23
Giorno prima delle Calende di febbraio (31 gennaio)
Livia osservò gli ospiti accomodati sui triclini. Fabia e Cosso, vicini, le mani intrecciate. Aureliana compostamente seduta su un divanetto, le gambe accavallate. Citera e Gioviano, il braccio di lui sulle spalle di lei. Eona, l'unica in piedi, alle spalle della sua benefattrice.
Livia si schiarì la voce, percependo l'emozione di quel momento. «Grazie per essere venuti tutti. Ringrazio in particolare il senatore Cosso, che ha sospeso le ricerche di sua sorella per essere qui. E la vestale Aureliana, per aver chiesto un permesso speciale per raggiungerci.»
«Ci sono novità? Avete trovato Papiria?» domandò subito Cosso.
«Ogni cosa a suo tempo. Vi ho riuniti tutti qui, oggi, per dirvi che ho scoperto chi c'è dietro gli omicidi dei vostri congiunti.»
«Avete scoperto l'assassino?» domandò di nuovo il senatore, sollevando un sopracciglio. Quell'uomo non aveva la minima fiducia in lei.
«Non è stato facile. Molti di voi mi hanno mentito. Altri hanno raccontato solo una parte della storia. Ma alla fine la verità è emersa. È quello per cui avete pregato al suo tempio, Fabia. O sbaglio?»
Lo sguardo della giovane si fece inquieto e le sue guance si imporporarono. Abbassò gli occhi.
«Ma permettetemi di cominciare dal principio» fece Livia, iniziando a passeggiare intorno ai suoi ospiti. «La ragione per cui ho dedicato anima e corpo a questa indagine è che credevo che Aurelia fosse morta bevendo un veleno destinato a me. In realtà, è emerso poi, la matrona era stata avvelenata ancor prima di bere il mio vino. Secondo il mio fidato medico Asclepiade» e Livia fece un cenno al greco, che osservava la scena poco distante, «il veleno da lei assunto e il veleno contenuto nel mio calice erano i medesimi. Aconito. È una pianta piuttosto rara in questo periodo, dal momento che fiorisce in piena estate. Il che mi fa pensare che l'acquirente abbia sborsato una bella cifra per ottenerlo. Se ingerito in dose leggera, l'aconito provoca gli stessi sintomi di un'intossicazione: dolore alla pancia, bruciore di stomaco... In dosi più massicce agisce più lentamente, causando alterazioni cardiache e infarto.» Livia si portò dinanzi agli ospiti, fissandoli uno a uno. «Aurelia è morta a causa di un arresto cardiaco causato dall'assunzione di una forte quantità di aconito circa due ore prima. Ciò è compatibile con ciò che mi ha riferito Fabia: ovvero che Aurelia aveva bevuto un calice di vino subito prima di venire qui. Qualcuno avrebbe dunque avvelenato quel vino e nel giro di due ore l'aconito avrebbe fatto effetto, stroncando la vita della donna. La schiava che le ha portato il vino mi ha anche detto che si trattava di Cecubo.»
Da una porta laterale entrò la schiava di Fabia, Erìke. Teneva gli occhi bassi e tremava, impaurita. Livia non era stata troppo dura con lei. Le aveva solo detto che le avrebbe tirato fuori la verità in qualche modo. Stava a lei decidere quanto rendere doloroso quel modo. Erìke aveva iniziato a parlare dopo un solo schiaffo di Zosimo, e non si era più fermata.
Livia portò lo sguardo su Fabia, che si era fatta ancora più rossa. «E qui sta la prima menzogna: la sera del banchetto, Aurelia mi disse che stava cercando di evitare il vino perché due sere prima era stata a un altro simposio e aveva esagerato col dono di Bacco. Ma dopo averla persuasa ad assaggiare il mio Cecubo, Aurelia si lamentò del fatto che fosse diventato piuttosto raro e costoso. E mi disse testualmente: "Non lo bevevo da una vita". Dunque la vostra schiava ha mentito, Fabia. Ma non lo ha fatto di sua sponte: è stata istruita in tal senso.»
Livia allungò il braccio verso Erìke. «Ha ammesso di non aver portato nulla alla sua padrona prima del banchetto, tantomeno del vino. Tantomeno del Cecubo. La bugia di Fabia, però, non aveva alcun senso. Perché dire che qualcuno aveva avvelenato Aurelia nella sua stessa casa? In tal modo faceva solo ricadere la colpa sulla sua stessa famiglia. Poteva esserci un solo motivo per questa sua riprovevole condotta: stava cercando di proteggere qualcun altro. Qualcuno presente al banchetto, dove Aurelia è stata avvelenata prima di sedersi a tavola.»
Cosso stava fissando sua moglie, la fronte aggrottata. Lei era a un passo dalle lacrime e teneva gli occhi puntati sulle mani, che non stringevano più quelle del marito.
«È mia nota abitudine accogliere i miei ospiti all'ingresso della mia domus con un calice di posca: è una bevanda rinfrescante, gustosa e prepara lo stomaco per gli stravizi che seguiranno. Aurelia è stata avvelenata allora. Non col mio vino, né con quello immaginario denunciato da Fabia: ma con un bicchiere di innocua, analcolica posca. Come al solito, questa bevanda è stata servita dai miei schiavi, sui quali posso personalmente garantire. Nessuno di loro avrebbe ricavato alcun vantaggio nell'uccidere Aurelia e sono assolutamente incorruttibili. Però, come potete vedere, di schiavi ne ho centinaia.» E con un ampio gesto indicò il piccolo esercito che tappezzava le pareti della sala dei banchetti. «E gli schiavi sono notoriamente invisibili. Muti, ciechi, sono all'occorrenza braccia che reggono vassoi di cibo, o appendiabiti, o dita che suonano l'arpa. Nessuno presta loro attenzione, ed è una lezione che ho imparato anch'io, grazie a questo caso. Le matrone invitate a palazzo quella sera erano state rigorosamente selezionate. Tutte loro avevano ricevuto un invito speciale che dovevano esibire all'ingresso, per poter entrare. Ma per gli schiavi c'è un ingresso secondario, custodito dal mio ostiarius. Da quell'ingresso andavano e venivano decine di servi, portando acqua fresca dall'esterno. Attraverso quella porta è entrato un estraneo. Uno schiavo o qualcuno travestito da schiavo. Qualcuno che ha approfittato della confusione per adulterare un calice di posca e servirlo ad Aurelia. Il veleno ha impiegato circa due ore ad agire. Il tempo trascorso tra l'arrivo della matrona e la sua morte.»
Livia lasciò che l'uditorio assorbisse quell'informazione. Poi proseguì: «Aurelia è stata la prima vittima, subito seguita dalla seconda. La morte di Cosso è ancora più semplice da spiegare. L'assassino lo ha seguito nel postribolo e, mentre Cosso perdeva tempo a mercanteggiare con la tenutaria, si è infilato nella cella della lupa che il senatore preferiva negli ultimi tempi. Ha versato nella coppa della prostituta una sostanza che le avrebbe causato un forte mal di stomaco, inducendola a interrompere la sua prestazione per raggiungere il più vicino vaso da notte. In quel momento, l'assassino si è infilato nella cella e ha pugnalato Cosso al cuore. Lui non ha tentato di difendersi perché non prevedeva una minaccia. Probabilmente pensava che l'assassino - o, a questo punto, dovrei dire l'assassina - fosse un'altra lupa, una sostituta mandata dalla lenona a finire il lavoro. Così i delitti diventano due, commessi dalla stessa mano. Una mano furiosa e rancorosa. Una mano che voleva vendicare un torto vecchio di vent'anni. Quando ieri ho portato i miei schiavi da voi, Fabia, non era per controllare i registri delle vostre proprietà. Beh, in un certo senso sì, dal momento che anche gli schiavi sono dei beni di possesso. Ho consultato i registri degli schiavi che hanno lavorato con voi negli scorsi decenni e ho scoperto qualcosa di molto interessante. La prima cosa che balzava all'occhio erano i nomi di questi schiavi: Viola, Malva, Ninfea, Pervinca... Nomi molto floreali, vi pare? Un nome mi ha colpita, tra tutti. Ortensia. A voi non dirà nulla, e probabilmente non ricorderete nemmeno di aver posseduto una schiava con questo nome, dal momento che sono trascorsi quattro lustri da quando è morta. Ma a qualcun altro questo nome dice molto, non è vero?»
Citera resse fieramente il suo sguardo, senza lasciar trapelare alcuna emozione.
«Ortensia è stata una schiava di casa Papiria. Cosso - il vecchio Cosso - l'aveva acquistata in un bordello, strappandola alla sua migliore amica, Citera» Livia la indicò e ancora lei non batté ciglio. «L'aveva tenuta presso di sé per anni: Ortensia era cresciuta, era maturata e si era innamorata di uno schiavo di nome Filetero. Devo ringraziarvi per Erìke, Fabia. È stata molto utile nel momento in cui le ho chiesto di riferirmi i pettegolezzi che correvano nei vostri corridoi all'epoca. Un bel nome anche il suo, tra l'altro. "Erica" in greco.» Livia sorrise alla schiava che tremava in un angolo. Sperava di non essere stata troppo dura. In fondo le era stata indispensabile per mettere insieme tutti i pezzi e arrivare alla verità.
«Ma torniamo agli sventurati amanti. Ortensia e Filetero si amavano davvero e non desideravano altro che stare insieme. Perciò, quando Citera ritrovò la sua amica e le propose di comprarla e liberarla, Ortensia rifiutò, a meno che Filetero non l'avesse seguita. Citera era pronta a sborsare il denaro necessario per acquistare entrambi ma, quando provò a contattare i padroni, non le fu permesso entrare per via di ciò che era stata. Una cortigiana. Chiese al suo amante, il senatore Gioviano, di comprare i due schiavi per lei ma, anche se gli fu permesso di entrare, non concluse nulla. Il padrone di Ortensia non voleva venderla. Per quale motivo? Eppure l'offerta di Citera era stata estremamente generosa.» Livia drizzò le spalle. «Ortensia era la paelex di Cosso. Non avrebbe rinunciato a lei tanto facilmente. Citera decise che l'avrebbe rapita, ma Ortensia non uscì più di casa. Una tragedia era avvenuta dentro quelle mura, nel frattempo. Cosso aveva scoperto che la sua paelex e Filetero erano amanti. La sola idea di dividere la sua concubina con un disgustoso schiavo lo aveva fatto impazzire di collera. La punizione era stata immediata ed esemplare. Aveva gettato Filetero completamente nudo nel cortile e lo aveva fatto sbranare dai suoi molossi.»
Dovete prestarmi il vostro cuoco, nobile Livia. Il mio non saprebbe fare un pasticcio di olive decente nemmeno se lo minacciassi di farlo sbranare dai miei molossi!
Livia scacciò il ricordo delle parole di Aurelia, la sera del banchetto, e proseguì: «Lui stesso aveva costretto Ortensia a guardare, tenendole la testa bloccata in direzione del corpo straziato del suo unico amore. All'epoca, Ortensia era già incinta e fu solo per grazia degli dèi che non abortì per il dolore. Ma il parto non andò comunque bene. Dopo la scoperta, Cosso la abbandonò a se stessa. Non la voleva più come paelex e non sopportava la vista della sua pancia gonfia. Ortensia partorì da sola perché, quando iniziarono le contrazioni, Cosso la fece rinchiudere in una stanza. Voleva che morisse, e con lei il bambino. Ortensia diede alla luce sua figlia e morì dissanguata. Cosso incaricò di gettare via il cadavere e di fare lo stesso con la bambina. Citera, però, che continuava a sorvegliare la casa, raccolse entrambe. Diede una degna sepoltura alla sua amica e allevò sua figlia, che chiamò Eona.»
Per tutta la durata del racconto, Citera si era mantenuta fredda e impassibile, ma ora iniziò a mostrare segni di inquietudine.
Livia indicò la figlioccia della cortigiana, che si limitava a fissarla. «Guardatela. Vi sembra familiare? Quegli occhi verdi...»
Cosso e Aureliana furono gli unici a voltarsi verso di lei, il che fece capire a Livia che gli altri già sapevano. I due fratelli parvero notare la ragazza per la prima volta. Se i capelli biondi mostravano tutta la sua origine servile, i suoi occhi di smeraldo li indussero quantomeno a dubitare delle certezze che avevano avuto fino a quel momento. Perché quegli occhi erano gli stessi di Cosso e Aureliana, e del defunto paterfamilias.
Eona sopportò l'esame con una smorfia di disgusto, fissando quelli che probabilmente erano i suoi fratellastri.
Livia proseguì: «Non posso averne la certezza, e sicuramente non l'aveva nemmeno Ortensia, dal momento che giaceva con due uomini contemporaneamente, ma il dubbio rimane.» Si portò una mano alla gola, schiarendosela. «Vorrei riposare un po' la voce, ora. Perché non continuate voi, Citera? Raccontateci qual è il vostro mestiere. Non quello antico, che avete abbandonato per amore, ma quello attuale. E raccontateci qual è il ruolo di Eona in tutto questo e come si collega al veleno che mi sono ritrovata nel vino.» E dicendo questo, si sedette, riposando le gambe che - anche se non l'avrebbe mai ammesso - tremavano per l'emozione.
Citera le regalò un sorriso triste, sconfitto. Aveva capito che lei sapeva. Ora doveva solo ammetterlo ad alta voce e raccontare tutta la verità sul ruolo che aveva avuto in quella faccenda.
Perciò prese fiato e iniziò: «Sono stata una cortigiana per molti anni. Non posso dire che sia stato il periodo più orribile della mia vita, perché la mia infanzia è stata ancora peggio. E devo ammettere che mi ha insegnato molto. Mi ha insegnato che il sesso ha un enorme potere, che una donna può costringere un uomo a fare cose impossibili quando gli sta nuda dinanzi. Anche senza volerlo. Può farlo parlare, può indurlo a raccontare cose che non confiderebbe mai a nessun altro. Può portarlo a condividere informazioni sensibili. Segreti. Le donne sono un'arma molto potente. E io decisi di affilare quell'arma. Dopo aver conosciuto Gioviano e avere avuto mia figlia Fabia, mi ritirai dalla professione. Non sarei più stata una cortigiana, ma sarei diventata qualcosa di molto più potente. Misi insieme una rete capillare di spie. Lupae, schiave, ancelle. Tutte le invisibili di Roma finirono per lavorare per me. Le piazzai in tutte le case della città, in tutti i bordelli, in tutte le tabernae. Creai una ragnatela invisibile che si estendeva da un muro all'altro dell'Urbe e le mie piccole vedove nere popolavano quella ragnatela di cui io ero il centro.» C'era fierezza nel suo tono, orgoglio nei suoi occhi luminosi. «Non avete idea di quante informazioni di vitale importanza io abbia acquisito in questi anni, grazie a loro. Non vi dirò i complotti che ho impedito, le rivolte che ho appoggiato, i tradimenti che ho scongiurato. Le mie piccole spie sono ovunque. Persino nella casa dei Papiri. È stato grazie a loro che ho scoperto l'ultimo complotto. Un complotto che mirava a eliminare l'imperatrice Livia Drusilla per colpire suo marito Augusto.»
Cosso sussultò visibilmente, ma non interruppe la donna, che proseguì: «Decisi di impedirlo e di togliere di mezzo i due traditori. Per questo mi servii di Eona.» Sollevò una mano e la figlioccia, alle sue spalle, la prese immediatamente, stringendola. «Ha sempre saputo di non essere mia figlia, malgrado io l'abbia amata allo stesso modo di Fabia e le abbia dato le sue stesse opportunità. Sapeva tutto dell'adozione e della triste fine di sua madre. Ma non sapeva chi fosse il responsabile della sua morte. Io puntai il dito contro il senatore Cosso e la mia piccola vedova nera agì. Agì per vendetta e perché mi aveva sempre obbedito senza mai esitare. Agì per vendicare Ortensia e Filetero e perché sapeva che salvare la vita dell'imperatrice era la cosa giusta da fare per l'impero. Avrei potuto denunciare Cosso e Aurelia, ma chi mi avrebbe creduto? Era la parola di un'ex cortigiana e di un manipolo di schiavi contro quella di un senatore e di una rispettabile matrona. Procurai un finto collare da schiava a Eona, lei lo indossò e si infiltrò nel palazzo. Non fu difficile. Come avete detto, di schiavi ne avete molti. Uno in più o in meno era impossibile da notare. Conoscevamo anche la vostra abitudine di servire la posca agli ospiti in arrivo. Per Eona non fu affatto difficile versare l'aconito nel calice e tenderlo ad Aurelia, assicurandosi che lo bevesse fino all'ultima goccia. E poi la tenne d'occhio, per evitare che portasse a termine il suo progetto omicida nei vostri confronti. Fu così che la vide versare il veleno nel vostro calice mentre eravate distratta da alcune ospiti.»
Questo era l'unico dettaglio che Livia non era riuscita a capire. Come avesse fatto Aurelia ad avvelenare il vino sotto ai suoi occhi.
«Dopo finse di bere il vostro vino, bagnandosi le labbra quel tanto che bastava da riconoscerne la tipologia.» Citera si interruppe, riordinò i pensieri, ignorò gli sguardi stupefatti di Cosso e Aureliana su di sé. Quindi riprese: «La vostra ricostruzione della morte del senatore Cosso è corretta. Andò come avete raccontato. Il senatore non conosceva Eona, la scambiò per un'altra lupa, e da tale lei si era travestita, d'altronde.» Ora lo sguardo di Citera si indurì, posandosi su quello di Livia. «Grazie a lei, due cospiratori contro il potere di Augusto sono morti. Non potete fare altro che ringraziarla.»
Questo lo vedremo, pensò Livia, mentre Cosso chiedeva, con voce strozzata: «Anche Cervo era coinvolto nel tradimento?»
«No» rispose Livia. «Cervo era innocente in tal senso.»
Cosso fissò Eona, che era rimasta immobile come una statua di sale. «Allora perché lo ha ucciso?»
«Non è stata Eona» reagì subito Citera, protettiva e feroce.
«Papiria...?» Cosso esitò a pronunciare il nome della sorella. Non voleva credere che avesse fatto davvero una cosa del genere.
Livia lo lasciò macerare nel dubbio per qualche istante, prima di rispondere: «Nemmeno. Volete raccontare voi com'è andata?»
E si girò a fissare la vestale Aureliana.
Lei sollevò le sopracciglia. «Cosa c'entro io? Vi ho detto che mia sorella mi ha confessato...»
«Va bene, racconto io» tagliò corto Livia. «Dopo il litigio con Papiria in merito al testamento di Cosso, Cervo andò a piangere sulla spalla della sua amante.» Evitò di pronunciare il nome di Scribonia. Non era rilevate ai fini della ricostruzione e, se poteva evitare di collegare la seconda moglie di Ottaviano a quell'affare burrascoso, tanto meglio. Per tutti loro e soprattutto per Giulia, che non doveva sapere che sua madre frequentava uomini sposati. «Oltre al danno la beffa, perché lei decise di chiudere la storia con un uomo che aveva appena perso tutti i sesterzi che le aveva promesso per tutta la durata della loro relazione. Sconfitto e disperato, Cervo si recò all'Atrium Vestae. Voleva pregare la cognata di dividere l'eredità, di dargli almeno un tetto sulla testa. Ma una volta arrivato scoprì qualcosa di sconvolgente. Aureliana in atteggiamenti intimi con... un uomo.»
Aureliana spalancò la bocca, un autentico sgomento dipinto in volto. «Che cosa?!»
«I due tentarono di nascondersi, ma era troppo tardi. Cervo aveva visto tutto e d'un tratto cambiò atteggiamento: da supplice divenne arrogante, pretese la sua parte di eredità, anzi tutta, o avrebbe raccontato al Pontefice Massimo la verità sul suo peccato. Ma non aveva fatto i conti con la determinazione di Aureliana. Fingendo pentimento e lacrime di contrizione, lei gli si avvicinò e lo pugnalò più volte con il piccolo pugium che Cervo portava in vita quando girava per le strade di Roma di notte. Quando il senatore cadde in ginocchio, lei gli andò alle spalle e gli tagliò la gola tanto in profondità da ucciderlo. Quindi avvolse il cadavere in teli di lino, lo caricò sul carro delle Vestali e lo scaricò sulla riva del Tevere. Era notte, nessuno fece caso a loro. Una volta arrivati al fiume, lo spinse in acqua e lasciò che la corrente lo portasse via.»
Aureliana si alzò lentamente in piedi, sibilando: «Mentite. Non ho fatto ciò di cui mi accusate. Non avete nessuna prova!»
«Oh, di prove ne ho eccome. A questi eventi hanno assistito due persone che non si conoscevano ma che mi hanno riferito la stessa scena con gli stessi, esatti dettagli. Una è il mio schiavo, Tallio.»
Il galoppino gallo si staccò dalla parete della sala e si piazzò alle spalle di Livia. L'imperatrice attese qualche istante, pregustando lo stupore che avrebbe avvinto i presenti non appena avesse rivelato l'identità del secondo testimone.
«L'altra è Papiria.»
Dalla porta del triclinio entrò la matrona, avviluppata in pesanti vesti per combattere il freddo. Sotto gli occhi sgranati di tutti, si portò accanto a Livia, con la quale scambiò un cenno d'intesa.
«Papiria!» esclamò Cosso, alzandosi in piedi.
«Quella sera venne dritta da me, a palazzo, e mi raccontò tutto» iniziò Livia, ricordando quando, di ritorno dalla domus di Citera, uno schiavo le aveva riferito la presenza di un ospite a palazzo.
"Che ci fate qui?" aveva chiesto, sorpresa di ritrovarsi Papiria davanti a quell'ora tarda.
"Ho bisogno di parlarvi. È urgente" aveva risposto lei, agitata. E le aveva raccontato tutto. Subito dopo, anche Tallio l'aveva raggiunta, ansimante, confermando il racconto della matrona.
«Mi raccontò di come avesse avuto la stessa idea di Cervo, quella di implorare la gemella di darle una parte dell'eredità. Avrebbe inghiottito l'orgoglio, pur di non vivere nell'indigenza. Ma, una volta lì, la scoprì in intimità con il suo... amante. Si nascose e assistette alla discussione tra lei e Cervo, all'omicidio, alla fuga sul carretto.» Livia posò una mano sulla spalla della matrona, che restava zitta, fissando la gemella. «Io le dissi di stare tranquilla. Aureliana non l'aveva vista e non avrebbe agito contro di lei. Le ordinai di tornare a casa e di restarci fino a quando non fosse ricomparso il cadavere di Cervo. Allora avrebbe dovuto correre a rifugiarsi qui, in modo che tutti pensassero che fosse lei la colpevole e Aureliana si sentisse al sicuro.» Livia tolse la mano e guardò storta Papiria. «Ma non mi avete dato del tutto retta, vero?»
«Volevo darle una possibilità» rispose lei con voce roca, senza togliere gli occhi dalla gemella, il cui volto era diventato bianco come il marmo. «Sono andata all'Atrium Vestae e ho consegnato una lettera per lei. Le ho scritto che sapevo quello che aveva fatto e che l'avrei denunciata. Ma le davo il tempo di fuggire, di sottrarsi alla punizione e alla morte. È pur sempre mia sorella. E volevo difendere l'onore della mia famiglia.»
Livia non le aveva creduto, nelle precedenti occasioni in cui Papiria aveva professato la propria lealtà nei confronti della gens cui apparteneva. Ma ora sapeva che era tutto vero. Il buon nome dei Papiri veniva prima di ogni altra cosa, per lei.
«Ma lei non vi ha ascoltato» ribatté Livia, tornando a osservare Aureliana. «Ha preferito mentire, confidando che sarebbe stata la parola di una vestale contro quella di una donna che aveva un valido motivo per far fuori il marito.»
Aureliana tentò di parlare, ma nessun suono le uscì dalle labbra. Infine esclamò, con voce stridula: «Tutto ciò è oltraggioso! Parlerò alla Vestale Massima e...»
Livia la interruppe, glaciale. «Vi ho forse dato l'impressine che aveste diritto di replica in questa sciagurata faccenda?» Fece un cenno ai soldati di guardia alle porte della stanza. «Portatela via.»
Zosimo fu il primo a muoversi, afferrando la donna per un polso. Ma lei si ribellò, strillando: «Non potete toccarmi! Sono una vestale! Nessuno, uomo o donna, ha il diritto di porre la sua mano sulla serva di Vesta!»
Livia voltò il viso verso l'ombra che aveva appena varcato la soglia. Sentì il cuore accelerare i battiti al solo vederlo. Ora avrebbe gestito lui la situazione e sarebbe andato tutto per il meglio.
Ottaviano Augusto si avvicinò al gruppo, seguito da un uomo che indossava i paludamenti della massima autorità religiosa di Roma: capo velato, toga che scendeva in morbide pieghe fino ai piedi, sguardo duro e dispiaciuto insieme.
Augusto gli fece un cenno e Marco Emilio Lepido, Pontefice Massimo, si rivolse ad Aureliana: «Non siete più una vestale. Avete violato il giuramento fatto alla dea, alle vostre consorelle, a Roma.»
«E a me» si intromise Augusto, senza alcuna pietà nei suoi occhi chiari.
Lepido riprese: «Verrete punita secondo la legge e murata viva nel Campus Sceleratus, dove trascorrerete i vostri ultimi giorni, fino a quando gli dèi non vi chiameranno a sé.»
Augusto fece un cenno alle guardie. «Portatela via.»
Aureliana non aveva più aperto bocca, intimorita dalla presenza del suo diretto superiore e del più potente uomo di Roma. Lasciò che i soldati la trascinassero via, fuori da quella stanza. Solo quando fu scomparsa alla vista, si lasciò andare a un urlo disumano. L'urlo di una donna che si credeva furba e invincibile, ma era infine stata sconfitta.
Lepido prese congedo da Augusto e seguì le grida dell'ex vestale, pronto a far eseguire tempestivamente la giusta pena.
Augusto guardò Livia, invitandola a proseguire, mentre si accomodava sul triclinio e sorseggiava del mulsum caldo.
Livia continuò, come se quella drammatica interruzione non fosse mai avvenuta. «Naturalmente, Aureliana non avrà più alcun diritto all'eredità, che dunque passerà in toto a Emilio. E Papiria avrà diritto a una parte, secondo le disposizioni di Cosso, dal momento che suo marito è deceduto. Un'assassina è stata assicurata alla giustizia.» I suoi occhi si posarono su Eona. «Veniamo all'altra.»
Citera si alzò fulminea, scavalcò il triclinio e si parò davanti alla ragazza. «Per toccarla, dovrete passare sul mio cadavere» disse, in un tono pacato ma mortalmente sicuro.
Gioviano fece leva sulle ginocchia e si mise in piedi, torreggiando su tutti loro e coprendo le due donne con la sua mole. «E sul mio» aggiunse, con voce profonda.
Anche Fabia scattò in piedi e fece qualcosa che Livia non avrebbe mai immaginato. Le si buttò ai piedi, le ginocchia sul duro marmo, le mani giunte in preghiera. «Non punitela, vi prego» sussurrò, gli occhioni pieni di lacrime che già iniziavano a scorrere. «Sono colpevole quanto lei. Sapevo cos'aveva fatto. Per questo mi avete trovata al tempio di Veritas, quel giorno. Non pregavo perché la verità venisse a galla, ma per chiedere perdono alla dea per tutte le menzogne che stavo dicendo per proteggerla. È mia sorella e le è stato fatto un grave torto. Cosso l'avrebbe uccisa come aveva ucciso sua madre. Io ed Eona siamo uguali. Entrambe figlie di schiave, entrambe figlie di patrizi. Ma io ho avuto fortuna: mia madre è sopravvissuta e mio padre mi ha riconosciuta. Lei è stata gettata in strada come immondizia. Ha dovuto lottare fin dal primo istante di vita.» Fabia piangeva, il petto scosso dai singhiozzi. «Risparmiatela, vi prego.»
Anche Cosso, a quel punto, si alzò, sollevò la moglie per le braccia e se la mise al fianco, abbracciandola. E fissando Livia con atteggiamento di sfida.
Lei sentiva gli occhi di tutti, compresi quelli di Augusto, addosso. Era un momento delicato. La cosa poteva sfuggirle di mano. Doveva fare attenzione.
«Sareste tutti disposti a sacrificare le vostre vite per proteggere quella di una schiava assassina?» fece Livia, con voce sprezzante. «Ebbene, non mi lasciate altra scelta. Eona.»
La ragazza si scrollò di dosso Citera, che cercava di trattenerla, e aggirò l'imponente mole di Gioviano, comparendo dinanzi a Livia. Il suo sguardo sicuro non mostrava alcun timore, alcuna ansia. Livia si rese conto di non averle mai rivolto la parola fino a quel momento. Non la conosceva neppure, ma era lei la causa di tutto quello scompiglio.
«Eona, hai ucciso due cittadini romani.» Il suo sguardo migrò alle spalle della ragazza, puntandosi sulle altre due donne presenti. «Citera e Fabia: avete mentito per proteggere un'assassina e l'avete aiutata nel suo piano. Siete tutte e tre colpevoli di alto tradimento.»
Livia sentì l'intera sala trattenere il respiro.
Fino a quando non chinò la testa in direzione delle tre donne.
«E io vi sarò per sempre debitrice. Senza di voi non sarei qui. D'ora in avanti, siete sotto la mia protezione. Voi e le vostre famiglie. Chiedetemi ciò che volete.»
Il respiro sfuggì dalle labbra di Cosso, che strinse a sé la moglie con forza. Gioviano crollò a sedere sul triclinio, asciugandosi il volto sudato. Eona rimase immobile al suo posto, come se la cosa non la riguardasse, come se non se ne facesse nulla dei suoi ringraziamenti. Aveva fatto ciò che doveva. Non voleva altro.
Solo Citera, dopo un'istante di incertezza, fece un passo avanti. «Io ho qualcosa da chiedere. Come vi ho detto, le mie vedove nere sono ovunque. Anche in questo palazzo. Ma il mio unico scopo è servire Roma e i suoi signori.» Il suo sguardo si posò su Ottaviano, che osservava la scena senza parlare. «So che Augusto è il futuro del nostro impero. Vi chiedo di non adirarvi se i miei occhi giungeranno anche nelle vostre stanze. È solo per il vostro bene.»
Lo chiese in tono fermo ma risoluto, attendendo la sua risposta.
Livia si girò verso Ottaviano, che sollevò un angolo della bocca. Di riflesso, sorrise anche lei. «Come potrei adirarmi con qualcuno tanto determinato a salvarmi la vita?»
Citera ricambiò il suo sorriso. Un sorriso autentico, finalmente. Un sorriso che sigillava un'alleanza e un'amicizia che sarebbe durata ancora a lungo.
DIZIONARIO DELLE PAROLE LATINE
Paelex: schiava concubina
Pugium: piccolo pugnale
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