Cadaveri e macchie indelebili

Il sole era alto in cielo, le nuvole si erano diradate quasi del tutto e il traffico cittadino si era risvegliato, nell'ora in cui la maggior parte dei lavoratori faceva la pausa pranzo.

La luce del semaforo di fronte alla centrale di polizia di Invercargill divenne verde, permettendo ai pedoni di passare sulle apposite strisce bianche dipinte sul nero asfalto.

Travor e Robert stavano continuando una conversazione che avvinceva entrambi, e si trovarono ad attraversare quella stessa strada insieme ad alcune persone, che camminavano velocemente perché il tempo per attraversare era poco, il rosso scattava quasi subito, cosa che chiunque fosse abituato a passare di lì sapeva.

Camminavano opposti a loro, in quel momento, un uomo vestito in giacca e cravatta, abbinate e di colore nero, in contrasto con la camicia bianca. Parlava al telefono, ma non era una chiamata di lavoro, stava infatti sorridendo mentre diceva qualcosa sul fatto che sarebbe tornato a casa presto. Di fianco a lui, una donna che portava una felpa di un acceso colore arancione teneva la mano di una bambina di massimo sei anni, con i codini tenuti insieme da due elastici rosa. Correvano per arrivare subito dall'altra parte, quella che probabilmente era la figlia di quella donna incespicava nei suoi passi per tenere testa alla madre, le cui falcate erano troppo lunghe per le sue piccole gambe.

Nessuno dei due notò, però, questi particolari.

Una volta attraversato girarono a sinistra, davanti ad un fioraio aperto dove prima stava un falegname.

Proseguirono quasi senza nemmeno guardare la strada, tante erano le volte che l'avevano percorsa. Si ritrovarono davanti alla porta del White Spot Café dopo qualche minuto.

«Secondo me dovrebbero vedere gli abitanti della superficie come divinità, non alieni» stava dicendo Robert.

«Una divinità non arriverebbe morta nel loro mondo» replicò Travor, mentre apriva la porta.

«Li vedono come se fossero angeli caduti, perché la superficie è un limite invalicabile e significa per loro la morte, per questo gli umani sembrano così lontani e misteriosi» continuò l'altro.

Travor si aggiustò gli occhiali sul naso «Se vedi quello che hai sempre venerato affondare con i piedi di cemento perdi un po' della tua fiducia religiosa». Aprì la porta di vetro e fece passare l'amico, venendo investito dal calore del riscaldamento all'interno del luogo. Non c'era tanto freddo fuori, quel giorno ci saranno stati quindici gradi e c'era un tempo molto sereno, ma si tenevano comunque accesi i termosifoni per permettere a chi entrava di stare a proprio agio anche senza giacca.

«Li considererebbero come un dono dalla superficie, delle reliquie o qualcosa del genere» ipotizzò lo psicologo. Intanto avevano visto un tavolo libero e si erano accomodati nel locale.

«Sono creature acquatiche intelligenti, ci sarà una parte di loro che non considera i cadaveri smaltiti dalla mafia come delle statue votive e vorrà studiarli»

«Certo, ed è proprio questo il fulcro della questione: parte della popolazione vorrà tenerli nei templi e un'altra parte vorrà studiarli»

«Una delle due dovrà prevalere sull'altra alla fine» disse Travor. Intanto una cameriera li aveva visti entrare e si era avvicinata al loro tavolo per prendere le ordinazioni, aspettando pazientemente che finissero di parlare.

«Non necessariamente. Potrebbero destinarne alcuni alla religione e alcuni allo studio. Ora però chiediti: cosa potrebbe mai andare storto?» riprese Robert.

L'amico ci pensò per qualche secondo, poi il suo viso si illuminò «Se esaminassero il cadavere di qualcuno avvelenato potrebbero morire per lo stesso veleno»

«E verrebbe considerata una punizione divina» continuò l'altro.

«A questo punto però si sarebbero fatte troppe scoperte sulla vita in superficie per tornare indietro e il conflitto sarebbe inevitabile» concluse l'agente di polizia.

«Okay, ma in quanto al loro aspetto, vederli come sirene per me è sbagliato. Certo, qualcosa di umanoide dovrebbero averlo, un cervello ben sviluppato e arti prensili, ma non dovrebbero essere metà uomo e metà pesce» ragionò Robert.

«Potrebbero essere come delle salamandre, solo completamente acquatici»

«Quindi con scaglie, branchie e arti prensili ma palmati»

«Esatto. Poi dovrebbero essere onnivori e padroneggiare almeno in parte l'allevamento»

«E avere un sistema politico e giudiziario, anche se non troppo avanzato»

Travor venne interrotto prima di poter rispondere alla frase appena detta da un singolo colpo di tosse volto a richiamare la loro attenzione. Si voltarono accorgendosi finalmente della persona davanti al loro tavolo.

La donna era alta non più di un metro e sessanta, dai folti capelli ricci che cadevano sulle spalle, neri quanto l'inchiostro secreto da una seppia; e teneva in mano il blocchetto per prendere le ordinazioni. Indossava un grembiule nero, con il nome del locale stampato in bianco e, sotto, il disegno di una mucca che teneva in mano una tazza di caffè fumante.

«Se continuate così ne viene fuori una trilogia di film, con due prequel e uno speciale» commentò divertita. I suoi grandi occhi scuri erano contornati dalle rughe d'espressione derivanti dal sorriso che aveva mentre diceva questa frase e la sua pelle, altrimenti color caramello, era provvista di macchie più chiare, tendenti al bianco, ovunque fosse visibile, soprattutto sulle mani, seppur una delle più grandi fosse intorno all'occhio destro. Aveva la vitiligine da quando aveva circa vent'anni e, anche se aveva avuto bisogno di tempo, aveva imparato a considerarlo come un suo pregio. Poi era arrivato suo figlio, che non aveva fatto altro che rafforzare ulteriormente la sua sicurezza sul suo aspetto. Quando era piccolo, da quando aveva imparato i numeri, si divertiva a contare tutte le decolorazioni visibili, riempiendola sempre di gioia.

«Se succedesse potrei comprarmi una casa più grande. Comunque buongiorno Lilian!» salutò Travor.

La proprietaria ricambiò il saluto. «Cosa volete ordinare, oggi?» chiese.

«Per me solo un'insalata, per favore» richiese Robert.

«Stai sul leggero, vedo» notò, scrivendo sul taccuino.

«Ho mangiato molto a colazione, non ho tanta fame» spiegò.

La donna finì di scrivere, rialzando lo sguardo sull'altro «E per il tuo collega?» chiese.

L'agente di polizia alzò le spalle «Il solito»

«Sono tre giorni di fila che mangi sempre la stessa cosa, non ti fa bene»

«Va bene, allora prendo un tortino di pollo»

«Da bere?»

I due si guardarono come per decidere cosa scegliere «Acqua frizzante, grazie» esordì dopo pochi secondi Travor.

Lilian finì di scrivere e sorrise. «Grazie a voi»

«Scusa se ti abbiamo fatto aspettare che finissimo di parlare» disse Robert.

«Nessun problema, oggi non ho molto da fare, ho assunto una nuova cameriera per sostituire Mikaere e voglio vedere come se la cava senza di me»

«Che gli è successo?» volle sapere lo psicologo.

«Si è licenziato di nuovo in un momento di rabbia... Ho il sospetto che abbia a che fare con la sua famiglia, ma non oso chiederglielo perché sarei inopportuna, è ovvio che non ne voglia parlare. Tornerà, intanto pensavo da tempo di assumere un'altra persona» raccontò lei «Ad ogni modo» riprese «vi porto subito il pranzo, così possiamo continuare il discorso di ieri» affermò girandosi e andando verso il bancone, sparendo in cucina.

Il White Spot era un locale non troppo grande, dalle pareti ricoperte di carta a parati azzurra a pallini bianchi e circa una mezza dozzina di tavoli quadrati, che si potevano unire nel caso fosse entrato un gruppo di persone. Un bancone di lucido metallo esponeva in una vetrina di vetro sopra di esso paste di ogni tipo e qualche tramezzino, mentre, dietro, stava la porta che consentiva l'accesso alla cucina. Sembrava essere lì da sempre, eppure appena una decina di anni prima aveva avuto un altro proprietario. Era stata una piccola pasticceria artigianale, finché non si era deciso di cambiare sede. Lilian aveva visto il cartello con la scritta vendesi un martedì come gli altri, mentre faceva una passeggiata, dopo appena un mese in cui stava cercando un posto dove aprire un'attività, e se ne si era innamorata subito.

La maggior parte dei colleghi di Travor pranzavano lì, e la donna si era trovata a gestire un via vai di gente proveniente dalla centrale, finendo per conoscere molto di quello che succedeva tra quel gruppo di persone. Non che se ne lamentasse, fornire consigli a chi di passaggio era una delle parti che preferiva del suo lavoro.

«Piuttosto...» cominciò Robert, dopo qualche attimo di silenzio «Sapevi che nello Utah c'è una foresta di quarantasettemila alberi collegati da un sistema radicale condiviso?»

«Aspetta, in che senso? Ad un certo punto le loro radici si sono fuse?» chiese Travor incuriosito.

«No, è come... Hai presente quando sulle radici di un albero germogliano altri piccoli alberi?» l'altro cercò di mimare il concetto, per spiegarlo meglio.

«Sì, quelli che di solito si tagliano» annuì, richiamando alla memoria il gigantesco cipresso in mezzo al giardino di casa dei suoi genitori, che veniva potato regolarmente.

«Ecco, sono praticamente quei getti cresciuti fino a diventare degli alberi e partono tutti dalla stessa radice del genitore, che si stima abbia circa un milione di anni. Viene considerato l'organismo vivente più grande al mondo» spiegò.

«Frantastico!» esclamò il poliziotto stupito, immaginando l'aspetto di quella gigantesca foresta di alberi gemelli.

Lilian arrivò qualche minuto dopo con in mano due piatti di ceramica bianca. Si fermò a parlare con un ragazzo vestito con la divisa del locale, che l'aveva chiamata, e gli indicò con un cenno un tavolo dove stavano seduti tre individui sulla sessantina d'anni che erano entrati solo qualche minuto prima, dicendogli qualcosa che i due colleghi non poterono udire.

Tornata dinnanzi al loro tavolo vi posò le loro ordinazioni e tornò indietro a prendere l'acqua, sedendosi poi vicino a Travor.

«Allora, che si dice in giro?» chiese ai due, sorridendo.

«Vediamo... abbiamo un nuovo caso per le mani, sono a metà del libro che mi hai consigliato e ieri ho visto le immagini dell'Ultima Thule» riassunse Robert, infilzando un pomodoro con la forchetta.

«Le ho viste anch'io, però mi sembra una scamorza» commentò Travor.

«A me un pupazzo di neve. Ma, piuttosto: sei poi riuscito a levare quella macchia dal divano?» domandò al detective di fianco a lei, girandosi verso di lui e mettendo le mani incrociate sotto il mento, le dita pallide in contrasto con la pelle color ambra.

«Alla fine ho girato il cuscino. Occhio non vede, cuore non duole» allontanò la questione con un gesto della mano, mangiando una patatina, di contorno a ciò che aveva preso.

Una settimana prima la sua nipotina era venuta a fargli visita e lui le aveva fatto da babysitter, come accadeva quando suo fratello e sua moglie non potevano tenerla. Si erano divertiti molto insieme e lei gli aveva chiesto, con un sorriso che andava da guancia a guancia, se la prossima volta che sarebbe venuta si sarebbero potuti mettere lo smalto a vicenda e Travor non aveva avuto il cuore di dirle di no. Perciò aveva almeno cercato di imparare come fare per non farsi cogliere impreparato, aveva guardato un video che lo spiegava e aveva comprato l'occorrente. Il risultato era stata una macchia rossa sul divano che non sapeva come togliere e delle pennellate ovunque sulle dita meno che sulle unghie. Il video non avvertiva di questa eventualità.

«Ti ho elencato almeno cinque modi diversi! Non puoi semplicemente fare così! E se alla prossima persona che porterai in casa cadesse il cellulare tra i cuscini, ne spostasse uno e la vedesse? Vuoi davvero che sembri che tu abbia massacrato un coniglio al potente dio El Gabal in casa?» lo rimproverò. Lilian non amava molto lo sporco e il disordine, e lo si poteva evincere facilmente dalla cura con cui teneva l'immobile. «Robby, avanti, digli anche tu qualcosa» esortò più l'altro, che alzò la testa verso di lei, mentre stava ancora masticando una foglia di insalata.

«Che cosa? Non penso di riuscire a convincerlo» disse, mandato giù il boccone e tirandosi via qualche ciocca di capelli che gli era caduta sugli occhi.

«Ma non lo so, usa i tuoi poteri di psicologo e digli che è il suo modo di nascondersi dai suoi problemi anziché affrontarli, ignorandoli aspettando che si risolvano da soli... una cosa del genere, insomma»

«Stiamo parlando di un divano, per la miseria! Non è così grave» protestò il diretto interessato.

«Un divano bianco appena comprato che ti ho aiutato a scegliere quando sei venuto qui con il catalogo e che ora sembra la scena di un crimine, come se non ne vedessi già abbastanza al lavoro» replicò lei.

«E va bene, lo laverò, hai vinto» si arrese, infine, lui, sospirando.

Comunque fosse, secondo Robert, i suoi "poteri da psicologo", come li aveva chiamati Lilian, non sarebbero serviti. Nella sua esperienza generale, la maggior parte delle persone tendeva ad infastidirsi quando le si psicanalizzava senza il loro consenso. Quando si capiva più di quanto qualcuno voleva mostrare, questo si metteva sulla difensiva perché si sentiva scoperto. Ciò può tradursi in un'espressione che alcuni gli rivolgevano spesso quando ancora faceva osservazioni non richieste, come se volessero rimetterlo al suo posto e ricordargli di pensare ai fatti suoi; e fossero offesi dall'insinuazione fatta, più frequentemente nel caso in cui questa fosse stata qualcosa non ancora realizzata. Dopotutto era una reazione comprensibile e non poteva certo pretendere la mancanza di diffidenza nei suoi confronti, anche perché i pregiudizi su chi facesse il suo mestiere contribuivano alla cosa. Quando era ancora inesperto la cosa un po' lo feriva, ma successivamente aveva imparato a limitare il più possibile queste reazioni con i suoi atteggiamenti e ci aveva fatto l'abitudine.

Immerso in questi pensieri finì l'insalata, dopo che Lilian li ebbe salutati per rimettersi al lavoro, sicché era arrivato l'orario in cui il locale raggiungeva la massima affluenza.

I trenta minuti che i due colleghi avevano per mangiare stavano finendo, perciò, dopo che anche l'altro ebbe finito, si alzarono salutano la proprietaria e uscirono, intavolando una una nuova conversazione che finì appena rientrarono nell'edificio pubblico, separandosi.

*Ritaglio di spazio per le paranoie dell'autrice*
"Questo sarà un capitolo di passaggio, lo farò uscire subito dopo l'altro, mille parole al massimo, tanto è per far conoscere i personaggi in ambito non lavorativo" prima regola di quello di cui mi autoconvinco: io mento a me stessa. Sempre. Sono duemila parole (2289, tengo il conto perché se mai lo finirò voglio calcolare esattamente quanto è lungo), più del doppio di quello che volevo fare. E ci ho messo tre settimane.
Comunque ho bisogno di un feedback: mi sembra che i dialoghi siano troppi o non siano bilanciati rispetto alle parti narrate, voi che ne pensate? Secondo voi i miei personaggi sembrano intercambiabili? Avrei dovuto descrivere di più il loro aspetto e i loro comportamenti?
Per favore, è importante, sono i primi personaggi che creo e non ne sono tanto capace. Grazie in anticipo!
PS: qualsiasi consiglio abbiate, anche solo un'idea o qualcosa che potrebbe rendere la trama interessante, o uno scenario che vi aiuterebbe a conoscere e legarvi ai personaggi sentitevi liberi di propormelo, non ci metto nulla a modificare una parte già fatta (nel caso ci sia qualcosa da cambiare) o a scrivere altre scene e mi aiuterebbe molto.

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