8.

🔺️ In questo capitolo sono presenti contenuti vagamente espliciti. 🔺️

Serena non mi ha raggiunto in ufficio. Tramite la sua segretaria ho ricevuto un messaggio che mi informava che sarebbe stata con una cliente tutto il giorno. Ho provato a chiamarla per saperne di più, ma non ha risposto. È preparata per la causa e non ci sarebbe l'urgenza di vederci, ma ero curioso di sapere se fosse stata imbarazzata nel vedermi, dopo ieri. Ma soprattutto, vorrei sapere cosa ci faceva da me.
La recinzione che circonda la mia villa è coperta da rampicanti, a protezione della mia privacy, ma alcune parti sono spoglie dal giorno in cui il giardiniere ha potato le parti rinsecchite. Chi avrebbe mai immaginato che qualcuno, Serena in questo caso, potesse mettersi a guardare oltre la recinzione, verso la piscina? Certo non c'era molto da vedere, io e Clara eravamo immersi nell'acqua fino alle spalle. Sono sicuro però, che il mio viso era una maschera di piacere e sfida. Piacere, per quello che Clara mi stava facendo provare e sfida, per quello che volevo che "Serena" provasse. Gelosia? Eccitazione? Rabbia?
Qualunque cosa era meglio di niente.
Sono così occupato a pensare a ieri sera, da non sentire la mia segretaria che bussa alla porta. «Signore, il dottor Valenti è qui. Chiede di vederla.» Ed ecco che la mia giornata sta per peggiorare.

«Mandalo via. Digli che non ci sono.» Federica si stringe le mani e resta impalata sull'uscio. «Cosa c'è?»

Tiene lo sguardo basso. «Non posso, signore. Alla reception gli hanno detto che era in ufficio. Ed è qui fuori.»

Chiudo gli occhi ed espiro gravemente.
«D'accordo. Fallo entrare.» Stringo il nodo della cravatta e mi rimetto seduto.
Attendo qualche minuto e lo vedo entrare, con la sua solita arroganza. I capelli brizzolati e due occhi azzurri come il cielo. Il viso dai lineamenti marcati e senza barba.
«Carina la tua segretaria. Federica, giusto?» prende posto senza neanche preoccuparsi di chiedermi il permesso.

Ignoro la sua domanda e vado dritto al punto. «Come mai da queste parti?» la sua espressione saccente mi fa rivoltare le budella.

«Deve esserci un motivo per venire a vedere come sta mio figlio?» si aggiusta i polsini della camicia e mi rivolge un sorriso.

Non ci riesco. Vederlo disteso, con quell'espressione riposata, mi fa venire voglia di tirargli un pugno in faccia. Mi alzo e mi avvicino alla finestra che dà sulla strada. «Non fingere che t'importi qualcosa di me. Sappiamo entrambi che è una recita che non sai portare avanti», mi infilo le mani in tasca.

«Per quanto ancora ce l'avrai con me? Sei quello che sei anche grazie a me.» Si mette in piedi.

«No, "caro" papà. È grazie alle mie forze! Non sei stato tu a rifiutare il fatto che io non volessi seguire le tue orme? Non eri tu quello che odiava il fatto che fossi diventato uno "schifoso" avvocato, anziché un rispettabile dottore? Ora non fingere di accettare quello che sono.» Non riesco a nascondere il disprezzo che provo per lui. Per quello che ci ha fatto. Quanto vorrei che sparisse definitivamente dalle nostre vite.
Gli do nuovamente le spalle. Guardarlo mi fa ribollire il sangue nelle vene e sento che quel cassetto in cui è rinchiusa tutta la mia rabbia sta per cedere. Non sono più un ragazzino insicuro, o forse non lo sono mai stato, ma è così che mi ha sempre fatto sentire.

«Ho cambiato opinione. Cosa c'è di male in questo?» si avvicina ancora e, se mi conoscesse, saprebbe che questo è uno di quei momenti in cui è meglio lasciarmi da solo. Ma lui non mi conosce, non si è mai preoccupato di farlo. L'unica cosa di cui gli importa è se stesso.
Evito ancora una volta di rispondere alla sua domanda, che dal mio punto di vista sembra solo un'altra delle sue provocazioni.
Non sa per quanto tempo ho odiato il mio stesso riflesso allo specchio, solo perché mi mostrava quanto gli somigliassi. Eccetto che per gli occhi, che sono neri come quelli di mia madre. «Daniele, sei cresciuto ormai. Non credi che dovremmo parlarne?» posa una mano sul mio braccio e mi sento irrigidire.

«Vuoi parlare? Davvero?» mi libero dalla sua presa. «Allora facciamolo.» Prendo posto alla mia scrivania e incrocio le braccia. Un chiaro segno di quanta voglia ho di parlare con lui. «Vuoi cominciare da quando hai tradito la mamma, oppure da quando ci hai lasciati per sentirti libero di scopare in giro? Ma no, certo che no. Tu vuoi sentirti dire che sei un buon padre, che i tuoi soldi accreditati sul conto di mamma ogni mese, ci hanno permesso di vivere una vita agiata e grazie ai quali ho potuto studiare.» Mi rimetto in piedi, incapace di stare seduto davanti a questo sconosciuto che crede di essere mio padre. «Sai perché ho studiato legge? Per farti dispetto. Volevi così tanto che diventassi un chirurgo come te, che non ti sei preoccupato di chiedermi se era quello che desideravo. Così ho preso i tuoi soldi e li ho usati per diventare ciò che odi di più al mondo. Un avvocato!» stringo i pugni sulla scrivania. «E oggi sono tra i migliori, nel mio settore. Sei orgoglioso, "papà"?»

Il suo volto cambia espressione, ed ecco che finalmente lo riconosco. Le sopracciglia si curvano in uno sguardo irritato. «Credi di essere migliore di me? Guardati! Sei esattamente com'ero io alla tua età.» Mi guarda quasi con fierezza e questo non fa che aumentare la mia rabbia.

«Ne sono consapevole. Ed è il motivo per cui non avrò mai una moglie. Tu non c'eri quando lei piangeva ogni notte! Non c'eri quando ha provato a farla finita! Ero solo un ragazzino e ho dovuto combattere con lei contro la sua depressione», riprendo fiato. «Vorrei che non fossi mai esistito!» Vedo con estrema chiarezza il segno che la mia ultima frase ha lasciato sul suo viso. Non saprei descriverlo con una sola parola.

Annuisce appena, sistema la giacca e si dirige verso la porta. «A quanto pare ho commesso un errore a pensare di poter recuperare i rapporti con mio figlio. Credo non ci sia rimasto più nulla da recuperare.»

«E di chi è la colpa?»

Annuisce ancora, con un finto sorriso; poi esce dal mio ufficio e chiude la porta dietro di sé. Sento la rabbia che non riesce a sbollire e con un gesto improvviso, buttò giù le carte dalla mia scrivania. «Vaffanculo!»

Ho perso il conto dei bicchieri di Negroni che ho bevuto e, nel dubbio che siano ancora pochi, ne ordino un altro contro l'indicazione del barista.

«A lei.» mi allunga il drink, poi lo ritira quando stendo il braccio per afferrare il bicchiere. «Solo se mi da il numero di qualcuno che possa venire a prenderla. Non può guidare in questo stato.»

Da quando ai baristi importa davvero della salute dei clienti? Se fosse così, dovrebbero evitare di riempire i bicchieri di continuo.
Per fortuna sono un tipo consapevole. Prendo un tovagliolo, la mia Montblanc dal taschino e scrivo le cifre che compongono il numero di Claudio. È l'unico che conosco a memoria, altrimenti avrei evitato volentieri.
Prendo un grosso respiro, sapendo già cosa aspettarmi, allungo la mano e strappo via il bicchiere dalle mani del coscienzioso barista. Lo butto giù tutto d'un fiato e batto il bicchiere sul bancone. «Un altro!»
Lui scuote il capo, con un'espressione rassegnata. Gli faccio pena, glielo posso leggere in faccia. Riempie di nuovo il bicchiere e mi lascia solo nella mia situazione deprimente. Appena libera la mia visuale, scorgo il mio riflesso nella parte lucida della macchina per il caffè. Distorto e opaco, esattamente come mi sento in questo momento. La commiserazione non sta per nulla bene sulla mia faccia.

Il cellulare nella mia tasca riprende a vibrare, nonostante sia ovvio che se non ho risposto dopo la terza chiamata, è  probabile  che non risponderò neanche alle altre trecento. Non ho bisogno di vedere il nome sul display per sapere che è Clara. Sono uscito da lavoro per venire direttamente al bar e sono stato assente per tutto il giorno. Non avrei mai voluto che accadesse, ma non mi sento nella condizione di sentire o vedere nessuno. È anche possibile che possa essere arrabbiata e due discussioni nella stessa giornata sono troppe.

Torno a guardare la mia immagine riflessa nel macchinario. Odio il fatto di somigliargli così tanto. Rivivo nella mia mente il nostro incontro di questa mattina. So di avere più cose in comune con lui, di quante ne abbia mai avute con mia madre ed è quello contro cui lotto da che ne ho memoria. Si può cambiare il proprio DNA? Se ci fosse un modo per riscrivere il mio patrimonio genetico, escludendo i suoi geni, lo farei subito. Arriva l'ennesimo bicchiere di Negroni a disconnettermi da questi pensieri assurdi, ma sono così stanco e ho un groppo alla gola, che non riesco a mandarne giù neanche più un sorso. Mi prendo la testa tra le mani.

«Ehi.» Claudio si siede accanto a me e prende un sorso dal mio bicchiere. «Tuo padre?» Lo guardo a mezz'occhio e lui annuisce. «Andiamo, ti porto a casa.» Si fa passare il mio braccio intorno al collo e mi aiuta ad alzarmi, trascinandomi a fatica fuori dal bar, dopo aver lasciato delle banconote sul bancone.

«Non posso tornare a casa mia. Lasciami in un albergo», barcollo fino alla sua auto, «c'è Clara. Clara è a casa mia. Clara...»

«Me ne occupo io.» chiude la portiera e si mette alla guida.

Passano a stento dieci minuti e io crollo in un sonno profondo; per fortuna, aggiungerei. Non avrei retto una discussione con Claudio, sui miei e i traumi che mi hanno causato.

Un venticello fresco entra dalla finestra vicina al letto. Le tende ondeggiano con il vento e si sollevano fino a raggiungere il mio braccio che penzola dal letto. Sento gli occhi andare a fuoco e cerco, tastando, il mio cellulare su quello che sembra un comodino. 02:33 am, è l'ora segnata sul display, insieme a un riquadro che mostra 22 chiamate senza risposta e 15 messaggi. Chiudo gli occhi ed inspiro in modo profondo. Clara sarà infuriata. Accendo la luce e mi alzo sui gomiti per guardare in giro. La stanza sembra arredata con gusto.
Finalmente Claudio ha imparato a scegliere gli alberghi. La mia attenzione cade su una foto. «Maledizione.» Provo ad alzarmi, ma la stanza gira come in una di quelle giostre al parco divertimenti e ricado sul letto. Riguardo la foto. Non mi ero sbagliato, sono Claudio e Serena. Non ne fa mai una giusta.
Bussano alla porta. Forse se non rispondo, crederanno che sto dormendo e andrann...
La porta si apre e Serena entra nella stanza con un thermos pieno di caffè. O almeno dall'odore così pare. Come non detto. «Claudio mi ha chiesto di prendermi cura di te. È stato costretto a recarsi a lavoro con urgenza.» Si sblocca e mi lascia il contenitore sul comodino. «Bevilo tutto», fa per andare via.

«Potresti accompagnarmi al bagno? Non riesco a mettermi in piedi.» Bevo un sorso di caffè.

«Io... ecco...»

«Devi lasciarmi alla porta», sottolineo, notando il disagio che si palesa sul suo viso.

«D'accordo», decide dopo una breve, ma intensa riflessione. Mi prende sotto braccio e mi fa strada verso il bagno.

La porta è a un passo da me e lei mi libera dalla sua presa premurosa. Il distacco mi fa quasi perdere l'equilibrio e finisco per poggiare entrambi i palmi contro il muro.
Sembra che tutto sia andato bene, ma il sollievo dura poco. Perché Serena è rimasta chiusa tra le mie braccia, con le spalle al muro. È così vicina e il suo odore di vaniglia mi fa salire un brivido lungo la schiena.
Qualsiasi briciola di autocontrollo ci sia mai stata nelle precedenti situazione tra noi, è del tutto scomparsa in questo momento. Sarà l'alcol, ma le mie labbra prendono le sue in un bacio colmo di trasporto.

«Noi, Daniele... noi non possiamo», dice tra una ripresa è l'altra, senza avere il tempo neanche di respirare.

«Non dovremmo infatti.» I miei baci scendono giù per il suo collo, mentre lei intrappola ciocche dei miei capelli tra le dita.

«Dovremmo fermarci», ripete più volte, ma senza la convinzione che serve per farlo davvero.

Le apro la vestaglia con veemenza e la sollevo contro la parete, portando le sue gambe intorno alla mia vita. «Dimmi basta e mi fermo all'istante.» I suoi seni nudi sono una gioia per gli occhi e non posso fare a meno di dedicare loro la stessa attenzione che ho mostrato per le sue labbra.
La mia frase resta senza risposta, cosa che davo per scontata. A questo punto tornare indietro è impossibile. Desidero questo momento da mesi, non me lo lascerò scappare. La stringo a me, prendendone un assaggio man mano sempre più grande, mentre i suoi gemiti riempiono la casa vuota.
Serena si aggrappa alle mie spalle e comincia a muoversi con sempre maggior foga, fino a quando non arriviamo entrambi al culmine.

Non era premeditato, nonostante lo desiderassi da tempo. È stato frettoloso, fatto di urgenza. Lontano anni luce da come lo avevo immaginato. Ma lei è ancora aggrappata a me, entrambi imperlati di sudore, completamente nudi.

«Vederti con lei, mi ha fatto scattare qualcosa dentro», spezza il silenzio.

Clara! Come se mi fossi scottato, mi allontano da lei. Un attimo di lucidità illumina la mia ragione. Clara è a casa mia che si preoccupa per me e io mi scopo un'altra. Complimenti Daniele, ora sì che sei uguale a lui! Mi rivesto in fretta, così come fa Serena.

«Senti», mi prende il polso, «non so se la ami o cosa, ti chiedo solo di non lasciarla per me.»

«Certo. Tanto tu non lascerai mai Claudio. Sono io che dovrò convivere con il senso di colpa per essere un pessimo amico.»

Sospira. «Se può farti stare meglio, anche Claudio mi ha tradita. Era questo il motivo per cui non ci parlavamo molto nell'ultimo periodo.»

«Cosa?» resto allibito dalle sue parole. «Claudio? Il "nostro" Claudio?» sbuffo un sorriso. «Non prendermi in giro.»

Mi strattona e mi guarda negli occhi. «È vero.» diventano lucidi e mi sento sconfitto.

«Beh, mi dispiace, ma non ti illudere. Era solo sesso. Non ti avrei mai chiesto di lasciarlo.» Indosso anche la maglia e restiamo lì a guardarci.

«Serena, sei tu?» la porta si chiude e Claudio viene illuminato dalla luce fioca che arriva dalla stanza in cui alloggiavo momentaneamente. «Ah, ti sei alzato?»

«Sì, lo stavo accompagnando alla porta del bagno.» Serena mi guarda, pregandomi con lo sguardo di tenerle il gioco.

«Già» rispondo, prima di chiudermi la porta del bagno alle spalle.

«Lascia stare, oggi ha visto suo padre», sento dire da Claudio, per giustificare la mia reazione. Se solo sapesse che fino a dieci minuti fa stavamo scopando. Apro il rubinetto del lavabo e mi rinfresco buttando dell'acqua fredda sul viso.
La mia immagine riflessa allo specchio mi ricorda, ancora una volta, la somiglianza che ho con mio padre. Dopo questa notte, ancora di più.
Ripenso a Clara, alle sue chiamate e ai suoi messaggi. Lei non si merita tutto questo, ma dirglielo non la farà stare meglio. In fondo è stato solo sesso. Irripetibile. Ma forse lei merita di più, merita la verità. Asciugo il viso. Prenderò una decisione domattina. Si sa, la notte porta consiglio.

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