste però erano organizzate dai satiri, bestie dalle sembianze caprine, maestri del suono , soprattutto quello del flauto, senza scrupolo alcuno, soffocati del desiderio. Alle ninfe minori era proibito lasciare le proprie dimore, oppure rincasare dopo l'alba del Grande Carro.

Certo, pensare di uscire durante la notte, sole, mosse solo da una lacerante curiosità, agli occhi delle ninfe maggiori era considerata pura follia, ma pensare che le più giovani avessero dato loro retta, era considerata follia ancora più grande.

Ci fu una sera, in particolare, che attirò l'attenzione di una di queste donne fatate. Era saggia abbastanza da capire che ogni consiglio dato dalle ninfe maggiori era da prendere e farne tesoro, ma era anche giovane, ribelle e testarda da farsi guidare dalla curiosità in quella notte che risplendeva di costellazioni e comete. Infranse le regole nel giorno meno adatto. Un'importante celebrazione, ecco quello che aspettava la fanciulla, dove potersi mimetizzare agli occhi delle superiori, passare inosservata provare la brezza della disobbedienza per la prima volta.

E cosi fece, aspettò ed aspettò finché gli Dei non ascoltarono le sue preghiere.

Un satiro, decisamente molto più giovane e furbo degli altri, diede un'enorme festa in nome di Dionisio, invitando satiri e centauri da tutti gli angoli dell'isola, proponendo anche alle ninfee più mature di partecipare. E fu proprio quella sera, che la ragazza colpì.

Quando arrivò il crepuscolo, per ingannare le maggiori, mise sotto al suo telo da notte un grosso cumulo di foglie e fiori, formandone una figura dormiente. Prese un velo più spesso di un candido bianco mettendoselo attorno alle spalle ed uscì allo scoperto.

La paura lasciò presto spazio all'eccitazione ed al desiderio di conoscere, il brivido della trasgressione era sempre più forte. Corse fino ad arrivare alla radura, illuminata da candele ad olio e lucciole. La musica era udibile fino ad una distanza di 100 piedi, e i cori delle ninfe accompagnavano il suono della cetra e del flauto con grande maestria.

Al riparo, dietro un albero da frutto tutto decorato, la giovine ninfa osservava le sue simili nate prima di lei ballare abbracciate a bestie caprine ed equine, ignorando i buoni costumi che le avevano tanto imposto. Una vera ipocrisia, pensò la ragazza.

Ma proprio quando riuscì a farsi spazio ed ad entrare nella cerchia gaia, la musica si fece più lenta e le lucciole furono liberate dai vasi di vetro, facendo assumere alla festa un'aria più tranquilla e misteriosa. I satiri presero per mano le anziane creature dall'aspetto umano e con una calma quasi maligna le accarezzavano, dalla bocca fino al seno, e loro chiudevano gli occhi in quello che era diventato a tutti gli effetti un gioco creato dalla cerchia degli Eroti.

La giovane, spaventata, volle fuggire, presa dal panico che la sua verginità le fosse strappata via.

E mentre si pentiva dei suoi gesti, volente di raccontare alle sue superiori della sua imperdonabile disobbedienza, vide due occhi nel buio. Non la spaventarono, ma non le diedero nemmeno sicurezza. La ragazza dalle gote arrossate e dei ciuffi bruni, al contrario, ne era come stregata. Erano occhi profondi come gli inferi, ma rassicuranti come la voce di una madre alle orecchie del proprio primogenito. Poi, all'improvviso, gli occhi parlarono.

- Non credo che sia consigliato ad un a ninfa graziosa uscire ed avventurarsi in queste località... - le due fiammelle cupe avanzarono, cercando di farsi spazio tra l'oscurità della notte grazie al fioco chiarore della Luna, ma si fermarono tutto d'un tratto.

- Non ho timore di voi, o baritono suono. Al contrario, sembra che voi ne abbiate di me, così tanto che non siete in grado di celarvi sotto la pallida luce – senza fretta alcuna, seppure il cuore correva alla velocità di cento bighe trainate dei più potenti cavalli dell'isola, la giovane raccolse a sé il limpido mantello e si nascose i capelli. E quando rialzò lo sguardo, i due pozzi neri come l'ira di Ade, erano spariti. Al loro posto, sul prato, un bracciale della migliore fattura, intrecciato con pelle scura e scaglie d'oro. Fu di certo una sorpresa gradita, che d'altra parte lasciò un malcontento nell'animo della fanciulla, che arrivata a casa, si lasciò abbandonare tra le braccia di Morfeo.

Il mattino giunse senza preavviso, turbando l'animo di per sé sconvolto della ninfa dalla frangia nervina. Si sbrigò a prendere dei teli puliti e a raggiungere le sorelle al fiume, già pronte per la rinfrescata mattutina. Le trovò già spogliate delle loro vesti, immerse fino alle spalle nel piccolo golfo popolato dai più variopinti pesci e creature.

- Sei in ritardo...- l'ammonì Agape, la sorella maggiore, mentre si faceva massaggiare ed oliare la schiena da una piccola sirena. L' Ae non rispose, si levò i soffici panni e si tuffò delicatamente, lasciando che i capelli si impregnassero d'acqua.

- Mi auguro per te che sia l'ultimo o che possa Apollo punirti.

Ed ancora la più anziana non ebbe risposta, poiché la sua sottoposta era persa nel pensiero di quelle fiamme che riecheggiavano di pericolo e viscida lussuria.

Si accarezzò il poso ornato, come per implorarlo di riportarlo al suo creatore e si maledì per la curiosità assassina che provava e che avrebbe potuto saziare solo quella sera.

Infatti, non contenta e sommersa dai dubbi, decise di ritentare e di uscire nuovamente dopo il crepuscolo. Sempre cauta, ripose un grosso strato di piante profumate sul suo materasso e sul suo guanciale coprendolo per bene ed uscì all'insaputa delle altre.

Eppure, non sapeva nemmeno dove volesse cercarlo, dato che conosceva solo il timbro della voce, la misteriosità degli occhi e il suo odore fresco e selvatico. L'unica sua certezza era che voleva risposte, e al più presto. Corse fino alla dimore delle Anthuse, ninfe dei fiori, e bussò alla finestra della camera della più giovane della casa, Floris, sua cara amica. Le raccontò l'accaduto della scorsa nottata, a come si fosse sentita così nuda sotto quello sguardo impetuoso e, sorprendentemente, l'amica ne era a conoscenza. Lei conosceva il possessore di quegli occhi, e promise alla ragazza che lo avrebbe conosciuto, se era questo ciò che le aveva riservato il Fato, ma la mise in guardia: era un essere pericoloso, aveva una infama che lo perseguitava. Ma la fanciulla non era per nulla scalfita da questa notizia, anzi, fremeva ancora più per vedere il portatore di quelle fiamme nere.

Il desiderio si stava tramutando in un pensiero ossessivo e martellante. Da quando le aveva incontrate, quelle lampade, non faceva altro che pensare chi poteva esserne il degno portatore. Sicuramente una divinità, Cupido, protettore del vizio e del peccato d'amore, bellissimo e leggiadro. Oppure, volendo puntare a qualcosa di più realistico, un mezzosangue, Achille, con il fisico statuario e con la forza di cento leoni... Al vento le parole dell'amica fidata, continue nel volerle far cambiare idea ma la ninfa dei boschi era sempre più orgogliosa e sicura del fatto suo.

Ringraziò l'amica e decise di tornare alla radura della sera precedente. Chissà se l'enigmatica creatura si sarebbe palesata anche quella sera.

Nessun decoro ornava gli alberi, nessuna lucciola brillava in piccoli ampolle, solo il frinire dei grilli e una tiepida brezza che veniva dal mare. Senza veste alcuna, quel prato circondato dai faggi era quasi lugubre. Si sedette al centro del prato, ed intonò un canto, a bassa voce, per tenersi compagnia. Non si voleva già arrendere al Fato, a tutti i costi, avrebbe voluto precederlo.

E mentre la ninfa cantava, accompagnata solo dal soffio del vento, un ennesimo suono si unì alla voce della ragazza: il suono di un flauto.

Satiri... ignobili creature, pensò la giovane, alzandosi e voltando il viso verso la fonte di quel suono, che a poco a poco si faceva sempre più vicino, finché dal bosco non spuntò proprio una di quelle bestie cornute. Come tutti i suoi simili non eccelleva di nella statura, ma aveva una muscolatura tonica e delle spalle possenti. Le piccole protuberanze ossee che lo contraddistinguevano erano affilate come rasoi, simbolo di giovinezza, e le mani che impugnavano il flauto non erano per nulla nodose e secche, bensì degne di incorniciare al meglio le braccia ricoperte di morbido pelo scuro.

Mascella serrata e viso con i primi accenni di una tenera barba. La ninfa era sospesa in un limbo: scappare e mettersi in salvo, o aspettare che il satiro la riconoscesse? Perché si, lei era convinta che fosse lui il suo salvatore, non poteva immaginarselo diversamente.

La belva ancora quieta posò il flauto nella custodia, ma era ancora troppo lontano affinché la ninfa potesse guardarlo diritto negli occhi. Ci fu un momento di silenzio che parve interminabile, poi la carogna disse:

- A cosa devo questa piacevolissima visita da parte sua, madamigella... - la voce non era come se la ricordasse, ed invece di correre via e tramutarsi in un castagno li più lontano da lì, la giovane decise di rispondere a tono.

- Non condividerò tali segreti con uno sconosciuto, le chiedo perdono o buon signore.

Mentre lei parlava, lui si avvicinava sempre più.

- Quale disonore. Andròs, lieto. - erano a pochi palmi di distanza, la ragazza iniziò ad indietreggiare.

- La sua presenza non mi da sgomento... - la ninfa era un'abile illusionista nel camuffare le proprie paure ed insicurezze. Si strinse forte il laccio decorato quando notò la mancanza delle luci nere che tanto cercava. Al loro posto, iridi verdi illuminate dalla delicata luce del Carro Minore. Fu questo dettaglio a tradirla, a far crollare tutto il muro che tratteneva il suo terrore. Si voltò e provò a proseguire ma il mostro le prese il braccio, portandosela a sé.

- Già di ritorno? Non è buon costume... - il sussurro del mezzo animale le arrivava alle orecchie come un sibilo malvagio. Le strinse forte il braccio, graffiando la pelle della povera ragazza, che con gli occhi velati implorava pietà. La bestia si accarezzò le labbra, già pregustando la dolcezza di una ninfa giovane e intoccata. Se la portò con la schiena a contatto con il petto villoso, le bloccò il collo un una mano e con l'altra provò ad addentrarsi sotto le vesti della ragazza, che urlava e si dimenava, pensando a quanto fosse stata sciocca ad uscire quella sera ed a scherzare col Fato, così potente che nemmeno la furia di Zeus lo avrebbe potuto cambiare. Ma poco prima che il satiro maligno compisse l'atto, cadde a terra sanguinante e belante dal dolore. Uno spirito magnanimo lo aveva colpito all'altezza dei reni con un pugnale d'argento. Ancora sconvolta, la ninfa si scostò di dosso l'animale e senza voltarsi, si perse nel bosco. Corse e corse a perdifiato, senza mai voltarsi indietro. Non aveva nemmeno interesse a guardare in faccia il suo salvatore, grave errore.

La sua fretta la tradì, poiché se soltanto avesse girato il viso, avrebbe potuto precedere il Fato.

Infatti, nella radura, il dono degli Dei, estrasse la piccola spada dalla schiena del satiro, che imprecava dal dolore contro l'ombra, che pulì l'arma nell'erba smeraldina.

- DANNATO TE E LA TUA STIRPE! - era così furioso che usò i suoi fiacchi respiri per maledire l'amico fidato, che senza dire una parola estrasse da un'ampolla un po' d'Ambrosia e gliela posò con forza sulle labbra.

- Taci, e fa si che non mi debba pentire di non averti mandato negli Inferi...

- Sei il peggior traditore di noi altri! - la ferita smise di colare, il sangue si coagulò pian piano - Symeon. Da quando ci si prende gioco di un fratello vicino?

- Se ti fossi limitato ad andartene suonando e l'avessi lasciata in pace, non ti sarebbe successo nulla - con calma infinita, ripose l'arma nella fondina. Il pelo della bestia protettrice si increspò sotto il silenzioso vento notturno, mentre gli occhi profondi e scuri rimiravano la Luna.

Un sorriso beffardo comparve sul viso dell'altro:

- Non ti vorrà mai come la vuoi tu... siamo quello che siamo, che tu sia cosciente o meno.

- Preferisco marcire nel Tartaro che abbandonarmi a questa idea – il satiro innocente si spostò con zelo i capelli dalla fronte, cercando di incastrarli dietro le corna appena nate e molto pungenti – non sarò mai come tutti voi, schifose bestie da soma.

- Sei sempre stato il più debole del gruppo – lo schernì sputando accanto ai suoi zoccoli bruni – una ninfa non va corteggiata da un rifiuto di Nicea, ma solo fatta cadere in ginocchio senza pietà alcuna.

Disgustato e ferito dalle parole di Andròs, il giovane guaritore prese una strada per il bosco e decise di perdersi. Si sedette quindi ai piedi di un cedro e si addormentò in silenzio.

La mattina seguente, il satiro si risvegliò in un groviglio di gelso in fiore che si disperdeva su tutto il suo corpo ricoperto di scura pelliccia. Ad occhi socchiusi, ancora incredulo, cercò di volgersi verso est ma le corna erano anch'esse legate dello stelo prensile della pianta dai fiori bianchi e candidi.
-E' sveglio! E' sveglio!! – la voce acuta e femminile che proveniva da poco lontano per poco non lo assordò, ma lo trascinò finalmente alla realtà.
Un miscuglio di figure, che ancora il suo occhio intorpidito non riusciva a distinguere, lo circondò ben presto e un poco misero inquietudine al povero satiro indifeso, privato del proprio coltello e della propria sacca ove conteneva tutti i suoi più preziosi averi quali un'ampolla quasi terminata di Ambrosia e una manciata di fiori essiccati per la pronta guarigione. Le ninfe che lo circondarono, con curiosità e maligna inquietudine, si diramarono e fecero spazio alla loro regina. Una donna segnata dall' inesorabile passaggio del tempo, dai capelli chiari e dalla pelle candida. Spiccava sulle sue discepole grazie alla postura eretta e l'andamento elegante, leggera come il soffio di Zaffiro. Guardò con ripudio il satiro e con la mani accarezzò le caprine curvature ossee sulla fronte con disprezzo.
-In che modo si è permesso di arrivare fino a qui, cercando di usufruire delle mie figliole. Confessa i tuoi peccati o sarò costretta a spedirti diritto agli Inferi...

La voce ferma della donna pietrificò il satiro, che riuscì solo a deglutire rumorosamente.

- Madre! Che sta succedendo! - la ragazza, destata dal trambusto sotto la sua finestra, corse in piazza per vedere il motivo di tanto caos.

- Sara... accomodati... stavamo giusto per offrire questa bestia ad Ade, prego...

- Non siamo devote degli Inferi... - la ragazza volse lo sguardo al mezzo uomo intrappolato nella pianta, che si dimenava nel vano tentativo di liberarsi, e fu allora che la ragazza lo riconobbe.

Riconobbe quelle fiammelle scure e brune, ora specchio di preoccupazione e ansia dovuta all'incertezza della sua sorte. Ma anche il satiro, notando la fanciulla, ne rimase sconvolto.

Pensò a quanto fosse bella, e quanto a lungo l'avesse desiderata, e notò con piacere che il braccialetto che aveva perso quella fatidica nottata, lo avesse lei.

La giovane si pietrificò, come se Medusa fosse comparsa da dietro uno dei verdi cespugli e l'avesse stregata. Si trovava in bilico in un limbo definito dall'amore che provava verso sua madre e la curiosità rosa che la riempiva ogni volta che guardava la creatura, perdendosi nei suoi pozzi neri.

Pallida, cadde a terra, e le sue sorelle corsero in soccorso.

- Sorella, che ti accade! Madre! Presto, della lavanda! - per un attimo, tutta l'attenzione delle ninfe, compresa quella regina, si volse alla piccola principessa che stava solo donando tempo al satiro per fuggire.

In tutto quel trambusto infatti, le giovani lo avevano inconsciamente lasciato incustodito, che non curante della sua libertà, si era sforzato di allungare l'occhio per vedere se la sua amata stesse bene e non si fosse procurata alcun dolore. Ma poi, temendo per la sua vita, iniziò a sfregare le corna come meglio poteva contro i rami del gelso, che si scissero in vari punti, permettendogli di strappare la pianta che lo teneva intrappolato e di correre via.

Quando la giovane vide che del satiro ne rimanevano solo un mucchietto di peli scuri, prese un forte respiro e si alzò a sedere, ma non poté aprire bocca che una ninfa urlò in preda allo spavento.

- E' fuggito mia signora! Il satiro è scappato!

- Lasciamolo che se ne occupi la Natura e tutti i suoi pericoli... se dovesse riavvicinarsi alle nostre terre, non lo lasceremo di certo in vita...- la donna volse lo sguardo e portò il capo della sua primogenita al petto - l'importante è che tu sia salva... che cosa ti è preso?

Ma la giovane non rispose, desiderava solo che il satiro fosse al sicuro, lontano da li, anche se avrebbe voluto dire non vederlo mai più. Iniziò a piangere tanto era il dolore che provava e sua madre, sempre più preoccupata per la reazione della figlia, ordinò che fosse portata nelle sue stanze.

La ragazza, durante la notte splendente di una luna piena, così bianca da far sembrare i bucaneve quasi ingialliti, fece scorrere lacrime amare nel pensare che non avrebbe più potuto incontrare quello strano uomo che l'aveva fatta genuinamente innamorare. E con lei, anche il satiro pensava a questo, e se ne rammaricava ad ogni metro che affrontava col il fiatone, per tanto era il percorso ormai bruciato sotto i suoi zoccoli.

Passarono così le notti e le giornate, di festa e di gioia, che rimbombavano nel silenzio della sera e sopratutto nella testa della povera ninfa costretta a riposo. Aveva già provato a scappare, ma sua madre la teneva reclusa nella sua camera, con vivande a sufficienza e una cetra per passarsi il tempo. Inoltre la sua finestra era stata ricoperta di in lieve strato di stucco fatato, incredibilmente resistente, che non permetteva in alcun modo di essere aperta. Solo uno spioncino, privato del vetro, per far circolare un minimo l'aria. E mentre le altre sue sorelle ninfee cercavano in qualunque modo di divertirsi, come a farsi beffa di Sara, in punizione, lei non stette un secondo solo con le mani in mano, anzi. Con la cetra che le era stata fornita, ed il libro delle arti alla sua portata, incantò giorno dopo giorno una melodia così delicata che solo orecchio esperto poteva udirla. La canzone dovette viaggiare, alla ricerca del mittente per molto, ma alla fine lo raggiunse.

L'orecchio in questione era quello di un piccolo elfo dalle dimensioni di tre mele impilate, veloce arciere e abile conoscitore delle lingue antiche: Markos.

Infatti, la piccola creaturina, appena sentì quella lirica che solo dita piccole e delicate avrebbero saputo estrarre dalle dure corde dello strumento, lasciò subito i suoi mestieri e corse verso casa dell'amica, che a cavallo di una volpe raggiunse in un battibaleno.

Una volta giunto sotto la finestra stuccata, vide la principessa, che subito non perse tempo a spiegargli il piano: avrebbe cercato le chiavi della stanza, che sua madre avrebbe dato a qualche ninfa cosicché potesse andare a una delle tante feste, entrare dalla piccola finestrella senza vetro e darle la libertà prima che qualcuno potesse scoprirla. E così il suo fidato compare fece.

Non fu cosa difficile trovare la ragazza a cui era stata assegnata la chiave, dato che come un trofeo la faceva tintinnare sul fianco coperto da un panno leggero.

Con astuzia e fiutando anche un ottimo affare, si avvicinò alla giovane con fare guardingo, le toccò una gamba e le disse, quasi sussurrando:

- Mia signora, mia signora, posso rubarvi solo pochi minuti del suo tempo prezioso? Mi sono perso, e ho bisogno di un'indicazione...

La ragazza, per nulla sospettosa, si chinò e sorrise.

- Certo piccola creazione del bosco, che cosa ti occorre?

- Mi saprebbe indicare la retta via per il mercato più vicino? Avrei della merce da vendere al più presto, non voglio che la sua qualità ne venga intaccata...- il folletto, che se la rideva sotto i baffi, abbassò ancora la voce di qualche tono, incuriosendo la giovane.

- Ne sono mortificata, ma il mercato oggi è chiuso perché è festa... ma domani-

- domani sarà tardi... sa, il bello del mio mestiere purtroppo è la sua stessa caducità... peccato, buona giornata - Markus fece per allontanarsi ma, come se fosse stata un'operetta già scritta, la ragazza lo fermò, assetata di curiosità.

- Scusi ma che genere di stregonerie vende lei?

Soddisfatto, il furbo elfo estrasse dalla sua sacca scusa un fiore verde smeraldo che odorava di libertà selvatica, ornato da piccoli cristalli bianchi che decoravano la pianta come un manto di neve.

Alla ragazza s'illuminarono gli occhi, ed iniziò a salivare.

- La riconosci?- a contrario di quanto potreste pensare, la creatura non ne era per nulla sorpresa.

- Lo stelo di Ermes è proibito da tutta la facoltà delle ninfe... sono passati anni da quando ne feci uso un'ultima volta...

- Allora ho proprio avuto fortuna a incappare in te e non in una tua coetanea contraria – la recita continuò – ma ora non ha più importanza, se non riesco a venderla entro il tramonto io -

- Te la compro io – disse di getto la donna. Aveva abboccato come un pesce all'amo.

- Non saprei, di solito la vendo ad un prezzo che ben pochi si possono permettere... tu che hai da offrire?

Senza pensarci un attimo, la ragazza prese la chiave, tutta dorata e impreziosita, e gliela porse.

- Se la fondete, potete ricavarci più di quanto abbiate mai guadagnato in una singola stagione di buoni incassi! - prima che potesse cambiare idea, il folletto acconsentì allo scambio e in sella alla sua fidata volpe scappò via come se il tutto non fosse mai accaduto.

Raggiunta la casa della principessa, si arrampicò lungo l'edera che ornava il muro a secco della stanza, entrò quatto quatto nella camera e liberò la fanciulla, che in cambio gli permise di tenere la chiave e di fonderla per ripagare effettivamente il fiore prezioso.

Mancavano poche ore al tramonto, e la ragazza non sapeva più dove andare. Lontano, di questo ne era certa. Voleva scappare da quella gabbia che la teneva prigioniera e rincontrare almeno per una volta l'oggetto del suo desiderio, anche se per natura nessuno lo avrebbe mai accettato. Tanto meno i suoi cari, le sue amiche e sua madre.

Torturata da questi pensieri, arrivò in una radura, proprio quella che aveva fatto da cornice al loro primo incontro. Si sedette a terra, mentre il vento soffiava piano e il cielo diveniva un giardino di pesci, albicocchi e aranci maturi. Pensava a come sarebbe stato bello tornare a quella sera, e senza accorgersene, iniziò a piangere in silenzio, soffocata dalla malinconia. Una di queste lacrime però, cadde proprio sul bracciale di cuoio intrecciato che le aveva tenuto compagnia per tutto quel tempo e una luce aurea iniziò a ornare il polso della ragazza. Proprio nel momento in cui questo iniziò a brillare, dall'altro lato della foresta comparve un bagliore simile.

Non era ancora buio e le forme si distinguevano più che bene.

Il nostro satiro, che si vide brillare lo stinco a cui aveva attorcigliato uno dei numerosi fili che portava per ornamento, rimase stupefatto. Non gli era mai stato detto che fosse fatato. E notando una luce simile provenire dall'alta metà del verde prato, assottigliò lo sguardo e la vide.

Non ci voleva credere, ma era lei. Dopo notti intere passate ad aspettare un segno da parte della sua amata, Zeus lo aveva voluto premiare. E come attratta verso la luce, anche la ragazza notò il satiro. Era lui. Era la ragione per cui aveva pianto e si era disperata a causa della mancanza, sebbene non avessero mai passato veramente tempo assieme. Senza che nessuno disse a loro nulla, iniziarono a correre l'uno contro l'altra, scontrandosi in un abbraccio silenzioso, cullato solo dal rumore dei grilli e dal soffio di Zaffiro, seguito da un bacio che viene ancora citato nelle grandi opere dell'isola.

Da quel giorno nessuno rivide più né la giovane principessa, né il filarino satiro, si dice che siano scappati sulle coste, per iniziare una nuova vita assieme, e che vivano finalmente felici."

- Io sarei rimasto qui ad ascoltare tutta questa poltiglia greca? - la giovane pirata non gradì affatto il commento del suo compagno di bordo.

- Se proprio i miei racconti non ti vanno bene, inizia a scriverli tu invece di poltrire sottocoperta.

- Una donna al timone porta sfortuna, non lo sai?- di tutta risposta, la ragazza prese per la camicia il Capitano che avrebbe, a detta sua, guidato la bagnarola, e gli abbassò il tricorno sugli occhi con forza.

- Damerino di un corsaro, non ti permettere mai più! - a quei due piaceva scherzare, ma sotto sotto si volevano un gran bene.

- Comunque hai fatto un'ottimo lavoro. Appena torneremo in Inghilterra lo venderemo alla regina per i suoi figli... è veramente un racconto degno di una sceneggiatura di Shakespaere! - il ragazzo, che nonostante l'età aveva un corpo muscoloso e due spalle larghe, prese il suo vice capitano in braccio e lo fece volteggiare, baciandole teneramente la guancia.

Ma prima che la ragazza potesse ricambiare, in mozzo interruppe il momento che si era creato, affannando un "terra Capitano!terra a tribordo!!". A quelle parole, l'affascinante giovane si ricompose e afferrato il binocolo commentò :

- Sembra proprio che l'isola di cui racconti non sia così lontana come credi, Sara.  

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