26a) ORRORE SENZA FINE

Le forze gli mancavano, era senza fiato.

A un tratto si accorse di qualcuno che nuotava verso di lui, veniva a salvarlo! Fu solo quando lo sconosciuto gli fu addosso che lo riconobbe ed ebbe un tuffo al cuore.

Era l'altro lui, l'Infame, con tutto il peso del suo corpo si gettò su Wal e lo trascinò a fondo.

Ma per sfortuna dell'aggressore il fondale non era sufficientemente profondo.

Appena Wal sentì qualcosa di solido sotto i piedi si diede una poderosa spinta verso l'alto. Era la disperazione a dargli la forza di reagire. Non pensava che i suoi muscoli avessero ancora tanta forza da dare, eppure riportò entrambi in superficie. Lottarono selvaggiamente, uno per la propria vita, l'altro per prendergliela, ma la lotta era impari. Le sue forze erano limitate mentre quelle del Infame erano cariche di odio. Non poteva farcela!

Il volto del Infame era distorto dallo sforzo, ma a un certo punto la sua espressione divenne di dolorosa sorpresa. Due grosse ciocche dei suoi capelli si sollevarono dal pelo dell'acqua e iniziarono a tirarlo indietro, con forza, obbligandolo a lasciare un poco la presa sulla testa di Wal. Due forme appena indovinabili si stagliavano nell'aria dietro di lui, librando leggere: i due Aldaberon evanescenti, il Timido e lo Sfrontato, erano accorsi in suo aiuto.

Contemporaneamente arrivò anche l'Antico. Si era lanciato in acqua e si avvicinava con poderose bracciate. Colpì l'Infame in pieno volto, violentemente, senza pietà, per fare male, tanto. Il colpo che tirò fu sufficiente per staccare definitivamente l'Infame da Wal che, stordito, si allontanò galleggiando sull'acqua. Andandogli accanto lo cinse sotto le braccia e lo trascinò a riva, lasciandolo steso sulla sabbia a riprendersi.

Wal sputò acqua e sale, sabbia e disgusto per quello che aveva visto, ma era troppo debole per muoversi. L'Antico allora si sedette sulla sabbia, ad aspettare. Negli occhi aveva il disprezzo per l'Infame. Anche lui aveva raggiunto la riva e si massaggiava piano la bocca dolorante.

Wal, quando ebbe abbastanza forza nelle braccia per mettersi seduto, vide che altre quattro impronte segnavano leggere la sabbia davanti a lui. Per quanto non potesse vederli, capì subito che si trattava degli altri due Aldaberon, il Timido e lo Sfrontato.

Erano stati loro a strattonare l'Infame per i capelli.

"Grazie a tutti" disse ai tre, poi aggiunse "dove siamo?".

"La tua anima è tornata nel Mondo degli Antichi Padri" gli rispose l'Antico "Ne aveva bisogno".

Per quanto sorpreso, Wal rimase incredulo. Istintivamente provò a chiudere gli occhi e immediatamente vide anche gli altri due Aldaberon che, per quanto evanescenti, ora poteva vedere chiaramente. Gli sorridevano e gli mandavano un cenno di saluto. Era vero, allora.

<Ma come è possibile? > Pensò. Gli altri lo sentirono e sorrisero.

"Il vulcano è una delle Sei porte dell'Era dei Sei Elementi e la tua anima è forte, Wal" gli rispose il Timido. Come sempre si teneva un poco in disparte dagli altri. La sua voce era dolce e flautata, delicata proprio come la sua immagine.

"Sei stato bravo, sei tornato da solo. In pochi possono, ma ora vai" aggiunse lo Sfrontato "Torna dalle cagne in calore che ti aspettano. Qui sei in pericolo, Karahì ancora ti cerca!".

Vedendo che anche l'Antico annuiva, Wal si alzò faticosamente e si allontanò senza voltarsi indietro. Sentì alle sue spalle la voce dello Sfrontato che gli gridava: "Vai stallone, fai il tuo dovere!", poi, giù, una risata sguaiata.

Aveva ancora nelle orecchie la sua risata, quando riaprì gli occhi e si ritrovò nella galleria del vulcano. Si sentiva più tranquillo e l'ustione al braccio non doleva più molto. Aveva ripreso il controllo dei denti e respirava molto meglio. Davanti a sé vide i volti di Radice e di Salice che Ride che sospirarono sollevati quando lo videro riprendersi. Erano preoccupati per lui.

"Tutto bene?" gli domandò la Grande Madre. La Yaonai gli toccò il volto con dita fresche e morbide.

Lo assaporò, quel contatto, appoggiandogli la guancia contro come se quel semplice sostegno potesse rincuorarlo.

Non sapeva esattamente di cosa aveva desiderio in quel momento, ma di certo voleva un poco di pace, fisica e mentale. Si vergognava di come aveva reagito alla vista dei due Ka-ranta.

Aveva ceduto alla paura, lui che solo poche ore prima voleva salvare quel popolo dai pericoli che lo circondavano. Ora dubitava addirittura di poter salvare se stesso, altro che salvare tutti loro.

A vederli combattere sapevano difendersi molto bene anche da soli e nemmeno la scusa di essere disarmato, avrebbe sortito miglior effetto. Forse per gli altri, sì, ma non per lui, per il suo amor proprio. A loro avrebbe potuto dirlo, ma lui sapeva, che come è certo che il sole sorge a Est, così lui sarebbe rimasto impietrito dalla paura anche se avesse avuto con sé un arma.

Colmo di questa consapevolezza faticò non poco a sostenere i loro sguardi preoccupati, tanto che, imbarazzato, a un certo punto dovette abbassare il suo.

Annuendo, stanco e provato moralmente, si staccò dal solido appoggio della roccia e provò l'equilibrio sulle gambe. Lo reggevano, ma si sentiva spossato, incapace di parlare o di ragionare lucidamente. Aveva bisogno di tempo per ripensare a tutto quello che era avvenuto, non se la sentiva di riprendere subito il suo posto come Gopanda-Leta. Anche di questo si vergognava, solo che non sapeva come dirlo. Si aspettavano così tanto da lui, quelle persone.

Troppo, forse.

La Grande Madre volse preoccupata uno sguardo all'esterno che diveniva di volta in volta più chiaro: era una giornata limpida e il sole splendeva. La sue tinte rosa e arancioni lasciarono rapide il passo ai colori del giorno fatto. I resti ghiacciati dei due Ka-ranta si scioglievano veloci sotto i suoi raggi e la temperatura risaliva veloce, ma qualcosa preoccupava Salice che Ride.

"Devo andare" disse a Radice "Non posso trattenermi oltre. Occupati tu di lui e tornate al villaggio il prima possibile. Entro oggi, se potete. Altrimenti domani. Ricordagli i suoi doveri di Gopanda-Leta". Radice annuì.

Wal la guardò allontanarsi veloce, vedendola scomparire ben presto oltre il portale. Un leggero scalpiccio sulla ghiaia segnalò il suo cammino ancora per un poco, poi anche quello si dileguò, lasciando i due ragazzi soli. Dalla foresta udirono arrivare i canti degli uccelli che salutavano il nuovo giorno, incuranti della lotta furiosa appena conclusa. Non avevano il dono della memoria, non dovevano patire le ire dei ricordi, loro.

Per un momento Wal si ritrovò a invidiare quella loro vita così semplice, immersa in un costante presente in cui contava solo ciò che era impellente.

Mangiare, bere, dormire, accoppiarsi, tutto lì, senza altra preoccupazione che quella di soddisfare i bisogni man mano che essi si presentavano.

<Come sarebbe bello vivere così> pensò tra sé, tentato da quella soluzione semplice e netta.

Ma poi pensò che quegli esseri innocenti non avevano un nome di cui andare fieri, un compito, una missione da portare avanti. Probabilmente nemmeno si ricordavano delle generazioni che li avevano preceduti e delle forze che li portavano a comportarsi come facevano. Lui, sì, invece.

Aveva troppe cose sulle spalle: pesavano come un macigno, troppo alle volte, ma al tempo stesso gli erano di conforto e sostegno. I tre Aldaberon che l'avevano aiutato e confidavano in lui per poter finalmente riposare in pace, non si meritavano questa sua debolezza.

A modo loro erano stati fieri del nome che avevano portato. Anche lui doveva esserlo. La sua era una condanna e doveva sopportarla. Se voleva un giorno poter riposare in pace, doveva accettarlo. Con uno scatto d'orgoglio si sforzò di reagire all'apatia in cui stava cadendo, così pericolosamente simile a quello che aveva combattuto per tutto l'inverno. Lui voleva vivere, per poter dire un giorno, ho vissuto degnamente.

Sottovoce, quasi mormorandolo: "Il mio nome è Aldaberon", disse quasi a ricordarselo, attirando l'attenzione di Radice. Nella mano stringeva ancora l' ascia. Wal se ne era accorto solo ora.

"Come hai detto?" gli domandò Radice, felice di vederlo reagire. Gli si avvicinò per ascoltarlo meglio. Allora lui ripeté, con maggiore forza: "Il mio nome è Aldaberon! Appartengo al popolo dei Vareghi e tu hai il mio permesso di dirlo ad altri".

Lo disse con tutta la fierezza di cui disponeva in quel momento, ripetendo poi tra sé, sottovoce, il nome del suo popolo.

Gli era salito alle labbra come un fiotto di vomito, rapido, caldo e improvviso.

Bruciava, era acido. Era balzato fuori dalla bocca come un sorso d'acqua che per poco non lo strozzava. Lo sputò fuori in una reazione incontrollata e quando l'ebbe fatto si sentì meglio.

Era il suo passato che tornava un frammento alla volta, strappando sempre più quel velo che l'aveva coperto per molti mesi.

Sulle prime il ragazzo si mostrò sorpreso, imbarazzato quasi da quella rivelazione avvenuta senza l'intercessione di un terzo.

Un leggero rossore gli salì alle gote e dall'agitazione lasciò cadere l'ascia che al contatto con la pietra tintinnò sonora. La raccolse veloce, ripulendola accuratamente da schegge di roccia e polvere. La guardava con un misto di affetto e preoccupazione, senza fanatismo, ma con tanto rispetto e timore.

Era un sacerdote e quello che maneggiava era sacro per il suo popolo. Lo si vedeva chiaramente.

Dopo aver ripulito l'arma più a lungo del necessario per avere del tempo per pensare, disse:

"È un grande onore, amico mio, dirmi il tuo vero nome e quello del popolo a cui appartieni. Un grande onore, sapendo quanto dolore ti hanno provocato. Anche Flot ne sarà felice, stanne certo".

Al sentire il nome di Flot, a Wal venne un tuffo al cuore.

Salice che Ride era sua moglie. I Sednor e i Ratnor parevano non dare nessuna importanza alla cosa, ma lui sapeva che, al pari della Grande Madre, anche il suo amico soffriva. Flot e Salice che Ride accettavano la cosa per il bene dei loro popoli, ma senza gioia.

Wal aveva fatto all'amore con la donna di Flot e ne aveva provato piacere, per sé e per il suo avo, ma nel suo profondo più intimo sapeva che non era stata una cosa giusta. In modi diversi, ognuno di loro tre era vittima di situazioni che non avevano scelto. Entrambi le accettavano per consuetudine, per rispetto delle regole, forse per fede o per necessità, comunque controvoglia rispetto ai desideri personali.

Se non fosse stato per il nome che portavano, per la posizione che occupavano, probabilmente anche loro avrebbero gettato al vento tutto questo e sarebbero corsi via, lontano, insieme, ma tante cose li legavano e li obbligavano a rimanere dove si trovavano. Un bene superiore alla persona stessa, il bene di tutti coloro che condividono con quella persona un sogno e gli hanno affidato la responsabilità di compierlo.

Questo gli aveva trasmesso con le parole Flot, pochi giorni prima sul vulcano, accanto all'altare. Questo era ciò che traspariva da quello che gli aveva confidato Salice che Ride: il senso del dovere. Puro, crudo, violento, necessario.

Anche Ranuncolo gli aveva dato l'impressione di volere a tutti costi essere al suo servizio, ma perché? Per fede, per obbligo o per necessità?

I suoi occhi dai due colori piantati nei suoi, con una supplica scolpita dentro, l'avevano colpito, gli erano rimasti impressi nella memoria chiari e vividi.

<Nessuno, dunque, è libero di fare quello che vorrebbe veramente?>  Si domandò.

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