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Quasi le ventidue e sono ancora in ufficio. Sbadiglio più per noia che per stanchezza. Osservo fuori dalla vetrata, è svanito anche l'ultimo bagliore di tramonto e il cielo è completamente buio. Bevo un sorso di vino allungando le gambe sotto la scrivania.
Rimango spesso a lavoro dopo cena per sfruttare il silenzio del cellulare e di Tania, così da poter elaborare al meglio i miei progetti e, grazie all'aiuto del mio collaboratore notturno Brunello assunto in giusta quantità, sono molto più creativa.
Contemplo piacevolmente il lavoro fatto sulla villa dei signori Safin, in sole due ore ho pianificato tutto il soggiorno, la tecnologica cucina (che non useranno mai) e la biblioteca. Nei prossimi giorni, se non avrò intoppi su altri cantieri, dovrei riuscire a ultimare il prospetto.
Adesso basta!
Sbadiglio nuovamente, sorseggio l'ultima goccia di vino, spengo il portatile, l'abat jour, afferro la giacca e cammino verso l'uscita vacillando lievemente. Per fortuna con dieci passi e settanta gradini sono a casa.
Chiudendo la porta una leggera folata di vento profumato mi scompiglia i capelli, inspiro profondamente, è Tiglio, lo adoro.
Cambio di programma, questa sera niente divano e televisione, farò una passeggiata per le vie di Firenze, sarà la città a intrattenermi.
Il ponte è gremito di turisti che, a tutte le ore del giorno e della notte, lo attraversano scattando foto ad ogni centimetro di capitello e lastra in pietra.
Arranco verso via Guicciardini in direzione di Palazzo Pitti, facendomi largo a fatica tra le persone, quando ho un'idea lampante: saluterò Benedetta al bar, quattro chiacchiere con un'amica sono l'ideale per concludere la serata.
Benedetta è una ragazza che ho conosciuto una paio d'anni fa a un corso di aerobica, uno dei tanti che ho iniziato e non concluso, lei faceva parte come me della categoria "irriducibili sfaticate" e, come tale, è stata al mio fianco per ben tre delle dieci lezioni, ci siamo prima studiate, poi conosciute e dopo, di comune accordo, abbiamo comunicato al trainer che non potevamo finire il corso per gravi problemi di lavoro, familiari e non ricordo cos'altro abbiamo inventato. Operazione riuscita, corso terminato, ma mentire di comune accordo ci ha legato e di tanto in tanto ci vediamo per una cena o un caffè nel suo bar di fronte a Palazzo Pitti.
In lontananza una ragazza con un caschetto biondo platino e un abito verde mela sta sparecchiando due tavoli appena abbandonati da un gruppetto di studenti in gita, mi avvicino ancora per guardare meglio, si volta e mi saluta energicamente, capisco, è Benedetta.
Compatibilmente con quello che i tacchi mi concedono procedo a grandi passi verso di lei, quando arrivo ha già poggiato il vassoio in cucina e mi accoglie con un caloroso abbraccio che ricambio molto volentieri.
«Questa volta è passato un secolo Carola, come mai non sei venuta neppure una volta a trovarmi?» Incrocia le braccia piacevolmente risentita.
«Sai come vanno queste cose: il lavoro, la famiglia e tutto il resto mi assorbono un sacco di tempo ed energie» scoppiamo ambedue in una fragorosa risata.
«Siediti dai! Preferisci fuori o dentro nello stupendo salottino che un noto architetto fiorentino ha disegnato apposta per me?» Fa l'occhiolino indicandomi. Sono io il progettista che ha creato il piccolo, ma carino, giardino alla francese all'interno della sala.
«Preferisco l'aria aperta stasera – continuo dirigendomi verso le sedie in ferro lavorato bianco – posso prendere un caffè? Sempre che tu non abbia già pulito la macchina, altrimenti anche un tè freddo». Mi siedo, mentre Benedetta rientra.
«Te lo preparo» dice alzando la voce per sovrastare il rumore del macina caffè. Riprende:
«Devo aggiornarti, in questi mesi sono cambiate un po' di cose sai?» Esce fuori nuovamente con un vassoio dove ci sono in bella vista, oltre al caffè, anche tre piattini ricolmi di biscottini e bon bon colorati.
«Così mi vuoi male Bene, mi rovino!»
«Fai silenzio sei in perfetta forma, mentre io...»
In quel preciso istante noto dal vestito una leggera pancetta, perfettamente camuffata dalle forme generose dell'abito.
«Sinceramente non lo avevo notato». Prendo un biscotto, lo caccio in bocca e ironizzando proseguo. «Non pensare minimamente di coinvolgermi in qualche nuova disciplina, ormai ho smesso con l'attività fisica». Alzo le spalle. «Anche se credo di non aver mai cominciato»
Benedetta ascolta le mie parole con uno strano sorriso. «Credo che questo tipo di ciccia – apostrofa la parola con le dita – vada via tra circa sette mesi»
Poggia le mani sul ventre, adesso riesco a vedere bene le sue rotondità, sono confusa, rimango impietrita, con la bocca sbarrata e un dolcetto alla fragola sospeso a mezz'aria.
«Cioè tu sei...» Indico la zona incriminata, annuisce. «Aspetti...»
«Si, sono e aspetto – ride del mio imbarazzo – puoi dirlo tranquillamente». Sta volutamente prendendomi in giro conoscendo l'allergia alle gravidanze della sottoscritta. «Non rimani incinta alla sola pronuncia della fatidica parola».
Scherza, ma sappiamo entrambe che solo il suono di quella parola può provarmi gravi stati d'ansia. Per innata repulsione non ho mai avuto confidenza con i pargoli e penso di non essere dotata d'istinto materno.
«Sergio è contento?» Immediatamente il suo sguardo si incupisce.
«Ho fatto il test una sera di due mesi fa, dopo uno strano ritardo». Stropiccia in modo ossessivo il vestito. «La seconda linea rossa mi ha travolta e, quando l'ho detto a Sergio, ha travolto anche lui».
«Ma state insieme da dieci anni e convivete da tre»
«Quattro – ribatte – e ti comunico che convivevamo»
Ora sono veramente allibita, lo stronzo l'ha mollata.
«Alle sei mi sono svegliata per venire a lavoro e al mio fianco non c'era nessuno. Mi sono alzata e in cucina ho trovato un biglietto con su scritto "Non sono pronto"»
«Che uomo di merda». Mi tappo la bocca, è tardi.
«Hai ragione, è un uomo di merda». Sospira lisciandosi la pancia.
Annuisco. «Per scopare però sono sempre pronti – ripensando all'altro bastardo riprendo – Lorenzo si faceva l'amica di sua cugina. Li ho sorpresi, mentre si baciavano e programmavano la serata insieme». Mi lascio andare sulla sedia, spossata. Possibile che non esista un uomo decente sulla faccia della terra? Bello, ma stronzo, simpatico, ma codardo, un normodotato con un po' di carattere non esiste?
«Mi dispiace Carola» dice affranta.
«Non preoccuparti per me, mi sono ripresa in qualche modo. Tu piuttosto come affronti la situazione?»
«Superato il momento in cui desideravo che un autobus lo prendesse in pieno – interrompe il racconto per un secondo per superare l'imbarazzo – ho chiuso il capitolo gettando tutte le sue cose dalla finestra il giorno stesso». Sorride. «Poi, con tutta calma, sono scesa e ho lasciato una lettera per Sergio al portiere».
«Cosa ti ha detto Franco? E' anche un tipo piuttosto puntiglioso!»
Ridacchia, probabilmente ripensando alla faccia di quel pover'uomo che aveva assistito alla scena d'isteria.
«Ha preso la lettera e mi ha salutata con la mano, tutto in rigoroso silenzio, devo averlo terrorizzato».
«E lo stronzo?»
«Mai più visto. Quando sono rincasata nel tardo pomeriggio ogni cosa era sparita, sia dal cortile che dall'appartamento e le chiavi erano in portineria come gli avevo scritto a caratteri cubitali nel biglietto».
«Quindi adesso sei al...»
«Secondo mese! E qui dentro c'è un bel maschietto». Indicando la pancia.
Le brillano gli occhi, si vede che nonostante le disavventure passate adesso è felice.
«Meglio sola che male accompagnata».
«No tesoro, sei accompagnata bene – rido – sono felice per te». Interrompo la frase per scegliere le parole giuste. «Cioè non sono contenta per il caos che è accaduto, ma per come ti vedo adesso».
Spero abbia capito e dallo sguardo appagato credo di si.
«Sono felice, ed è una felicità inaspettata e piovuta dal cielo. Non ti nascondo che in alcuni momenti l'ansia mi assale, ma poi guardo la prima ecografia e mi rincuoro. Un fagiolino di pochi centimetri non può far paura».
La parola paura mi risuona nella testa. Quel fagiolino, come lo ha appena chiamato Benedetta, crescerà, nascerà, piangerà, vorrà mangiare a tutte le ore, distruggerà l'impossibile e non voglio immaginare cos'altro potrà combinare. Assorta nei miei pensieri vengo assalita da una vampata di calore iniziando a sudare dalla punta dei piedi fino ai capelli.
«Tutto bene Carola?» Benedetta mi guarda stranita.
Tolgo la giacca e con un tovagliolo inizio a sventolarmi. «Si, solo un po' caldo – inghiottisco – magari con un po' d'acqua...» Ci alziamo insieme. Con una mano le indico di stare seduta. «Ci penso io, so dov'è».
Mi dirigo verso il frigorifero, lo apro, un alito di freschezza mi invade, afferro una bottiglia piccola al volo e, a malincuore, chiudo la porta per tornare nuovamente al tavolo seguita dallo sguardo perplesso di Benedetta.
«Avevo bevuto un po' dopo cena, camminato fino qua, il caffè ed ora mi è salita una vampata, niente di strano».
«Quindi non c'entra niente la tua certificata allergia per le donne incinte e i bambini?» Sogghigna.
«Figurati, l'ho superata da tempo!» tossisco.
«Lo vedo» annuisce.
Beccata.
«Un giorno toccherà anche a te». Lo dice come fosse una profezia.
Osservo l'orologio per virare la conversazione. «Le undici e mezzo? – sbuffo – domani appuntamenti... disegni... sopralluoghi...» Evito il suo sguardo dubbioso.
Con le dita elenca il resto delle mie difficoltà. «Catastrofi... cataclismi... poi? – alza gli occhi al cielo – pietosa interpretazione». Si alza, dirigendosi verso il bancone.
«Hai ragione, ma preferisco non affrontare questa cosa adesso». Indico a gesti poco definiti un corpo rotondo all'altezza del mio ventre. «Poi, il problema non si pone».
Sempre di spalle mi apostrofa. «Lo pensavo anch'io bella».
Inizio a mettere le tazzine ed i piatti all'interno del vassoio. Proprio non molla, è dannatamente cocciuta.
«Carola sono incinta, non malata – ride scuotendo la testa – questo bar lo gestiamo io e mia madre, quindi devo abituarmi a ritmi serrati, gravidanza o non gravidanza». Afferra il vassoio dalle mie mani per evitare danni, poi continua. «Dopo il parto sarò costretta a lavorare praticamente subito, quindi il bambino, invece di andare al parco, starà nel giardino alla francese».
«Pensa se non mi avessi ascoltata!» Alzo le mani al cielo, come per grazia ricevuta.
Poggia velocemente il vassoio sul bancone e, imitandomi nei gesti, ribatte: «O Dio! Allora anche tu, nel profondo, ma proprio in fondo in fondo sei dotata di una specie di istinto materno! Questo è un segno!»
«Idiota!» Concludo drastica e, scoppiando entrambe in una fragorosa risata, ci salutiamo.
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